Là dentro, oltre il vetro strutturato e cieco, avere uno sguardo sicuro, un rifugio, uno che ti lascia ricordi di carezze e non solo di flebo infilate nelle vene dei piedi, è come sentirsi al riparo in un posto spaventoso. Luciano è il mio attimo sicuro prima dello sguardo dell’anestesista con il suo conta fino a dieci, prima del sapore amaro in bocca quando la testa gira e i rumori perdono consistenza. È ciò che vedo quando apro gli occhi e un tubo si sfila dalla gola portandosi via il vuoto allo stomaco.
Saperlo morto mi fa avere paura del mondo. Paura che il mondo possa farmi male di nuovo.
Si può bussare alla porta di qualcuno dopo trentacinque anni d’assenza?
Ti ricordi di me? Perché sai, tu per me sei un padre, un fratello, un angelo, un amico, una salvezza. E vorrei essere stata una bambina speciale per te, quando contavo i neon sul soffitto da una barella nel preoperatorio. Vorrei che non mi avessi dimenticata.
L’ho rivisto molti anni dopo. Cammino sul resto delle mie gambe, l’adolescenza mi fa troppo grande per essere bambina e troppo acerba per lo sguardo scuro e adulto che mi ha invaso. Sono un ibrido sulla linea del tempo.
Luciano abita vicino a casa dei miei nonni, dove sono cresciuta, oltre l’incrocio della macelleria. Da casa sua si vede il parco, tutto intorno corre un viale alberato che odora di magnolia primavera ed estate. Cinque scale in marmo per raggiungere i campanelli e la porta a vetri. Il resto è sfocato nei suoni, la mia ansia limpida come fossi lì anche oggi.
Suono. Esce sul terrazzo del piano rialzato e giurerei d’aver visto l’ombra della sua mano allungarsi, per sollevarmi da terra e trascinarmi tra le sue braccia. Ho visto i suoi occhi brillare di gioia, l’odore di colonia mischiarsi al profumo di magnolia, e la mia voce volare via.
Sopravvivere alla propria pagina nera nel quaderno del destino è insieme dolore e piacere, gioia e nostalgia, una mescolanza emotiva che difficilmente la mente può catalogare e il corpo gestire. Si piange e si ride contemporaneamente, felici e terribilmente tristi.
In un attimo il tempo ci rimette nel giusto ordine, sua moglie in disparte osserva e sorride. Luciano rientra in casa e apre la porta a vetri che ci separa. Ho respirato il suo odore chiudendo gli occhi nella speranza di poter cacciare indietro le lacrime, senza riuscirci.
Poi sono affogata nel suo profumo, chiusa nell’abbraccio che mi mancava da troppo tempo.
Al me ranoch.
Sento ancora la voce, blu come i suoi occhi, simile al mare calmo della mattina. E tutte le domande nella mia testa trovano risposta.
Non mi ha dimenticata, sono ancora una bambina speciale.
Potrei essere adulta e collezionare capelli grigi, ma avrò sempre quattro anni. Non smetterò mai di essere una bambina ai suoi occhi. Non l’ho cercato per raccontargli di me, nemmeno per mostrargli quanto sono cresciuta. Ho suonato alla sua porta per poterlo abbracciare, per respirarlo, per dirgli grazie.
Per darmi la consapevolezza che è successo davvero, che la pagina nera mi sta addosso come carta da parati, ma ancora non sono annegata nella colla.
Luciano non c’è più adesso, io mi sento nuovamente stesa su una barella al freddo, lui non viene a mettermi una mano sulla testa, per darmi il coraggio di piangere. E ora sono allergica al profumo di magnolia.
Luglio.
Luglio è un calendario a cui posso rinunciare, ho tentato di strapparlo via dal resto dei mesi perché undici ha un senso più dritto, dodici sa di profondo, di fondo, di sottofondo.
Luglio è l’anniversario di un calendario firmato dal Diavolo in persona, l’autografo dell’antagonista, l’amante della Signora in Nero.
Luglio ha l’odore dell’asfalto quando si scioglie e lascia cadere le biciclette a terra, delle scarpe perse o dimenticate quando esci senza chiavi.
Luglio non è romantico. È l’odio e l’amor di novembre, di tutte le rose lasciate ai cimiteri ventosi e vuoti.
Luglio possiede gli occhi di una bambina presuntuosa quanto la morte, l’odore di garze imbevute di freddo, della carne aperta, dei sassi infilati nei palmi tagliati.
La vedi la linea della vita?
S’è fermata a luglio. E luglio ne ha cucita un’altra, stessa mano, vita diversa. Una mano malata, anche se a luglio non si ammala nessuno.
Luglio è il calendario intero di un’altra, anche se non la ricordo ho le fotografie per guardarla a pelle liscia. Ora è grande, non c’è più.
La vedi la sua linea della vita?
Sì, è una cicatrice.
Una cicatrice bambina.
Luglio. Un caldo insopportabile, in un giorno feriale. Una bambina. Non ricordo quella giornata, me l’hanno raccontata, e lentamente i ricordi di altri sono diventati miei. Non ricordo i giorni, i mesi, gli anni prima. Sono iniziata il 20 luglio del 1981, partorita dall’asfalto rovente. Mi affido a fotografie sbiadite dove ho pochi denti, due grossi riccioli ammassati in testa e il sorriso di chi sorride senza preoccuparsi di come verrà in foto. Indosso un vestito di stoffa cucito a mano, di quelli che quando smettono di essere vestiti diventano magliette e poi stracci per la polvere. La povertà ottimizza tutto, abiti, scarpe, arrosto, polpette di riso, frittelle di avanzi, carote e piselli dell’orto. Ai piedi due piccoli zoccoli bianchi simili a quelli dei medici importanti, in legno, per farsi sentire nei corridoi a ogni passo.
Ho tentato con ogni mezzo di ricordare quel giorno, trovare in fondo alla memoria qualcosa di me che andasse oltre vestito e zoccoli. Qualcosa che fosse un dettaglio importante, che mi spiegasse o mi dicesse cosa era accaduto, come era successo, perché accadesse mentre passavo io. Resta un nodo in fondo alla mente, scuro, stretto, grande e amaro. Più passa il tempo e più quel nodo si fa duro e nero. Ho chiesto ai familiari più stretti di raccontarmi quel giorno, ma tutti sembrano aver perso la memoria. Una diga si è spaccata dividendo il prima e dopo, sommergendo tutto il prima. Ho saputo solo cosa è venuto dopo, da quando il telefono ha squillato, un pezzo di vita si è rotto e uno di mondo è stato troncato via per sempre.
Ho domandato a mio padre i dettagli, per dare un ordine cronologico agli avvenimenti ma era come chiedergli di infilare la testa in un buco nero. Un buco vuoto. Una giornata intera trasformata in un buco, dove cadere senza mai toccare il fondo.
Cadere è un boato, come il suono sordo della terra durante il terremoto. Non c’è nessuno quando si apre la crepa, l’istante prima del boato sono sola, e non riesco a ricordarlo.
Qualche anno fa ho conosciuto una donna, famosa per essere una delle poche in Italia a praticare l’ipnosi regressiva. Non era un medico e nemmeno una psicoterapeuta. Non cercavo un medico, un analista, uno psicologo che sondasse la mia mente e compilasse una cartella clinica con diagnosi e cure. Non ero interessata ai suoi studi, ai diplomi affissi al muro, anche se forse avrei dovuto. Cercavo qualcuno che non avesse la pretesa di comprendermi e risolvermi, catalogando me e i miei problemi esistenziali in due sedute.
Lei forse poteva trovare il buco in cui ero caduta. E spiegarmi come uscirne.
Torno a quel giorno, ma non sono certa sia reale la sua capacità di trasportarmi. Le racconto una storia che non ho raccontato a nessuno. Non è colpa sua, lei crede davvero di poter trovare una fessura nella mia mente per guidarmi dentro al terremoto. Non rivivo avvenimenti mai ricordati in coscienza, non sento l’ultima voce di mia madre prima di lasciarmi, non avverto il dolore distruggi-tutto che mi ha trapassato, nemmeno le ustioni e le ossa piegate come carta al vento. Una completa assenza di dolore, irreale. Due sole le cose che so per certo, due soli i ricordi che mi appartengono.
Macchie rosse su tende giallo crema. Sapore di sangue in bocca, un sapore ferroso.
Lo so perché quel gusto di ferro lo sentirò ancora. E capisco che si tratta del mio. Non so che sapore abbia il sangue altrui, il mio sa di ferro, cattivo e amaro. Rugginoso.
Questi sono i miei ricordi, confusi nel tempo e nello spazio. I bambini in età infantile non mantengono il ricordo di quel tempo in età adulta. Non sanno nemmeno se stanno vivendo o sognando, a malapena sanno parlare, bevono acqua e zucchero e mangiano pane e burro a merenda.
Al termine della seduta la donna pare più provata di me, trattiene a stento lacrime di commozione. Ha detto di non aver mai visto nessuno provare dolore in questo modo, e ne è rimasta scossa. A quel punto ho cambiato idea sul fatto di non aver voluto un medico più capace. In me non è cambiato nulla, non mi sento più leggera o in qualche modo risolta. Uscendo dalla sua casa studio provo però sollievo. Il pomeriggio è terminato, lei non è entrata nel pozzo della mia mente, non mi ha trovata, le mie non sono fantasie, sono ancora un buco nero con l’unica differenza che ora me ne sento addosso la colpa.
Dove sei?
In piedi, fuori dall’auto.
Cosa è accaduto?
Un incidente. L’auto è finita contro un muro. Siamo ancora incastrate là dentro. Dovrei chiamare qualcuno.
Non puoi, sei qui per osservare, per ricordare qualcosa che ti è sfuggito o che credi di aver solo immaginato. Come ti senti?
Bene, non sento nulla.
In che senso?
Non sento dolore, da nessuna parte, eppure sono ustionata, si intravedono le ossa, ho il viso coperto di sangue. Non sento niente.
È la bambina ad essere coperta di sangue, non tu.
Sta arrivando qualcuno. Un uomo in bicicletta. Questa è una strada poco frequentata in estate, collega zone industriali piene di fabbriche. Si ferma, credo mi abbia sentito piangere o che noti qualcosa di strano. Scende veloce e molla la bici a terra. Si guarda intorno, non arriva nessuno. Urla, tenta di chiamare aiuto. Da una casa oltre l’incrocio esce una donna anziana incuriosita dai rumori. Lui le grida di chiamare un’ambulanza, la polizia, qualcuno. Poi mi trascina fuori dall’abitacolo e mi stende a terra. Fa lo stesso con il corpo di mia madre. Credo tema che l’auto prenda fuoco.
Si sentono le sirene in lontananza. Comincia ad arrivare gente dalle strade adiacenti. Curiosi, o solo desiderosi di non vedere i propri familiari stesi a terra. Una macabra sensazione di felicità, accorgersi che la tragedia non li ha sfiorati.
Ci sono due ambulanze. Ho aperto gli occhi, urlo così forte che la voce si spezza. Chiamo mia madre.
Chiamo mia madre.
Mi caricano sulla prima ambulanza e chiudono le porte di fretta.
Chiamo mia madre.
L’ambulanza parte e lei è ancora a terra.
L’ho lasciata lì. Ho abbandonato mia madre.
Non è colpa tua, sei solo una bambina.
L’ho lasciata. Chissà cosa penserà quando si sveglierà e non mi troverà.
Dovevo rimanere con lei. Dovevo aspettarla.
Non sa che forse non è andata esattamente così, dipende da che parte guardi il buco. Ma la mia storia le è piaciuta, le ha fatto bene, o forse male.
Mi ha cercato dopo quella seduta, per propormene altre. Non ho mai accettato.
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