Sente quel rumore mentre sua madre fa saltare le verdure in padella, è un movimento che riesce sempre a strappargli uno sguardo di meraviglia. Questa volta il momento viene rovinato da quel rumore, non lo ha mai sentito prima, ma non è un tipo di rumore del tutto nuovo. Anzi, a dire il vero è strano perché quel tipo di rumore lo associa a momenti felici, è un rumore che fa sua madre quando tira indietro la testa e chiude gli occhi, è un rumore che fa anche suo padre, di solito quando è sul divano e guarda il televisore, è un rumore che fa anche lui quando vede qualcosa di particolarmente scomposto, è un rumore che parte dalla pancia, attraversa la gola ed esplode in bocca, è liberatorio e irrefrenabile. Ma questo, questo che ha sentito adesso, pur condividendone i tratti non ha nulla a che vedere con tutti quei rumori, così diversi, personali, eppure tutti accomunati da una sorta di piacevolezza intrinseca.
Quel rumore non gli piace, è stato un doppio scoppio con una sorta di risucchio più acuto.
Mamma, dice. Mamma, mamma ripete.
Che c’è tesoro?, risponde sua madre senza girarsi.
Mamma, mamma mamma, non sa come appellarsi, non sa come esprimere il disagio profondo che sente. Mamma mamma mamma mamma, un vocabolo che lentamente si scioglie in pianto e la madre si gira, lascia le pentole sul fuoco e lo alza dal seggiolone.
Ehi, shhh, cosa succede tesoro, no, non fare così.
Muammua.
Shhh, non è successo niente.
La madre lo tiene con un braccio sotto il sedere e con l’altro gli circonda la schiena e lo culla su e giù Shhh, non è successo niente, ripete. Il suo pianto si placa, ma la sensazione di pericolo non passa. Dopo qualche minuto la madre lo rimette sul seggiolone e riprende a spadellare, ma ormai per lui quelle manovre hanno perso ogni attrattiva.
Nei giorni seguenti i genitori notano che la pacatezza del bambino ha cambiato tonalità, non è più un’acquiescenza naturale, una miracolosa disposizione d’animo; ora si direbbe che quella del bambino è una calma concentrata e allerta, forse addirittura spaventata, come in attesa di qualcosa o qualcuno. In generale è meno attivo nei giochi, meno vivace e coinvolto, mostra insofferenza e la notte si sveglia spesso: non era mai successo, se non quando stavano spuntando i primi denti.
Passerà, si dicono i genitori.
In fin dei conti era troppo bello per durare.
Tutti i bambini fanno i capricci.
Chissà cosa gli passa per la testa.
Vorrei… se si potesse esprimere, gli vorrei chiedere cosa c’è, cosa non va.
Aspettiamo prima di portarlo dal pediatra, vediamo se gli passa.
Passerà, si ripetono.
La seconda volta che la sente è a ridosso del suo terzo compleanno, non molto tempo dopo la prima.
È una domenica di fine estate, la madre è distesa sul divano con le gambe sopra le cosce del padre, guardano un programma alla televisione mentre lui gioca sul tappetone.
Dal televisore arrivano tanti di quei rumori che lui associa a momenti felici, e che di solito ricevono in risposta un rumore simile da parte dei suoi, sebbene quel giorno non mostrino alcun segno di interessamento a quello che passa sullo schermo. Nessuno di quei rumori gli dà fastidio, nessuno di quei rumori è quel rumore, quello che adesso sente chiaramente, che sovrasta anche quelli della tv, è un chiaro: ah ah aheee.
Muammua!, e subito si mette a piangere.
La madre neanche si mette in piedi, si lascia scivolare dal divano sul tappeto in ginocchio.
Cosa succede amore?
Il padre si piega.
Stella, non fare così.
Rumore, dice.
Rumore?
Quale rumore?
Fuello, fuello di prima.
Il rumore di prima?
Di prima.
Prima quando?
Prima!, urla, è tutto quello che ha da dire.
La madre lo accoglie in un abbraccio e si volta verso il padre, senza volume gli chiede muovendo le labbra:
R-U-M-O-R-E?!
Il padre si stringe nelle spalle e spalanca gli occhi. La madre lo culla avanti e indietro.
L’indomani il padre chiama il pediatra, gli dice che è urgente e fissano un appuntamento per martedì.
Martedì entrambi i genitori prendono ferie dal lavoro, l’appuntamento dal pediatra è il pomeriggio presto e decidono di passare tutta la mattinata fuori: uscire di casa, pensano, farà bene a tutti.
Non immaginavano, nemmeno osavano sperare, che bastasse una mattinata fuori casa per ristorare l’umore del figlio. Il bambino sembra tornato a quella placidità originaria, intoccata, come se nulla lo avesse mai scosso e, anzi, cominciano, i genitori, a pensare di esserselo immaginato, o se non proprio immaginato forse di aver sovra-interpretato i sintomi, cominciano a dirsi che forse il vero problema sono loro, forse sono più stressati del solito al lavoro e hanno proiettato su dei normalissimi pianti di un bambino il loro malessere. Ma, d’altra parte, si rispondevano alternando, come una coppia di improvvisatori ben rodata, la parte dello scettico e dell’apologeta, d’altra parte il modo di comportarsi di loro figlio cambiava dal giorno alla notte, dal bianco al nero, quando erano in casa e quando erano fuori. All’asilo le maestre dicevano che era sempre tranquillissimo, anche nell’ultimo periodo non avevano notato nessun cambiamento. E quando andavano a casa dei nonni provavano una tale vergogna a mostrarsi stanchi, assonnati, stremati di fronte a un esempio di serenità nirvanica come era quella di loro figlio, che facevano di tutto per dissimulare i segni della mancanza di sonno e di lucidità.
E questo, allora, non confermava forse che erano loro il problema? O che forse il problema lo stavano attribuendo loro al figlio?
Sull’irresolutezza ha la meglio il tempo quando, a fine pranzo, si rendono conto che manca mezz’ora all’appuntamento col pediatra e non lo hanno ancora disdetto.
Il medico conferma quello che i genitori si erano ripetuti per tutta la mattinata: il bambino sta bene, è tranquillo, sorride, risponde e non ci sono segni di lesioni al timpano o in generale all’apparato uditivo.
I genitori sono sollevati, sollevati perché il figlio è in salute; perché il pediatra, dopo che loro avevano passato la mattina a colpevolizzarsi, li aveva sollevati da ogni responsabilità dicendo che era perfettamente normale che i bambini mostrassero comportamenti anormali di tanto in tanto, dovuti più a un’insofferenza per non essere in grado di comunicare che non a qualche mancanza genitoriale o qualche patologia sopita; sollevati di non aver rovinato per colpa della loro goffaggine genitoriale un prodigio di serenità e armonia d’animo, pronti per tornare a casa, sentendosi dopo tanto tempo alleggeriti, appena usciti dallo studio sentono il bambino che, con fermezza militare e il ciuccio in bocca, dice:
Io nuon vojo toanae a cajscia.
Come non vuoi tornare a casa?
Siamo stati fuori tutto il gior-
Io. Nuon. Vojo. Toanae. A. Caiscia.
Rimangono fuori fino a cena, mangiano al ristorante, il bambino stringe amicizia con uno dei camerieri, un ragazzo col piercing al labbro che il bambino guarda con ammirazione.
Ma quando il rientro si fa inevitabile il bambino sprofonda in uno stato di disperazione assoluta, urla: Nuon vojoooo, nuon- nuooooon vojoooo.
Temono che nell’androne qualcuno si affacci per le scale, ma non succede.
A tre anni inizia la materna, le giornate si sono accorciate, si è alzato un vento autunnale e passare le giornate fuori casa sta diventando sempre più sfiancante: si danno il cambio, per poter dormire il pomeriggio al ritorno dal lavoro, dove comunque non concludono granché, e qualcuno inizia a mormorare.
I nonni sono pronti a correre in loro soccorso, sempre disponibili, ma qual è, si chiedono la madre e il padre, il confine tra supporto e affidamento?
La giornata peggiore, forse, è un venerdì quando, esaurite le scuse con cui rimandare una cena promessa da mesi, i genitori decidono di ospitare a casa una manciata di amici, confidando, sperando, in una tregua del figlio.
Alle cinque del pomeriggio il bambino cammina come una furia per casa, il padre bada alle pentole, mentre la madre si scervella senza risultato per trovare delle attività che ne arginino l’irrequietezza.
Ti prego, tesoro, vieni a giocare con mamma!
Ma il bambino si è bloccato, si gira e il volto è già una maschera di pianto:
Il rumore muammua!
La serata è un disastro, la madre accoglie gli invitati scusandosi, mentre il padre cerca di far addormentare il bambino in camera da letto; la pasta è scotta e tiepida, l’arrosto, anche se la parte bruciata è stata raschiata via, ha comunque assorbito il sapore cinereo del cibo bruciato, e senza sugo è come masticare corteccia; loro due non sono quasi mai insieme nella stessa stanza e partecipano alle conversazioni distrattamente, scusandosi di continuo, accennando ad alcuni problemi del figlio, per poi correre a dare il cambio in camera all’altro.
Alle undici e mezza se ne sono andati tutti, dopo aver sparecchiato, lavato i piatti, scopato per terra e portato giù la spazzatura.
Quella è solo la prima di molte notti che passeranno in macchina, ultimo, disperato tentativo di far addormentare loro figlio e concedersi qualche ora di sonno.
Prima o poi a uno dei due sarebbe toccato proporlo, da troppe settimane la situazione è fuori controllo, qualcuno aveva allertato i servizi sociali perché aveva visto una famiglia che di notte dorme in macchina con un bambino di tre anni, una scena allarmante per chiunque, ed era stato infernale dover spiegare la situazione, erano dovuti intervenire nonni, amici, colleghi e solo per un pelo si era evitato che finissero al tribunale per i minori.
Quindi, di dirlo, se ne incarica la madre, una sera a cena fuori, dopo che hanno lasciato il figlio dai nonni:
Forse dovremmo trasferirci.
Solo in casa fa così.
Se il problema è la casa la cambiamo.
E comunque fra un po’ avrà bisogno di una stanza più grande.
In verità non è mai stata in discussione questa eventualità, serviva solo che qualcuno la esplicitasse.
Le ultime settimane prima del trasloco, trascorse tutti stretti a casa dei nonni, sono immerse in un’atmosfera onirica, forse perché finalmente, dopo mesi, riescono a fare otto ore ininterrotte di sonno.
Sono passati due anni dal loro trasferimento e quel basso, costante terrore che si era introdotto nella loro vita al passaggio dai due ai tre anni del figlio si è ormai ridotto a un brusio di fondo, un’interferenza statica relegata al passato.
Già dopo i primi mesi dal trasferimento, quando vedono che il figlio non abitava più la casa con quell’ipercinetismo isterico, quella distrazione bulimica, non si abbandonava più sfinito a sonni agitati, ma aveva ripreso a immergersi nella sua attività onirica come si trattasse di un bagno di latte e miele, già dopo quelle prime avvisaglie di ritorno a quella che avevano sempre considerato normalità, stabiliscono insindacabilmente, come per editto, che il bambino sta bene, era sempre stato bene, e che se nell’ultimo periodo avevano trovato particolarmente faticoso il loro ruolo di genitori la responsabilità andava imputata più a loro che al bambino.
Aspettarono ancora qualche mese per inaugurare la casa: un po’ perché volevano assicurarsi che il benessere del bambino non fosse momentaneo (pretesa assurda, lo riconoscevano anche loro, poiché impossibile stabilire a priori quanto a lungo quel momento di benessere sarebbe durato prima di tralignare), un po’ perché, memori dell’ultima volta, forse perché davvero occupati, fu il turno degli amici di procrastinare l’invito a cena.
Ma dopo sei mesi, vari giri di telefonate e diplomazie incrociate, riuscirono a invitare tutti a casa: fu un successo, una di quelle rare volte in cui le persone, a fine serata, prendendo la porta di casa, dicono in tutta sincerità e con l’intento di far seguire fatti alle parole:
Dovremmo rifarlo qualche volta.
Più che una cena sembrò un ricevimento per l’investitura del nuovo buddha incarnato: il bambino sedeva a capotavola dispensando bacini, carezze e sorrisi; il risotto stupì tutti, ma fu il pesce spada a entusiasmare gli animi; e alla fine nessuno dovette lavare i piatti perché nella nuova casa c’era la lavastoviglie.
Dopo sei mesi era impossibile, anche per i genitori, immaginare che quel bambino fosse stata la causa della perdita di ore di sonno, di frustrazioni e scompensi emotivi; impossibile pensare che la causa principale del loro trasferimento fosse il comportamento da impossessato, sarebbe venuto da dire, del figlio, e così cominciarono a raccontare, a loro stessi, agli amici, ai nonni, e anche tra di loro la notte prima di andare a dormire, che il trasloco era in cantiere da tempo, che il bambino cresceva e aveva bisogno di una stanza più grande, che anche loro avevano bisogno di un cambiamento.
[…] continua
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