Mamma Ica, da quando babbo aveva smesso di venire in campagna e passava molto più tempo a casa e in paese, era più tranquilla e rilassata. Stavano bene insieme. Ormai erano sposati da più di cinquant’anni e, finalmente, iniziavano a compiacersi della loro nuova pace dopo una vita di sacrifici, fatiche e sofferenze. Il nostro compito di questi tempi si limitava alla mungitura e al controllo delle bestie mentre il resto della giornata lo potevamo dedicare ai nostri passatempi. Quel giorno, Giovanni e io avevamo fretta di tornare in paese per dare una mano agli amici nei preparativi ed entrambi stabilimmo di alzarci prima del solito. Lungo la strada, i rumori consueti, quelli che ci accompagnavano tutti i giorni, sembravano diversi, assopiti, pareva quasi che gli alberi e gli animali che popolano e abbracciano la via sterrata quel giorno avessero paura di affacciarsi.
Neanche il leggero soffio di vento che ci accarezzava riusciva a disturbare il loro sonno. Per ridestarmi dal torpore decisi di camminare un po’, scesi dal carro e, con un cenno del capo, invitai Giovanni ad andare avanti senza fermarsi. Non era la prima volta che questo succedeva e lui sapeva che io, passando per i campi, sarei arrivato prima, avrei controllato buona parte della recinzione e avrei iniziato a richiamare le pecore, che, senza troppi indugi, si sarebbero lasciate convincere a seguirmi. Una volta da solo, attraversando il campo di grano avidamente mangiato, quasi rastrellato dagli animali, decisi di allungare e passai in mezzo alle sugherete. Mi fermai e respirai profondamente, lasciandomi inebriare dagli odori e dai suoni che mi circondavano. Ogni volta rimanevo stupito e mi piaceva allontanarmi dal mondo e rimanere in silenzio ad ascoltare la natura. Quando arrivai all’ovile seguito dalle pecore, io e mio fratello iniziammo a far entrare gli animali lungo una strettoia obbligata che portava fin dentro la stalla. Mio fratello, come di consueto e in modo automatico, al passaggio di ognuna di loro le contava, come se stesse sognando. Ci accorgemmo che mancavano due pecore all’appello, anche dopo averle ricontate con maggiore cura e, senza troppo meditare su questa mancanza, iniziammo il nostro lavoro. Finita la mungitura, versammo il latte nei fusti colandolo con un vecchio passino che tenevamo appeso a un albero nelle vicinanze. Finimmo in pochissimo tempo. Mio fratello, nato tre anni dopo di me, scalpitava e non vedeva l’ora di tornare in paese, di stare con i suoi amici. Lo vidi ansimante: «Giovvà, mi raccomando, non ti mettere a correre con i buoi, che si affaticano troppo. Ricordati di farli bere alla fontana di lu casteddhu».Mi guardò un po’ scocciato: «Issu oh, dugna olta li stessi cosi mi dici?! Ghjà lu socu cos’agghju di va».
Sorrisi: «Di’ a babbo che mi trattengo un po’ a cercare le pecore, digli di non preoccuparsi se non mi vede arrivare perché non so a che ora torno». Caricammo i fusti sul carro e mentre si allontanava continuai a seguirlo con lo sguardo fino al cancello. Io avevo in testa il pensiero delle pecore mancanti, mi scocciava andare via senza averle ritrovate. Ormai, da quando babbo aveva smesso di occuparsi del bestiame, ero diventato il “padroncino”, come scherzosamente mi apostrofava. Quell’anno non era stato per noi molto produttivo. Una strana malattia aveva colpito tanti dei nostri animali, nostra unica fonte di reddito, alcuni erano morti dopo giorni di sofferenza, altri, invece, apparentemente sani, ci era stato consigliato dal veterinario di abbatterli per evitare il contagio con le bestie che realmente non erano state contagiate da questo morbo che le stava decimando.
Il nostro podere era soprannominato “Tanca Arimuta” per via di una parte di terreno inarrivabile, ostile. In quella parte di terreno, ricca di sorgenti d’acqua ed esposta a nord, una foltissima vegetazione, insieme a costoni di roccia costellati di precipizi e falesie, rendeva arduo anche solo pensare di riuscire a penetrarci. In fondo alla valle, inoltre, un fiume imponente e impetuoso divideva in due la nostra terra.
Simone Serra (proprietario verificato)
E’ stato come un tuffo al passato, alle nostri origini galluresi, a quella ingenuità unita alle credenze e alle piccole cose semplici della vita. Al rispetto alla terra, della natura e degli animali; al rispetto della Famiglia.
L’autore fa una descrizione minuziosa, genuina dei luoghi ed e’ facile immergersi nella storia e innamorarsi dei personaggi.
Bellissima opera prima.
Dario De Vita (proprietario verificato)
Questo libro si fa leggere con piacere dall’inizio alla fine, tutto d’un fiato. La narrativa è límpida, cristallina. Nella piacevole scrittura non ho trovato le leziosità che ci si potrebbe aspettare da un’opera prima. Lo scorrere tra i personaggi per spiegare una realtà cruda ed endogamica mi ha ricordato un po’ “cent’anni di solitudine” di Garcia Marquez. L’alone di mistero di quella terra poco esplorata incuriosisce e intriga, dall’altro lato però contrasta con le vite comuni dei personaggi che, tra amore, invidia e follia, riportano alla dura realtà della terra. Sì, la terra, che come il titolo suggerisce, forse è la vera protagonista della storia.