Verena sostiene che non ricordo i primi anni della mia vita perché ho bisogno di “rimuovere degli episodi molto dolorosi che ancora non sono riuscita a far venire alla luce e metabolizzare”. Non so cosa significhi esattamente la sua diagnosi, ho l’impressione che ci siano parole che conosce solo lei e io faccio spesso finta di capire quello che dice, non voglio passare per la scema del villaggio, di brutte figure in giro ne ho seminate così tante.
Verena è una donna segugio, ha un fiuto eccezionale per scovarmi le bugie, per stanarmi negli angoli e costringermi a dire la verità, quella che nascondo anche a me stessa. Come quella volta che, appena entrata nel suo studio con un bel sorriso stampato in faccia, mi ha presentato il referto di una scansione ai raggi X eseguita in un millesimo di secondo.
– Tu, cara mia, sei arrivata agli sgoccioli, sistemati qua sul lettino che ti butto un po’ di cose belle dentro.
Stando alla targhetta d’ottone appesa fuori dallo studio, la dottoressa Modiane pratica l’attività di psicologa e psicoterapeuta. Ma le targhette, come i biglietti da visita, spesso nascondono ben altro.
Verena non si accontenta mai, ama sperimentare, per lei tutto è utile per arrivare alla guarigione dell’anima, si tratta di una psicologa diversamente abile e in me ha trovato terreno fertile dove praticare ogni tipo di coltura. Verena sconfina anche nel paranormale e afferma di vedere e interagire con il suocero defunto e con Tobias, il primo cane di una lunga serie inframezzata dall’adozione di svariate decine di gatti.
Verena parla con i morti e io le credo, ho bisogno di riempire i miei spazi bianchi, di tappare i buchi di una fame che non si spegne e mi brucia, e mi servono i suoi fantasmi per sentirmi meno sola.
Vorrei essere come lei, migliore di tutte quelle provinciali che sono costretta a frequentare ogni giorno, lontana dai pettegolezzi, dal nulla che cercano di camuffare dietro la menzogna di una vita felice. Invece, riesco solo a girare intorno a me stessa, povero asinello col paraocchi, imbrigliato e costretto a far andare la ruota della macina, ad ascoltare le chiacchiere di paese, i decessi e i tradimenti più beceri, i nuovi nati e i traslochi chissenefrega.
Ma cosa mi impedisce di liberarmi da questa schiavitù, di strappare le briglie e trasformarmi in un purosangue?
Mia madre. Secondo Verena è tutta colpa di mia madre.
Mia madre Ines, una donna bellissima. Prima che sposasse papà tutti gli uomini del suo paese le facevano la corte. Si recavano più volte al giorno nel negozio di alimentari di Walter pur di vederla e di scambiare qualche parola con lei, e se il padrone era nelle vicinanze si limitavano a gettarle uno sguardo e un sorriso dalla vetrina nella speranza che lei si decidesse a scegliere uno di loro per una misera serata in balera. Lei però snobbava tutti, pensava soltanto a lavorare, a servire bene i clienti, perché Walter non avesse di che rimproverarla, non poteva perdere il posto perché c’era la vecchia madre da mantenere. E una volta chiuso il negozio, correva veloce a casa per prendersi cura di lei, assistita durante il giorno da una vicina di casa.
Il mio primo ricordo di Ines è quello di una donna che a pranzo e a cena mi apriva una scatoletta di tonno per avere il tempo di cazzeggiare con le sue amichette e amichetti leccaculo mascherati da gente perbene. Ines che giocava a burraco, sorseggiando bicchierini di cherry e fumando sigarette alla menta tanto per non farsi puzzare l’alito. Ines e la sua camera invasa da vestiti, scarpe, borsette, bigiotteria, trucchi e profumi.
Eppure, sono certa che riuscisse a nascondere bene la sofferenza agli occhi della gente, il travestimento e la finzione erano il suo pane quotidiano, salvare le apparenze l’unica ragione di vita. Vedo ancora il suo viso imbellettato e artificioso che nascondeva il relitto di un essere umano disperato. Il suo corpo non era tanto diverso dalla nostra casa, dal nostro giardino: macerie rattoppate alla bell’e meglio, piante annaffiate al limite massimo della sete.
Mi sono chiesta spesso se Ines fosse sempre stata infelice. Sempre non lo so, ma da quando aveva sposato mio padre sicuramente sì. Camuffare, occultare, seppellire la miseria in cui lui aveva gettato la famiglia era una recita impegnativa che la portava a trascurarci, un ottimo pretesto per i rimproveri del marito.
A me non restava che assistere allo spettacolo della caduta di mia madre nella disperazione più nera. Sì, perché alla fine si è arresa agli assalti furibondi del coniuge, ai suoi debiti di gioco, alle sbornie, agli investimenti fallimentari. Dopo aver venduto alcuni terreni ricevuti in eredità dal padre, di poco valore, è stata costretta a ipotecare la nostra casa, mentre il suo uomo frugava ovunque, derubandola persino della fede, delle lenzuola e dei vestiti. Anche il mio piccolo salvadanaio è finito nelle sue luride mani. Poi, una sera papà è uscito di casa, dopo pranzo, dicendo che andava a farsi un giro. Non lo abbiamo più visto. Non lo abbiamo più cercato.
Ma Verena rincara la dose, dice che Ines è il mio unico “nemico immaginario” e che scarico la colpa su di lei per non ammettere che la colpa è solo mia o di qualcun altro. Accidenti, è mia madre a essere colpevole, è un dato di fatto, non è frutto della mia immaginazione. E poi, chi sarebbe questo qualcun altro?
Di solito sono i luoghi a odorare di stantio. Eppure, sento un lezzo addosso e mi accorgo di essere io a emanarlo, a spargerlo tutt’attorno con generosità.
L’odore che mi perseguita da anni è quello tipico delle persone sole.
DUE
Rachele torna da me dopo così tanti anni che stento a riconoscerla. L’ho incontrata la prima volta quando ero alle dipendenze dell’unità sanitaria locale e seguivo il settore del disagio giovanile. Timbrare il cartellino ogni giorno mi costava un’enorme fatica, ma il lavoro svolto con gli adolescenti era gratificante, a tratti esaltante. Ancora oggi alcuni di loro si ricordano di “doc Verena” e mi mandano gli auguri puntuali di liete festività.
Nonostante a quel tempo avessi appena ultimato la mia formazione teorica con Cosimo Ferretti, un collega molto preparato alle soglie della pensione, ero stata subito assegnata al lavoro “sul campo”. Mi sentivo sola, anche se in realtà non lo ero. Il nostro era un gruppo di quattro psicologi, tra i quali solo io avevo una preparazione specifica riguardo ai disturbi del comportamento alimentare.
Ogni giorno andavo incontro al dolore degli altri, costretta a lasciare a casa il mio. Sì, perché l’amore per il mio lavoro mi obbligava a dimenticare le ferite che mi portavo addosso e che trascuravo di disinfettare.
Con i mei ragazzi ho sempre cercato di costruire un rapporto di reciproca fiducia, perché solo così arrivavo a tirare fuori le loro emozioni, quella matassa che altrimenti li avrebbe soffocati. Era bello vedere come ognuno avesse il proprio modo di esprimersi: c’era chi preferiva parlare, chi disegnava, chi suonava e chi usava la scrittura. L’unica cosa importante per me era accoglierli, capirli e aiutarli a guarire dal male e dalla rabbia e dalla fame d’amore. Alcuni li abbracciavo, me li tenevo stretti. L’avrei fatto con tutti quanti, ma non potevo, dovevo rispettare il loro pudore, la vergogna, la timidezza.
Rachele era una di loro: tredici anni di rabbia e dolore e ormoni sparati a mille e grandi sogni e grandi delusioni e amore puro e odio feroce e fame, fame di tutto.
Ricordo bene il suo corpo rotondo, nascosto malamente da vestiti maschili di due taglie in più. Il suo fisico era il risultato di un’abbuffata di emozioni forti e contrastanti, ma anche di cibo spazzatura ingurgitato in fretta e di nascosto dopo le tante spedizioni al supermercato. Perché solo in quei momenti Rachele sentiva di prendersi veramente cura di sé, quella cura che le veniva negata da una madre distratta e sfuggente. Perché il cibo le tappava la bocca, impedendole di urlare in faccia al mondo tutto il suo dolore. Perché il cibo le riempiva lo stomaco e la testa di dolcezza, di carezze, abbracci, sorrisi e parole buone.
Nella sua zona d’ombra mi aveva lasciata entrare subito, tanta era l’urgenza di parlare. Ignara della propria bellezza, la piccola Rachele mortificava il suo corpo con un accanimento ammirevole. Sì, ammirevole. Perché se quell’impegno e quella forza fossero state messe a servizio dello studio sarebbe stata il classico “genio della classe”.
Dentro il supermercato si consumava il rito dell’accumulazione sfrenata, nell’ansia dell’abbuffata successiva nella sua camera “ingresso vietato a tutti”. In quel luogo protetto Rachele viveva sulla nuda carne il profondo dolore che sentiva indegno di essere raccontato, rendendo sempre più impenetrabile la gabbia costruita per tenere lontane le emozioni positive e trattenere quelle negative. In pratica, Rachele aveva spezzato ogni relazione con il mondo esterno e con se stessa, costringendosi a vivere in una camera satura di energie tossiche che l’avrebbero lentamente uccisa.
Mi aveva raccontato che un giorno, al supermercato, la sua insegnante di italiano l’aveva notata. Si erano scambiate un veloce saluto e Rachele se n’era andata via subito con una banale scusa. A quella donna, però, era bastato poco per capire cosa stesse succedendo tra gli scaffali del reparto “Colazione & Merenda”. Lei, che dopo una lunga battaglia contro l’anoressia e la bulimia era riuscita a salvare la propria figlia, aveva visto Rachele e il suo carrello della spesa stracolmo di carboidrati, zuccheri e grassi, e subito aveva compreso. Decisa a trovare il momento più adatto per affrontare l’argomento, dopo qualche tempo, terminata l’ultima lezione della giornata, la professoressa era riuscita a trattenerla in aula con una scusa.
Erano restate sole. Quello che si erano dette non l’ho mai saputo, Rachele si è sempre rifiutata di parlarmene, con lei insistere significava votarsi immancabilmente al fallimento.
C’era voluto quasi un mese prima che Rachele accettasse di andare al consultorio familiare per un primo colloquio. Quel giorno ero di turno e lei bussò proprio alla mia porta. Era sola.
Io avevo trent’anni, un matrimonio finito, un figlio lontano e un amore sconfinato per gli adolescenti.
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