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SRY (non è quel tipo di demone)

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Sry è una specie di demone che ha dovuto aspettare quasi mezzo secolo, per tornare sulla Terra per affrontare Orphys, il suo nemico . Il problema è che questa volta la situazione è diversa: il corpo che deve ospitarlo è quello di Lou Mellow, l’ultimo dei suoi discendenti. Superata da poco la boa dei trentacinque anni, Lou non è certamente quello che si definisce un maschio risolto: è stato cresciuto da una madre single amorevolmente opprimente ed è fidanzato con una ragazza in (gran) carriera. Come non bastasse, è ossessionato dal politicamente corretto, è vegetariano e fa sesso solo di venerdì. Diventa subito evidente che oltre a trasformare Lou in un degno ospite, Sry deve trovare alleati. Così, all’improbabile duo si aggiungono un sacerdote divorato da una maledizione che gli lascia poco tempo e nessuna speranza, un negro (di colore, n.d.Lou) e cieco (non vedente, n.d.Lou) che cammina tra i due mondi e un licantropo in grave e giustificata crisi di identità.

Perché ho scritto questo libro?

“Sry (non è quel tipo di demone)” racconta di una possessione demoniaca riuscita a metà. Nulla di intellettuale, evidentemente. In realtà, questo urban fantasy a tinte comiche nasce dall’idea di confrontare due diverse declinazioni di mascolinità: quella moderna, tormentata da un debilitante senso di colpa; e quella primordiale, una forza ugualmente capace di costruire e di distruggere. Nel libro, l’uomo e il demone si incontrano, si scontrano e alla fine, un po’ si capiscono. E nella realtà?

ANTEPRIMA NON EDITATA

CAPITOLO 5

Era stato un brutto sogno?

Fu questo il primo pensiero di Lou quando rinvenne e si rese conto di essere nel suo letto, nella sua camera, nella sua casa. La luce e i rumori che filtravano dalla finestra gli rivelarono che era mattina avanzata. Guardò l’orologio: le undici e mezza. Almeno, era riuscito a dormire qualche ora

Non appena si fu schiarita la mente, però, avvertì il dolore al fianco destro e una sensazione di stordimento artificiale che resero immediatamente reali i ricordi della giornata precedente: il rapimento, il risveglio nella casa della nonna, il piccolo tatuaggio e… la voce.

Come uno schiocco di frusta, il ricordo di Sry gli causò un sussulto doloroso. Sapeva che, qualunque cosa fosse, quella presenza era ancora lì: per quanto ci provasse, non riusciva a negare la sua realtà. Per il momento taceva, ma era da qualche parte, dentro di lui.

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Vincendo le vertigini e ricacciando indietro la saliva dolciastra che gli riempiva la bocca, si alzò e si diresse in bagno. Come era solito fare, non accese la luce, aprì l’acqua, la fece scorrere finché non divenne tiepida e se la tirò in faccia con entrambe le mani. Ripeté l’operazione fino a quando non lavò via il sonno residuo, quindi afferrò a tentoni lo spazzolino e procedette a lavarsi i denti, cercando di cacciare via il saporaccio che continuava a sentire in bocca. Solamente dopo che ebbe esaurito quel suo breve rituale osò cercare il tatuaggio sul suo fianco. Era ancora lì, lo poteva vedere anche nella penombra. Sembrava quasi promanare una debole luminescenza.

Si passò la mano sul volto, sfregandola con rassegnata disperazione, poi l’abbassò lentamente, ritrovandosi nuovamente faccia a faccia con se stesso. L’immagine che si ritrovò a fissare era appena migliore di quella che aveva incontrato la volta precedente, un po’ più simile al suo aspetto usuale: era quella di un trentacinquenne dal volto pallido e i lineamenti banali, una fronte ampia su cui cadevano ciocche di capelli spettinati e due occhi stanchi, circondati da un alone scuro che amplificava l’effetto delle borse che rendevano la sua un’espressione costantemente dolente.

Come avesse fatto una donna bella e spigliata come Victoria a innamorarsi di lui, rimaneva un mistero.

Victoria! Come si sarebbe dovuto comportare con lei? Le doveva raccontare cosa gli era capitato? Le doveva raccontare di Sry?

La sera prima le aveva mentito. Era stata la prima volta in sette anni. Le aveva telefonato e detto che era stato chiamato a Philadelphia per una consulenza libraria e che avrebbe trascorso la notte fuori città. Invece, si trovava in New Jersey, in quella che avrebbe potuto definire la casa di famiglia, se non fosse stata soprattutto la casa dei suoi incubi.

Victoria non era stata inquisitoria come al solito; in altre circostanze, lo avrebbe di certo sottoposto a un breve quanto serrato interrogatorio grazie al quale non avrebbe faticato a smascherare la sua bugia. Per fortuna, la fine del trimestre era alle porte e in quel periodo le incombenze burocratiche assorbivano la maggior parte della sua attenzione, così aveva accettato la spiegazione di Lou con relativa tranquillità, aveva snocciolato le consuete raccomandazioni, lo aveva salutato con il suo affetto premuroso e maternamente assertivo, e poi aveva chiuso la comunicazione.

Lou aveva trascorso la notte precedente nella stanza al piano di sopra, quella dove si era risvegliato. Poco prima dell’alba, Thomas e Daisy, i due ragazzi, lo avevano svegliato, caricato frettolosamente – ma questa volta con una certa cerimoniosità e, soprattutto, senza cloroformizzarlo – sul furgoncino trasandato parcheggiato nel cortile e quindi riaccompagnato a casa, depositandolo di fronte alla porta e ripartendo senza una parola o un saluto. Appena entrato, si era gettato sul letto, piombando in un sonno silenzioso e incolore.

In tutto quel tempo, la voce non si era più fatta sentire. Dopo avere parlato con Eve, Sry – qualunque cosa fosse – si era chiuso in un mutismo ostinato. Il che da un lato lo confortava, perché voleva dire che probabilmente non si trattava di un tumore allo stato terminale. Al massimo, era un tumore intermittente, ma quelli erano meno gravi, vero?

Perché non aveva studiato medicina, invece che storia?

In ogni caso, doveva capire cosa gli stava succedendo. Victoria sarebbe tornata di lì a poco e, lavoro o non lavoro, non avrebbe impiegato più di un minuto per capire che c’era qualcosa che non andava. Insomma, bisognava trovare il modo di uscire di casa senza destare sospetti. Le avrebbe detto che aveva del lavoro arretrato (cosa vera, del resto, e niente affatto inedita) e che sarebbe andato in facoltà per passarci tutto il pomeriggio. Questo gli avrebbe concesso alcune ore di tempo per raccogliere le idee e magari trovare una spiegazione razionale a quanto gli era capitato.

Aveva appena terminato di vestirsi, quando udì provenire dal pianerottolo il rumore ticchettante di passi svelti e sicuri avvicinarsi alla porta, seguiti dal tintinnare delle chiavi e infine dal cigolio della porta che si apriva.

“Brrr! Fuori fa un freddo terribile” trillò Victoria, appoggiando la borsa sul tavolino dell’anticamera e togliendosi il cappotto. “Meno male che la riunione non è andata troppo per le lunghe.”

“Ciao, amore!” la salutò Lou, forse con troppo entusiasmo. “E così, fa freddo, eh?”

“Sì, l’ho appena detto.”

Ecco, cominciamo bene.

“Ehm, sì, è solo che volevo essere sicuro, magari è il caso che mi metta la giacca pesante.”

Victoria si voltò finalmente verso di lui, puntandogli uno sguardo austero e penetrante.

“Ma come, esci? Non dovevamo mangiare assieme?”

Giusto, dovevano mangiare assieme. Lo aveva proposto lui stesso durante la telefonata della sera precedente, sull’ispirazione del momento, per stornare l’attenzione della fidanzata dalle goffe contraddizioni con le quali stava infiorettando la bugia che le stava propinando.

“Mangiare assieme! Certo, dobbiamo mangiare assieme. Scusami, dove ho la testa?”

“E comunque, dove dovresti andare?”

Victoria aveva dismesso quasi istantaneamente l’aria vagamente giocosa con la quale era entrata per passare alla temuta modalità inquisitrice, il tutto senza smettere di sorridere: un sopracciglio appena incurvato, le narici leggermente allargate… era tutta una questione di dettagli, dettagli che Lou percepiva ormai a un livello subliminale.

“Ho del lavoro arretrato… compiti… correzione… voti. Insomma, cose così.”

Eppure, l’aveva studiata così bene.

Il sorriso di Victoria diminuì di mezzo tono.

“Capito”, disse, avviandosi verso la cucina.

“A proposito di lavoro, come è andata ieri?” chiese, mentre estraeva dal frigorifero una terrina di quinoa e una bottiglietta di the verde.

“Bene. Direi bene. Abbastanza bene. Benino, insomma.”

Doveva uscire di lì, stava cominciando a sudare.

“Ancora al lavoro sul libro?”

“Sì, ancora.”

“Quando lo finirai, Lou?”

“Sono agli ultimi tre capitoli.”

“Sì, lo so. Sono due anni che sei agli ultimi tre capitoli.”

“Sono i più difficili, si sa. Per l’inizio dell’anno prossimo avrò terminato la revisione e lo manderò alla commissione.”

“Lo voglio sperare” tagliò corto la ragazza, inasprendo lo sguardo. “Devi pubblicare, Lou, so che MacIntire e Johnson hanno già consegnato i loro lavori, ti stai giocando la cattedra.”

“Lo so, amore, lo so. È tutto sotto controllo, ti prego, non ti preoccupare.”

Il tono supplice sembrò fare il suo effetto: lo sguardo duro di Victoria si addolcì e le labbra si aprirono a un sorriso comprensivo.

“Sai che lo dico per te, Lou. Lo dico per noi. Con l’incarico a tempo indeterminato, potremmo permetterci di comprare una casa come dico io, una con due bagni e una cucina vera, non un angolo cottura…”

“Ma noi non cucinia…”

“… e magari” continuò, avvicinandosi a passi morbidi e ancheggianti, “una stanzetta per il bambino…”

“… ma noi non abbiamo… oh.”

Adesso Victoria era a un passo da lui. Poteva sentirne il profumo leggero ma penetrante, osservare le sue chiare iridi striate e le sue labbra morbide socchiudersi…

Ma allora sei ricco!

L’urlo gli uscì proprio male, più che altro assomigliava a uno squittio isterico.

“Che diavolo ti prende?! Sei impazzito?” lo aggredì Victoria. Il suo urletto l’aveva presa di sorpresa, facendole compiere un balzo all’indietro che per poco non l’aveva fatta cadere. Per un attimo, aveva perso il controllo della situazione, e non c’era nulla che la facesse infuriare di più.

Devi per forza essere ricco, se questa sventola sta con te. Sei ricco, vero?

No, non sono ricco. Lasciami in pace, ti prego.

Allora è scema.

“Scusami, amore, mi era sembrato di vedere un topo correre sotto il divano.”

“Un topo?”

“Forse mi sono sbagliato…”

“Certo che ti sei sbagliato. Un topo! In casa! Sei impazzito?”

Ma davvero sta con te?

“Sì.”

“Sì cosa, Lou? Sei impazzito?”

“No?”

Allora, stai con lei o no?”

“Sì, sto con lei!”

“Con chi stai, tu?”

“Con te! Con te! Sto con te!”

Victoria lo fissò in silenzio per qualche istante, poi la sua espressione si fece nuovamente più dolce e con la mano accarezzò delicatamente la sua guancia.

“Povero caro, sei stanco, vero?” sentenziò, allontanandosi leggermente e squadrandolo da capo a piedi.

“Un po’…”

Baciala, scemo, non vedi che ci sta?

Lou questa volta riuscì a ignorare la voce di Sry.

“Facciamo una cosa” civettò Victoria, “quando torni a casa, ti preparo un bel bagno caldo e rilassante, mangiamo qualcosa e ci vediamo un bel film, che ne dici?”

“Dico che è un piano perfetto, amore mio. Grazie, sei molto comprensiva.”

Ma come? Non scopiamo? Ma l’hai vista bene? Non senti il suo odore?

No, sì, no e comunque oggi è giovedì.

E quindi? Che ti ha fatto, il giovedì?

“Adesso devo andare” tagliò corto Lou, afferrando la borsa e sfiorando le labbra della ragazza con un bacio fuggevole. “Non vedo l’ora che arrivi stasera.”

****

“Allora, cosa ne pensi?”

L’ultima nota aveva appena terminato di risuonare nell’ufficio al quarantaduesimo piano, l’ultimo, del grattacielo della Carson & Carson.

“Tutto qui? Cosa ci sarebbe, di così speciale?”

Abraham “Abe” Carson non aveva risposto subito, preferendo prendersi il tempo di una generosa boccata dal suo sigaro. Una posa, più che un’abitudine.

Rispetto a suo fratello, Abe non frequentava né la musica, né i musicisti, se non per mere esigenze di rappresentanza, lasciando l’incombenza a Moe. Per sé, si era riservato il ruolo dell’uomo d’affari duro e puro.

Più duro, che puro.

In effetti, quella era solo la seconda volta negli ultimi cinque anni che Moe chiedeva al fratello di ascoltare un demo di un gruppo. La prima volta era stato quando i loro scout avevano scovato quel gruppetto inglese con i due fratelli che litigavano sempre, grazie ai quali la Carson & Carson era diventata una società tra le più ricche e potenti dell’intera industria musicale. Era stato per questo che le sue aspettative nei confronti di quella convocazione erano state così alte, ed era per quello che l’ascolto lo aveva lasciato un po’ interdetto.

“Non lo so, Moe, proprio non lo so.”

A dire la verità, anche Moe non lo sapeva.

Jeremy, il tecnico del suono dello studio, aveva descritto le sessioni del gruppo di Jackie come “orgasmi musicali”, e il suo sguardo tra il trasognato e l’esaltato lo aveva convinto che fosse vero: negli anni aveva imparato a fidarsi ciecamente del giudizio di quell’uomo, che in effetti non aveva mai sbagliato. Col senno di poi, forse avrebbe fatto meglio a insistere per presenziare almeno a una prova, ma l’accordo con Jackie era chiaro, e lui non voleva – soprattutto, non riusciva – a discutere con quel ragazzo. la volta che lo aveva incrociato nei corridoi degli studi lo aveva trovato diverso, sia nel fisico sia nello sguardo. Cresciuto. O meglio: accresciuto.

In due o tre di quelle occasioni, era stato perfino sul punto di parlargli, di chiedergli di assistere alle sue esibizioni, ma ogni volta era bastato un gesto della mano dell’altro per farlo desistere.

Non è che quello che aveva ascoltato non lo avesse colpito per nulla, anzi: c’era, in mezzo a suoni organizzati per la maggior parte in maniera elementare, spesso meno che scolastica, qualcosa di sfuggente e balenante che sussurrava a una parte di lui nascosta da qualche parte, seppellita sotto un quintale di adipe e di titoli bancari.

Moe Carson era però troppo esperto per non sapere che quella scintilla non sarebbe bastata a rendere uno di quei brani un successo commerciale, l’unico tipo di successo contemplato alla Carson & Carson: nessuna di quelle canzoni aveva un ritornello sciocco ma accattivante, nessuna mostrava uno spunto ritmico elementare ma efficace, nessuna sapeva regalare uno di quei giri armonici scontati ma a effetto che tanto erano graditi al grande pubblico, quello della musica da smartphone, da consumare nel tempo di due fermate di metropolitana.

“E comunque, chi sarebbero, questi?”

“I Jackie’s Experience. Ti ricordi? Li abbiamo visti qualche settimana fa al Village, ti erano piaciuti…” 

“Ah, sì, sì” esclamò annuendo. Chiaramente, non si ricordava affatto di quella serata: probabilmente, quando erano arrivati al locale, lui era già al quarto whisky. Come al solito.

“Pensi davvero che faranno il botto?” gli chiese Abe, senza smettere di grattarsi il mento, fissando il cielo oltre la finestra.

“Sì, lo credo davvero” rispose alla fine Moe. “Questo è materiale grezzo, registrato in presa diretta e senza nessun lavoro di produzione. Una volta mi hanno fatto sentire i primi demo dei Metallica, in confronto queste sono le registrazioni delle prove dei Berliner… l’orchestra sinfonica tedesca, intendo” aggiunse, osservando lo sguardo interrogativo dipinto sulla faccia del fratello, che alla fine scosse la testa, segnalando la sua resa con un gesto della mano.

“Va bene, va bene” tagliò corto. “Proviamo. Andiamo avanti con la produzione, rinchiudeteli negli studi e non fateli uscire fino a quando non hanno tirato fuori il loro ‘capolavoro’, vedremo se tu e il tuo Jeremy ci avete visto giusto.”

“Le registrazioni sono previste per il prossimo mese. I ragazzi stanno partendo per un piccolo tour.”

“Un tour? Senza un disco da promuovere?!”

“Sì, è stata un’idea di Jack Noone, il cantante. Vogliono provare i pezzi dal vivo, vedere come reagisce il loro pubblico.”

“Perché, hanno un loro pubblico?”

“Sì, si sono già fatti un nome nella scena del New Jersey…”

“New Jersey, eh?” Per un po’, Abe continuò a fissare il cielo e ad aspirare dal suo sigaro. Finalmente, girò la sedia e spostò lo sguardo sul fratello.

“Forse non è una cattiva idea, signore.” A parlare era stata una giovane donna dai capelli rossi e dallo sguardo vivace e sicuro. Era dall’inizio di quella riunione che non faceva altro che battere sulla tastiera del suo piccolo computer, interrompendosi solo per ascoltare con determinata attenzione quello che Abe aveva da dire.

“Cosa vorresti dire, Jill?” Dal modo in cui aveva accolto il suo intervento, era chiaro che la ragazza godeva della considerazione del capo.

“Voglio dire” proseguì, sicura, “che potremmo attivare i nostri influencer, mandarli ai concerti, cominciare a diffondere qualche video, qualche foto… creare il fenomeno prima del prodotto, insomma.”

“In questo modo, sembrerà che il successo del gruppo sia stato decretato dalla volontà popolare, invece che imposto dall’alto.” aggiunse uno dei ragazzi incravattati seduti al tavolo.

“Come abbiamo fatto con le Bad Girls” ricordò un altro dei presenti.

“Ed è andata bene?”

“Un milione di download nel primo mese.”

“Però! E nel secondo?”

“Cinquantatremila. Il disco faceva veramente schifo.”

“I Jackie’s Experience sono di un’altra categoria” sentenziò Moe, che sentiva di dovere forzare la mano. Qualcosa, dentro di lui, continuava a dirgli che non era proprio il caso di contrariare Jackie. “Hanno solo bisogno di una spintarella iniziale. Organizziamo questa campagna, Jill. Chiama il mio ufficio, ti daranno tutte le informazioni sulle serate. Fammi sapere se ti occorre altro.”

Abe osservava la scena con evidente distacco. Nutriva un invincibile disinteresse verso tutto quello che non portava un immediato guadagno, e considerava il marketing un male, non sapeva nemmeno quanto necessario. Che se ne occupassero pure Moe e quella banda di bambocci.

“Va bene, allora, procediamo” sentenziò, appoggiandosi finalmente sullo schienale della sua grande poltrona. “Organizzate pure il vostro circo, create questo fenomeno di cui mio fratello continua a parlarmi e fatemi guadagnare i milioni per il mio nuovo aereo. Convincetemi che vale la pena pagare uno stipendio a cinque zeri a un branco di nerd che prendono ancora il latte dalla mamma.”

****

Lou rallentò solo quando ebbe voltato l’angolo.

Spiegami questa storia del giovedì.

Non c’è niente da spiegare. Solo, non facciamo sesso di giovedì.

E perché mai? Fai parte di una di quelle sette di ebrei fuori di testa, o cosa?

No, è che poi il venerdì lavoriamo tutti e due, siamo stanchi… comunque, non sono affari tuoi! Adesso, se potessi stare zitto un momento, dobbiamo… devo capire cosa sta succedendo.

Tu non devi capire niente. Devi solo fare quello che ti dico di fare.

No, io devo capire. E poi devo farti sparire, qualunque cosa tu sia.

Sei tu che devi sparire, è così che funziona. In ogni caso, sembra proprio che per il momento non capiterà, quindi smettila di piagnucolare, abbiamo molto da fare.

E cosa dovremmo fare, di preciso?

Nonostante la disperazione montante, la domanda era sgorgata spontanea. La situazione continuava a terrorizzarlo, ma in qualche modo capiva che doveva affrontarla.

Te lo spiego mentre guidi. Andiamo a prendere l’auto.

Non ho un’auto.

Ok, rubane una, allora.

Sarebbe inutile. Non so guidare, non ho mai imparato.

Hai fatto bene, rischiavi seriamente di servire a qualcosa. Comunque sia, dobbiamo andare.

Dove?

Non lo so, ancora, ma qui non combiniamo niente, tanto vale cominciare a muoversi, qualcosa mi verrà in mente.

Non possiamo andarcene. Hai sentito, Victoria mi aspetta per il bagno, stasera.

Sry sospirò rumorosamente. Per Lou fu come se il cervello fosse investito da una corrente d’aria.

Senti… coso…

Lou! Mi chiamo Lou!

Sì, sì, va bene, Lou. Permettimi di illustrarti brevemente la situazione. C’è in giro qualcuno… qualcosa… di pericoloso. Di molto pericoloso. Per tutti. La buona notizia è che io so come fermarlo; la cattiva notizia è che ho poco tempo e che, invece di prendere possesso del tuo corpo, come avrebbe dovuto succedere, sono incastrato qua dentro. Quindi, fino a quando non riuscirò ad annullare la tua volontà e annichilire la tua anima, devo trovare un sistema diverso per fermare il bastardo. Adesso è tutto chiaro?

Sei stato chiamato? Nel senso, evocato?

Diciamo di sì. È una lunga storia, succede sempre così. Questa volta, però, qualcosa è andato storto.

Cosa, è andato storto?

Tu. Sei andato storto tu.

Lou si appoggiò al muro dietro di lui e chiuse gli occhi. A quel punto, avrebbe ripreso volentieri in considerazione l’idea del tumore o quantomeno quella della schizofrenia, ma il ricordo degli eventi del giorno prima e il doloroso segno sul suo fianco lo costringevano ad accettare quella che era un’ineluttabile realtà: in qualche modo, era tutto reale, c’era qualcuno chiamato Sry dentro di lui. Letteralmente, dentro di lui.

Sei un demone? Chiese.

Era stata quella la sua seconda ipotesi, dopo la storia del tumore, e fino a quel momento l’aveva accantonata sdegnosamente, ma a quel punto…

Se lo fossi, sarebbe un problema?

A quanto ne so, avere un demone dentro di sé di solito lo è.

Diciamo che mi hanno chiamato così. Spesso, a dire il vero. Ora che ci penso, quasi sempre. All’inizio era un complimento, sai?

Allora, sei un demone?

Sry non rispose subito. Lou poteva avvertire una sensazione di tensione sospetta. Il suo ospite stava pensando.

Trova un posto tranquillo disse alla fine, provo a spiegarti cosa sta succedendo, così, magari, ti rendi conto che è davvero il caso di farti annichilire l’anima, da bravo.

****

Seduto su una scomoda sedia di plastica appoggiata al muro, nel buio della stanza, Orphys osservava il petto della ragazza sollevarsi ritmicamente, lentamente. Si chiamava Betty, così l’aveva sentita chiamare da uno del gruppo, se l’era ritrovata appiccicata addosso quando aveva preso possesso del corpo di quel chitarrista, Jackie, e da allora non aveva smesso di tampinarlo. All’inizio, era stato anche divertente: la moretta ci sapeva fare e lui aveva quarant’anni da recuperare. Quarant’anni trascorsi consumando decine di corpi che in pochi mesi venivano divorati dalla sua energia e ridotti a involucri incartapecoriti.

Anche se aveva studiato il suo piano per anni (o sarebbe stato meglio dire secoli? Il tempo trascorso dall’Altra Parte sembrava tendere all’infinito), il suo era stato un azzardo terribile: in ogni istante, la piccola scintilla di sé che era rimasta sulla Terra avrebbe potuto perdersi per sempre. Invece, era andato tutto bene e lui aveva potuto tessere la sua tela con pazienza e attenzione, preparando il terreno al suo ritorno in grande stile. 

La ragazza si mosse, allungandosi languidamente sotto le lenzuola. Tra poco si sarebbe svegliata, lo sentiva. Le sorrise, comprensivo. Ne aveva conosciute tante, come lei. Si poteva anzi dire che era colpa – o merito – suo se esistevano. Groupie, così le etichettavano negli anni Settanta, ma lui continuava a preferire chiamarle con il loro antico nome, menadi. Lo trovava più nobile, più dignitoso. Alla fine, però, doveva ammettere che non cambiava un granché.

Intanto, il respiro di Betty si era fatto più rapido, il suo risveglio era imminente. Orphys si alzò dalla sedia, sospirando. Per un po’ aveva perfino pensato di portarla con sé: spazio sul van ce n’era, e la prospettiva di trascorrere tre intere settimane con l’esclusiva e ravvicinata compagnia di quelle tre parodie di musicisti che formavano la sua band non lo rendeva felice. Ma sapeva bene che si trattava di una pessima idea: sarebbe stata solo un peso inutile, una presenza fastidiosa. E poi, sapeva che quello che lei aveva da offrigli non sarebbe più stata merce rara, per lui.

In effetti, la compagnia femminile era una delle cose che più gli era mancata, in tutti quegli anni. In questo, doveva ammetterlo, era simile a suo fratello.

Sry! Chissà dove si trovava, adesso. Probabilmente, avevano provato a chiamarlo lo stesso, magari avevano utilizzato il vecchio Cletus, oppure quel mentecatto di suo figlio.

Forse avrebbe dovuto pazientare un altro po’ e fare fuori anche quei due, ma era stanco di aspettare: in tutti quegli anni, aveva avuto solo due occasioni per tornare, se avesse lasciato andare anche quest’ultima, chissà quanto ancora avrebbe dovuto ancora attendere.

In ogni caso, adesso era lì, e Sry, se anche fosse riuscito a tornare, non sarebbe stato nelle condizioni di fermarlo. Questa era la sua occasione e non c’era nessuno in grado di impedirgli di sfruttarla.

Lanciò una rapida occhiata alla sveglia luminosa appoggiata al tavolino accanto al letto. Erano le tre passate, era quasi ora di andare, di lì a poco i ragazzi della band sarebbero passati a prenderlo.

Silenzioso, si avvicinò al letto, si sedette a fianco della sagoma avvolta nel lenzuolo e chinò la testa fin quasi a toccare la nuca. Delicatamente, scostò i capelli spettinati e trovò l’orecchio.

“Betty… Betty… mia piccola Betty” sussurrò, modulando la voce in un canto insinuante. 

Betty non aprì gli occhi, ma schiuse le labbra in un sorriso beato.

“Betty… Betty… amami fino alla fine del mondo. Fino alla fine del tuo mondo.”

Poi, prese a mormorare una melodia dall’andamento sinuoso mentre il corpo della giovane prendeva a ondeggiare ritmicamente, come a mimare un languido amplesso.

Orphys ripeté la strofa iniziale due, tre volte, prolungando infine, l’ultima nota fino a farla sfumare in un mormorio leggero come un refolo di vento.

Quando si alzò dal letto, il corpo di Betty aveva smesso di muoversi, ma la sua bocca continuava a sorridere.

****

“E da quanto andrebbe avanti, questa storia?”

Lo stai rifacendo.

“Sto facendo, cosa?”

Stai parlando ad alta voce.

Lou si rimaledisse e si guardò di nuovo attorno. I rari commensali presenti stavano fissando il piatto, facendo ostentatamente finta di non avere sentito.

Non è così facile, sai? Quando parli, mi sembra di sentire la tua voce con le orecchie, e mi viene naturale risponderti a voce alta. Comunque… da quanto va avanti, questa storia?

La prima volta, andavate ancora in giro nudi, vi facevate mangiare da un sacco di animali e avevate appena smesso di grugnire e cominciato a parlare.

Stai parlando di centomila anni fa, credo…

Non lo so, non è che ai tempi i calendari fossero molto diffusi. In ogni caso, è stato allora.

E… come è successo?

Te l’ho detto: vi abbiamo visto. Ci siete sembrati interessanti e abbiamo cercato il modo per entrare nel vostro mondo. Sapevamo che ci sarebbe stato da divertirsi.

Lou rimase in silenzio, lo sguardo fisso sul menu che stava facendo finta di leggere da dieci minuti. Aveva deciso di ascoltare quello che la voce aveva da dire senza escludere a priori che potesse essere la verità. Era l’unico modo per trovare una spiegazione che non fosse una di quelle che aveva già preso in considerazione. Al tumore non pensava più e la schizofrenia non lo aveva mai convinto più di tanto; aveva anche pensato che potesse trattarsi di un sogno, come succedeva in certi filmetti di serie B guardati di straforo che avevano punteggiato la sua infanzia, ma dopo essersi toccato il fianco dolorante e – per maggior sicurezza – essersi schiaffeggiato con nervoso entusiasmo, aveva deciso che anche quella ipotesi era da scartare.

Rimaneva quindi la possessione demoniaca andata male, che in effetti era più o meno la spiegazione che Sry gli stava proponendo.

Va bene, concluse alla fine. Diciamo che ti credo, per il momento. Se tutto fosse andato come doveva, cosa faresti adesso?

Prima di tutto, ordinerei due bistecche al sangue e una birra gelata.

Io sono…

Vegetariano. E astemio.

Lou rimase interdetto.

Come hai fatto a capirlo?

Facilissimo, mi è bastato immaginare in che modo potessi risultare ancora più insulso e fastidioso. Il fatto poi che questo posto si chiami L’Insalata Innamorata ha probabilmente contribuito alla deduzione.

In ogni caso, bistecche a parte, mi hai detto devi fermare quel tizio… Ofrys…

Orphys.

Orphys, giusto. È davvero tuo fratello?

Una specie. Immagino che si possa dire che siamo tutti fratelli.

E io sono tuo figlio. Giusto?

Uhm, sì, sei sicuramente mio figlio. Altrimenti, a quest’ora saresti un mucchietto di cenere. Se non ricordo male, tua madre si chiama… Anna.

Kathleen.

Kathleen! Una moretta…

Bionda.

… piccolina…

Le sue amiche la chiamano la Giraffa del Queens.

Ok, forse mi sto confondendo.

Già, forse. Immagino che tu sia uno di quei tipi che non si affeziona più di tanto. Quanti fratelli ho?

Che io sappia, l’ultima volta che li ho contati ne avevi almeno nove. Ma è una stima decisamente per difetto. 

Avevo? Nove?

Sì, nove. Tutti morti, a quanto mi ha detto Eve. In ogni caso, non è poi questo gran numero, anzi. Ogni volta che torno, tra le altre cose, devo rinforzare il sangue della stirpe, tende ad annacquarsi. Come del resto tu dimostri brillantemente.

Però, io non sono un tuo semplice discendente: l’hai detto tu, sono tuo figlio.

Sì, ma tua madre non appartiene alla stirpe. Tu sei solo un mezzosangue. Ma sei anche l’unico maschio rimasto sottomano, a parte quel mentecatto che ci ha portato in città… che però è chiaramente un caso a parte. È per questo che Eve ti ha scelto.

“Ehm… è pronto a ordinare, signore?” La voce riportò immediatamente Lou alla realtà del ristorante. Alzò lo sguardo dalla lista, incontrando lo sguardo impaziente del cameriere, evidentemente esasperato da un’attesa che si stava prolungando oltre il ragionevole.

“Certo, mi scusi!” si affrettò a rispondere. “Una zuppa di pomodoro e una centrifuga di zenzero, mela e limone.”

“Arrivano subito” lo rassicurò il ragazzo, raccogliendo il menu e avviandosi velocemente verso le cucine.

Fammi capire, riprese Lou. Mi stai dicendo che io sono l’ultimo maschio diretto discendente di una tribù di uomini primitivi che migliaia di anni fa hanno stretto un patto con te, grazie al quale tu sei diventato il loro difensore.

Esattamente. Non è così difficile, no?

No, una volta che accetti l’idea che esiste un’altra dimensione abitata da demoni che hanno scambiato la Terra per il loro parco giochi.

Ognuno si diverte come può. Se ti trovassi a vivere un’eternità avvolto dalle tenebre, faresti di tutto per andartene via. Perfino finire a fare da balia a un gruppo di scimmie spelacchiate che si credono chissà chi perché hanno imparato a disegnare due scarabocchi sulle pareti di una grotta.

La Grotta del Sogno?

Sì, quella lì.

E dove si trova?

Non lo so, so solo che la prima volta sono stato evocato là dentro.

Ma come hanno fatto a capire come evocarti?

Glielo ho insegnato io.

E tu, come lo sapevi?

Non lo sapevo. L’ho inventato sul momento. Ho improvvisato.

Ma…

Sono cose da demoni, va bene? Non capiresti. Diciamo solo che esistono forme di energia e che queste attraversano il tempo e lo spazio che separano le diverse dimensioni. Molti di noi hanno imparato a cavalcarle, ed è così che entriamo nel vostro mondo.

Cioè, non potete farlo a vostro piacimento?

Non è così facile, no. Devi trovare l’onda giusta, per così dire. Quella che ti porterà qui, in questa dimensione. Ne esistono tante, e sono tutte diverse: alcune possiedono un’energia tale da investire e permeare la vostra intera dimensione; altre sono più specifiche, più localizzate, diciamo così.

E la tua è…

Sry non replicò immediatamente. Quando lo fece, il suo tono sembrò leggermente meno distaccato.

Il mio canale per arrivare qui è la tribù. Siete voi.

Noi? Intendi dire…

Intendo dire, riprese, che l’onda che ho imparato a cavalcare è in qualche modo legata a voi. A te, in questo momento.

Questo significa che tu non sei capace di utilizzare una di quelle grandi, giusto?

Sono pochi quelli che ci riescono. Orphys è uno di loro. Noialtri dobbiamo usare voi. Io sono stato il primo, a farlo, poi l’ho insegnato agli altri.

Quindi, se ho capito bene, per arrivare qui sei stato costretto a stringere un patto con una tribù di quelle scimmie spelacchiate di cui mi parlavi. Quella dei miei antenati.

Se vuoi metterla così.

Non vedo come altro potrei metterla. Allora, per farla breve: la tribù viene attaccata, ti evoca, tu arrivi e la difendi.

All’inizio era così, poi, è diventato un po’ più complicato.

Cioè?

Nel tempo, le altre tribù hanno cominciato a chiedere ai tuoi antenati di chiamarmi ogni volta che uno dei miei fratelli maggiori li minacciava, e alla fine è diventato un lavoro a tempo pieno.

E tu hai accettato questa situazione?

Certo, perché non avrei dovuto? In quel modo, ogni volta che morivo in questa dimensione, non appena ricostituita la mia essenza nell’altra potevo venire riportato indietro nel vostro mondo. L’hai detto tu, qui per noi è come un parco dei divertimenti. E poi, parliamoci chiaro: come tribù non siete mai stati un granché, rischiavate di essere sterminati dalle altre scimmie da un momento all’altro; quando però siete diventati i miei evocatori ufficiali, siete stati risparmiati, e io ho potuto conservare il mio portale di ingresso. Con il tempo, i miei fratelli hanno trovato dei canali simili al mio. Loro non sono un problema, vogliono solo scappare dal buio e venire qui, come faccio io.

Quindi, puoi morire.

Sì, ma non come fate voi. Il mio corpo può danneggiarsi oltre il limite del riparabile, e allora devo tornare nella mia dimensione per ricostituire in pieno la mia essenza. È anche un problema di tempo.

Cosa vuoi dire?

Diciamo che, se rimango qui troppo a lungo, tendo a… ad allargarmi un po’ troppo, ecco. Quindi, quando arriva il momento, attraverso il canale in senso opposto e me ne torno dall’Altra Parte. Fa parte del patto, e conviene a tutti.

Insomma, una specie di controevocazione.

Se ti fa piacere chiamarla così. In ogni caso, volenti o nolenti, tornare da dove siamo venuti è una faccenda complicata, per tornare indietro occorre un… Accompagnatore, altrimenti rischiamo di perderci da qualche parte, nel nulla.

Davvero?

Se non ci credi, chiedilo a Mammon. Ah, già non puoi, è scomparso nel nulla. E sì che glielo avevamo detto, di aspettare… oh, ma questa è un’altra storia. In ogni caso, questa volta il canale, cioè tu, è difettoso, molto difettoso, io sono bloccato dentro di te, e non posso fare niente per… ehi, cos’è questo schifo?

Nel frattempo, il cameriere era tornato con la zuppa e Lou, che non mangiava da un giorno intero, aveva già ingollato la prima sorsata.

È la mia zuppa di pomodoro.

Da quanto vai avanti con questa roba?

Sono vegetariano da sempre.

Lo dici come se fosse una cosa bella. In ogni caso, questo è interessante.

Il fatto che sia vegetariano?

No, quello è tutto tranne che interessante. Quello che invece è davvero interessante è che io sento il sapore di quello che stai mangiando.

E quindi?

Quindi, in qualche modo, Eve è riuscita a portare a termine il rituale. Io sono davvero qui, Solo che non sono io. Sono te. O meglio, sono parte di te.

Non mi sembra. Al momento, rimani solo una voce nella mia mente.

Al momento, già. Comunque, adesso che sai cosa sta succedendo, hai capito cosa devi fare… e piantala di ingollare quella brodaglia, o ti vomito dentro!

Hai ragione, esclamò mentalmente Lou, mentre a malincuore deponeva il cucchiaio e attirava l’attenzione del cameriere per avere il conto. Adesso, so esattamente cosa fare.

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Luigi Lo Forti
Ho lavorato per una decina d’anni nel mondo dei giochi di società, dei fumetti e del collezionismo, per poi diventare un redattore freelance - molto free - e sono miracolosamente riuscito a sopravvivere i successivi dieci scrivendo per riviste di storia, cinema, scienze e perfino cosmesi.
Da sette anni insegno Chimica e Biologia nei licei milanesi e spero di farlo fino alla fine, ma da sempre mi diletto nella scrittura creativa.
Tra un lavoro e l’altro ho avuto la fortuna di riuscire a pubblicare una serie di libri per alcuni piccoli e medi editori. A rischio di farmi del male, elenco i loro titoli: Scrittori senza Gloria: La Musa, Duepercento: La legge del lupo, Duepercento (per la casa editrice DBooks) e la trilogia dedicata al personaggio di un fumetto fantasy, Rigor Mortis: La Torre e l'impero, L'Isola dei Demoni Perduti, Il destino dell'Impero (pubblicati da Counter Srl)
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