Arrivai a Ulassai che era quasi l’una. Un certo languore mi dilatò lo stomaco, ma non volevo chiudendomi in un ristorante, così cercai un alimentare. Mi ritrovai a percorrere quello che doveva essere il corso. Due anziani sedevano davanti ai tavolini all’aperto di un bar, bevevano vino approfittando del tempo che aveva girato al bello. Come io osservai loro, loro osservarono me. Mi fermai e li salutai. Riconoscendo in me lo straniero di passaggio, mi invitarono a fermarmi per un bicchiere. Ringraziai ma tirai fuori la scusa di essere atteso a pranzo, per fortuna non mi chiesero chi fosse l’anfitrione che mi avrebbe ospitato. Domandai dove potessi trovare un panificio che facesse anche delle pizzette. Mi risposero in coro, suggerendomene due diversi. Avevano una faccia simpatica e quando ripartii mi pentii di non avere accettato l’invito. Mi fermai al primo che incontrai, che era ben fornito. Comperai un vassoio di pizzette e una focaccia al formaggio ancora calda, c’era anche il frigo e presi due lattine di birra e una d’acqua.
Quello che chiamiamo caso, o coincidenza, non lo è mai, almeno per quanto mi riguarda. Penso che siamo noi a fornire l’occasione al fato, anche quando le cose accadono distanti nel tempo, sono frutto di un desiderio o di un progetto pensati anni addietro. Il fatto è che ce ne dimentichiamo, attribuendo così al caso un evento apparentemente imprevisto. E non fu certamente una coincidenza se un quarto d’ora dopo seguivo un sentiero in un bosco nei dintorni di Ulassai. Il cui nome indicato sul cartello era su Marmuri; a convincermi di percorrerlo fu una musica trasportata dal vento che filtrava fra gli alberi. Non era una melodia, ma una via di mezzo tra armonia e cacofonia, a volte irritante. Ma ne fui comunque attratto e la seguii. Man mano che camminavo la musica si sentiva sempre più forte e vicina. Sui tratti in salita si poteva vedere parte dell’Altopiano di Baulasa con i suoi costoni granitici a picco. Arrivai in un’area attrezzata per un picnic. Una sorgente dalle acque limpide scorreva fra le rocce sparse come isole. E lì, alle sue rive, la musica sembrava volersi sintonizzare con il gorgoglio dell’acqua. Camminai lungo la riva quando arrivai a uno slargo dove una scolaresca si divertiva a suonare con delle pietre due Monoliti di Sciola. Ritornai al punto di raccolta e pranzai. Feci appena in tempo a finire l’ultimo pezzo di pizza che arrivarono i bambini con due maestre; mi alzai dalla panca, li salutai e mi allontanai. Camminai finché la stanchezza e la digestione mi procurarono una botta di sonno, cercai un angolo erboso sotto un leccio, stesi il sacco a pelo e sprofondai in un sonno agitato.
Due poliziotti mi riempivano di botte durante un interrogatorio. Tra un colpo e l’altro si fermavano per sniffare cocaina. Mi chiedevano cose impossibili a cui non potevo rispondere. Avevano facce cattive grondanti sudore e un alito fetido. Ero stato legato a un albero; ai cazzotti prediligevano i calci alle gambe e alle reni. Cercavo di urlare, volevo urlare ma non mi riusciva perché mi avevano infilato uno straccio in bocca. Mi svegliai di soprassalto e feci per mettermi in piedi, ma una spinta mi fece ruzzolare per terra. Il sole negli occhi m’impediva di mettere a fuoco la persona che mi sovrastava, portai una mano alla fronte per schermare la luce. L’uomo mi parve imponente e mi puntava contro una pistola.
«Che vai girando da queste parti!». Una voce perentoria e bassa che sembrava uscire dalle viscere della terra.
«E’ forse vietato andarsene in giro con l’unico scopo di camminare?».
«Qui ci arrivano solo i forestali e quelli troppo curiosi».
«Qualcuno ha detto che la curiosità è il sale della vita, non una colpa». Non avevo paura e ripresi subito padronanza di me. Fui posseduto invece dalla rabbia per la sua prepotenza, come se fosse il padrone di quel luogo.
«Il sale fa venire sete e se manca l’acqua la si va a cercare nei posti sbagliati. Ah, non male questa…» Da una tasca del giubbotto tirò fuori un taccuino e una penna».
«Cos’hai scritto?»
«Niente che possa riguardarti».
«Insomma, mi vuoi dire che vuoi?!»
«Che t’alzi e cammini davanti a me. Anzi prima svuota lo zaino».
Mentre rovesciavo lo zaino, dissi: «Non c’è niente che possa esserti utile».
«Questo sarò io a deciderlo. Cosa contiene quella busta di carta?».
«Della focaccia al formaggio».
«Passamela, anche la lattina». La finì con due morsi e la birra in una sola bevuta, poi ruttò.
«Quanti soldi hai? sono un po’ a corto».
«Non tanti». Rimpinguavo il portafoglio dal gruzzoletto del marsupio di stoffa, che tenevo legato sotto la cintola dei calzoni.
«Basteranno. Puoi alzarti. Ti consiglio di non fare l’eroe e tutte quelle stronzate. Hai la macchina?».
«Ce l’ho».
Mi resi immediatamente conto che stavamo facendo il cammino inverso a quello che avevo fatto per arrivare lì. Gli domandai dove stessimo andando.
«A fare compere in paese». Anche se gli ero davanti ebbi l’impressione che se la ridesse sotto i baffi, divertito dalla situazione. In realtà aveva la barba lunga e grossi baffi rossicci, anche i capelli, folti e sottili, erano leggermente ramati. Sui cinquanta, mi superava di un palmo buono in altezza; sotto il giubbotto si intuiva una corporatura robusta. Non seppi capire da dove provenisse. Comunque non sardo e neppure meridionale. Mi domandai perché uno ti punta addosso un’arma a volto scoperto e non si preoccupa di essere riconosciuto. Fra le mille cose pensai a una messinscena, ma a che scopo? Durante il tragitto fino alla macchina non incontrammo nessuno. A Ulassai mi indicò la strada per un market. Quando entrammo la cassiera lo salutò cortesemente dandogli del lei, lui ricambiò chiamandola per nome. Spingevo il carrello mentre lui mi stava appresso con la mano che impugnava la pistola nella tasca del giubbotto, decidendo quali prodotti prendere, e da quelli capii che gli piaceva mangiare bene. Mi imposi solo sulla scelta del vino perché prese alcune bottiglie secondo me mediocri. Prima di sistemarle nel carrello, lesse la provenienza e la gradazione sul retro. Finimmo di fare il giro del negozio e arrivammo alla cassa con il carrello pieno. Sistemai le cose sul banco, lui non mosse un dito. Nel momento di pagare, il tizio fece l’indifferente, aspettando che cacciassi fuori io il portafoglio. Ci fu uno scambio di sguardi, poi lui sollevò la testa per dire “che aspetti…?”. La cosa andava per le lunghe. La cassiera guardava ora me ora lui, finché chiese chi dei due dovesse pagare. E io dissi: «Il signore ha scelto cosa prendere, io mi sono limitato a mettere tutto nel carrello…» Il mio sequestratore mi guardò con odio. «La cosa migliore sarebbe dividere, da buoni amici». Commentò la ragazza. «Non è un mio amico». dissi «Non so nemmeno chi è». La cassiera non seppe cosa dire, in evidente imbarazzo. Al che il sequestratore si decise finalmente a mettere mano alle sue risorse, e da una tasca dei pantaloni tirò fuori dei pezzi da venti euro stropicciati. Ne contò quattro e li diede alla cassiera, la quale gli fece notare che mancavano trenta euro; a quel punto ce li aggiunsi io. Misi tutto nelle sporte, salutai la cassiera e mi avviai all’uscita; la ragazza augurò una buona giornata al tipo chiamandolo signor Ferroni. A un’edicola poco distante dall’alimentare mi fece comprare La Nuova Sardegna. Pensai che una volta arrivati alla macchina mi avrebbe fatto il cazzietone o dato un pugno, invece non fece né l’uno né l’altro. Ma il suo umore sembrava mutato, non so ma mi parve che la baldanza e la sicurezza fossero se non crollate affievolite. Non fiatò per un lungo tragitto, finché a un certo punto non mi disse di fermarmi e di scendere dalla macchina: mi ordinò di togliere un mucchio di frasche e come d’incanto comparve un sentiero in cui ci passava a malapena un’Ape. Mi rifiutai di procedere motivando le mie ragioni con il fatto che i rovi e i rami sporgenti avrebbero graffiato le fiancate della macchina. Mi minacciò con la pistola. Allora lo sfidai dicendogli che mi sparasse pure, e che non ero affatto convinto che l’arma fosse carica.
«Così mi metti alla prova facendo l’eroe del cazzo, eh?!». Premette il grilletto e la pistola fece cilecca. Risi. Ripremette il grilletto e questa volta partì il colpo: il proiettile andò a conficcarsi nel tronco di un leccio, a mezzo metro da me.
«Sei fuori di testa!». Gli urlai sbiancando in volto.
«Posso fare di meglio facendoti saltare le cervella». disse spavaldo e sorpreso al contempo «Preferisci salvarti il culo o le fiancate? Sali in quella cazzo di macchina!».
Ci salii, e avanzai piano sperando di limitare i danni, ma fu inutile. Mi gridò di fermarmi. Nascose l’ingresso risistemando le frasche e montò in macchina.
«Giusto qualche piccolo graffio». commentò rassicurante «Ancora pochi metri e potrà passarci un camion».
E così fu. Guardai l’ora sul quadrante: le cinque e mezzo. Il sole declinava al disopra delle cime degli alberi, la luce diradava fra il fogliame lasciando discendere l’imminente crepuscolo. Proseguimmo per il sentiero a un’andatura lenta, onde evitare le buche più profonde. Il sequestratore se ne lamentò più volte, ripetendo che dovevamo arrivare prima che facesse buio. Ribadii il concetto che la macchina era la mia e ci tenevo, e comunque era provvista di fari. Mi sforzavo di mantenere la calma per pensare con lucidità a come sopraffarlo e fuggire. Ma non mi veniva niente di intelligente. Lo guardai dallo specchietto retrovisore, cercando di cogliere in lui le sue intenzioni, e chi mai potesse essere e come cazzo era arrivato lì e perché, ma lo sguardo era assente e neutrale. Ma un momento dopo fu proprio la sua distrazione a farmi reagire d’impulso: accelerai e iniziammo a ballonzolare, ma lui, seduto di dietro, saltava molto più di me, ed essendo anche alto sbatteva la testa sulla capotta. Mi gridò come un ossesso di rallentare, ma io schiacciai più a fondo il piede sull’acceleratore, andando a zigzag e scegliendo le buche più profonde. Minacciò che mi avrebbe fatto a pezzi. Io ero come impazzito, di colpo non m’importava più nulla delle conseguenze, risoluto a dare una sterzata a quella situazione d’impasse. Non volevo arrendermi all’inerzia o morire senza aver provato a difendermi. Riuscì a mettersi centrale tra i due sedili, aggrappandosi con la mano sinistra alla spalliera del mio, con l’altra mano impugnava la pistola. Allora frenai di colpo, la macchina sbandò e l’effetto sorpresa lo fece fiondare in avanti facendogli sbattere la testa sulla consolle. Ne approfittai tempestandolo di pugni in testa e sul collo. La pistola gli scivolò cadendo sul tappetino del sedile del passeggero. Emise versi animaleschi di grida soffocate sia per l’assurda posizione sia per il dolore dei colpi e l’ira per essersi lasciato giocare in quel modo. Mi sollevai dal sedile per buttarmi di peso su di lui e recuperare la pistola, ma fu più veloce e forte: inarcò la schiena scrollandomi di dosso e mollandomi una gomitata in bocca, che mi mandò a sbattere sul finestrino. Il sapore del sangue e un dolore acuto al mento si mischiò all’ultimo pensiero di quel momento: è finita. Quando mi voltai era seduto davanti, aveva il fiatone e gli occhi iniettati di sangue sbarrati su di me, la pistola giaceva nuovamente sicura nella sua mano, puntata alla mia tempia. Cercò di calmarsi respirando profondamente. Poi con un tono privo d’ira, disse: «Sei un vero coglione. A questo punto il film…» fece una pausa a effetto, e con un sorrisetto odioso proseguì «… potrebbe solo che finire con le frasi dell’eroe sconfitto che dice: “Facciamola finita”. Oppure: “Che aspetti a premere il grilletto”. E come ultima immagine la canna della pistola fumante, senza il sonoro. Che te ne pare?».
«Odio i film d’azione, specialmente quelli italiani». Dissi guardando gli alberi divenire ormai ombre.
«Gli americani sono senza dubbio dei maestri». Commentò con voce conviviale, come se all’improvviso ci trovassimo al bar a bere un whisky amichevolmente, fatta eccezione della pistola sempre puntatami addosso. Era assolutamente di carattere mutevole, e la cosa mi procurava un’enorme inquietudine. Mi attenni a cavalcare la sua stessa onda: «Gli americani hanno fatto il loro tempo, adesso rubano le idee ai coreani».
«Uhm. In effetti. Hai visto la trilogia sulla vendetta del regista coreano…»
«Park Chan-Wook. Ne ho visti due. Ti dispiacerebbe levarmi la pistola dalla tempia? Mi rende un tantino nervoso».
«Ah, già. Scusa. Ma ti consiglio di non fare altre stronzate. La mia pazienza potrebbe finire senza preavviso». Trovò una posizione comoda reclinando la spalliera e allungando le gambe dopo aver portato indietro il sedile.
«Perché proprio io…?». Gli domandai approfittando di quel momento di apparente disponibilità. Sgranò gli occhi. Si ricompose subito modificando espressione. Disse: «Solo una fottuta coincidenza: io controllavo la zona e tu eri lì. Niente di personale».
«Non credo nelle coincidenze. Sarebbe bastato attendere che me ne andassi. Perché ho invece la sensazione che ti servo per un motivo ben preciso?».
«Non darti delle arie. Tu o un altro non avrebbe cambiato…» Si rese conto di aver detto troppo e si zittì. Ma io insistetti: «Allora è vero: hai in serbo qualcosa che va ben oltre un sequestro per pagarti la spesa».
«Non esagerare: non si è trattato di un sequestro, ma di una richiesta un po’ forzata di chiedere una mano d’aiuto. E ti ricordo che la spesa l’ho pagata io».
«Non penso proprio che un giudice la vedrebbe allo stesso modo. E poi che genere d’aiuto? E voglio comunque rammentarti che alla spesa ho contribuito pure io».
«L’aiuto che serve a un uomo solo. Lo capirai presto. Metti in moto».
Avviai il motore e partii. Era diventato buio, e il silenzio s’era fatto più intenso. D’un tratto dal fitto del bosco sbucò un muflone, frenai di colpo, e anche l’animale s’arrestò al centro del sentiero. Era la prima volta che ne vedevo uno a distanza ravvicinata. Era massiccio, dal vello corto e lucente che andava dal nocciola al marrone scuro. Dalle corna, lunghe circa 90 centimetri a spirale, dedussi che fosse un maschio anziano. Ci fissò e non capii se per sfida o per darci il benvenuto, o più semplicemente perché infastidito dalla luce dei fari: misi gli anabbaglianti. L’imponente presenza dell’animale aveva qualcosa di onirico, di mitico, qualcosa come di una visione mistica… Non so dire quanto rimase lì, immobile e sicuro di sé, ma mi sembrò un’eternità. Anche il sequestratore rimase a bocca aperta, come rapito da un solenne messaggio ancestrale… Il muflone girò la testa e sollevò il muso per fiutare l’aria, poi ci guardò un’ultima volta, e con invidiabile eleganza e leggerezza sparì inghiottito dalla vegetazione. «Il muflone è il dio Pan delle foreste sarde. Una leggenda barbaricina narra che vederlo da vicino porti al contempo ordine e caos. All’uomo, e solo a lui, è data la possibilità di scegliere tra le due». Commentò con tono odiosamente professorale.
«La leggenda racconta anche che abbia il potere di trasformarsi in un uomo bellissimo, e di fare impazzire le donne maritate, nonché di farle diventare assassine. Proprio da queste parti esistevano luoghi considerati magici in cui le donne si ritrovavano per festeggiare l’arrivo della primavera e unirsi carnalmente con il dio Muflone: questa parte ricorda il mito di Dioniso, rispetto alla quale c’è una disputa tra storici che dura da decenni. I greci ritengono che siano stati gli antichi sardi a rubare il mito agli antichi greci mentre gli studiosi sardi sostengono il contrario». dissi leggermente infastidito dal fatto che avesse dato per scontata la mia ignoranza; ma poi mi venne il dubbio se si fosse reso conto che ero sardo, infatti, meravigliato, mi chiese: «Com’è che la conosci?». «Si dà il caso che sia barbaricino». risposi con una punta di stupido orgoglio «Da bambino, la leggenda del dio Muflone veniva raccontata dagli anziani nelle serate invernali davanti al fuoco. Mia nonna era bravissima a raccontare storie, e ogni sera ne raccontava una nuova in cui il dio Muflone era il protagonista assoluto». Mi guardò con vivo interesse. E prima che aprisse bocca, dissi: «Di dove pensavi io fossi? continentale come te?». «Cazzo!». Esclamò, e non aggiunse altro. Tra noi scese il silenzio, che durò fino al momento in cui mi ordinò di fermarmi. Erano trascorsi venti muniti dal luogo in cui avevamo fatto l’incontro col muflone: tenevo bene a mente il tragitto e il tempo percorsi. Parcheggiammo in uno slargo interamente sottratto alla veduta aerea dal fittissimo intreccio delle chiome dei lecci e sughere secolari, e sotto un albero individuai una BMW di colore nero. Dal bagagliaio presi le mie cose e le buste della spesa, indi seguii il sequestratore, il quale si era fatto consegnare le chiavi della Punto e lasciato accesi gli anabbaglianti. Percorsi un centinaio di metri, ci fermammo davanti all’ingresso ad arco di una caverna, un tappeto sardo di lana ne nascondeva l’interno. Il sequestratore prese da una nicchia una lampada a gas e usò l’accendino per accenderla, poi entrammo nel terzo millennio avanti cristo…
Federica Restiglian (proprietario verificato)
Amo la Sardegna, che considero la mia seconda casa, ciononostante non la conosco molto bene; il romanzo di Mario Murru mi aiuterà a colmare questa ed altre lacune, accompagnandolo nel viaggio da egli narrato.
Grazia Brundu (proprietario verificato)
Avvincente! Personaggi ed eventi inaspettati. Non vedo l’ora di leggere il resto!
Gianni Nivola
E’ bello farsi accompagnare dall’autore in un viaggio sognante lungo un’isola da sogno.