Ma non più per Donna Karan, ma per la Bienne-group, un premium brand, già… premium. Però, se posso spezzare una freccia in suo favore, fa parte delle eccellenze Italiane.
Io amo l‘Italia, è il posto più bello del mondo, ma sono fermamente convinta che, in questo paese, nelle aziende di moda non esiste la meritocrazia.
Fun fact: non arrivo a piedi sulle mie Jimmy Choo color mela, tecnicamente sì, le metto, ma le devo cambiare perché ovviamente per arrivare in azienda devo farmi mezz’ora di macchina e, con quello che le ho pagate più la mia scarsa capacità di guidare con i tacchi, tengo sempre un fedelissimo paio di Vans slip on nel bagagliaio. Poi ovviamente scendo con le Jimmy Choo.
Ed ecco un altro problema del mondo della moda italiana: più sei vestita bene (e griffata) più la gente ti guarda male.
Perché la verità è che qui sono tutti invidiosi, sembra di essere in trincea, ogni passo falso (su scarpe firmate) che fai trovi una mina pronta ad esplodere.
La verità è che qui tutti vogliono fare gli stilisti.
CAPITOLO 1.
Mi chiamo Amanda Rinaldi e sono una Fashion Designer, nata e vissuta in quel di Bologna, la mia città del cuore, dove ho studiato all’Accademia di Belle Arti e dove ogni sera passeggiando per il centro si respira odore di tortellini e ragù, un cliché, però è così bella.
Il bello di Bologna non è solo la sua Italianità, ma bensì anche il suo glamour, il suo savoir-faire e la sua libertà di pensiero.
Bel posticino in cui vivere. Soprattutto se, come me, si ha la fortuna di abitare sopra la Galleria Cavour, in un appartamentino delizioso, ereditato dalla Nonna Carmelina.
E anche in questo caso ho suscitato l’ira di tutti i parenti.
Ma la verità è che nessuno si ricorda che ero io l’unica che ogni weekend, da quando ho memoria, andavo da lei a bere tè verde e a guardare “La finestra sul cortile” o “Vacanze Romane“. Cosa pretendevano?
Tutto per arrivare a dire che la mia vita funziona così: per ogni cosa positiva che faccio o che mi succede deve per forza essere una conseguenza della fortuna o dei miei soldi, e mai per merito mio.
Tutto ciò è snervante.
Ma è insito nel pensiero odierno purtroppo, per chi è invidioso è più facile credere che i meriti degli altri siano dovuti al fato e non al duro lavoro o al talento.
Quante volte mi sono sentita dire “hai il solito culo” perché mi sono laureata con 110 e lode, o perché ho trovato subito lavoro appena finiti gli studi, o perché prendo uno stipendio alto, eccetera, eccetera.
Tirando le somme, per gli altri la mia vita è una botta di culo.
Comunque lamentele a parte, come dicevo io sono Amanda e, si è capito, mi perdo spesso mentre parlo, sono dei Gemelli (bipolare come pochi), preferisco il salato al dolce e in generale sono un’ansiosa perenne. Ma ci sta. Alla fine l’ansia è il motore della vita, se non ne soffrissi probabilmente non avrei avuto tutto il successo che ho.
Ho 34 anni, sono da poco single dopo sei anni di relazione, ma questa è un’altra storia. Lavoro nella moda e, per quanto possa sembrare banale, so di essere una privilegiata, non è scontato riuscire a trasformare la propria passione in un lavoro, però non è tutto rosa e fiori.
La moda sa essere veramente cattiva.
La moda sa mangiarti dentro pian piano.
La moda è stressante ed estenuante.
La moda è alleata fedele, ma anche peggior nemica.
La moda gira intorno ai soldi, alle debolezze della gente e all’instabilità.
La moda ha anche dei pregi, ma solo ed esclusivamente se hai la passione. Sennò non reggi.
Sono una designer, come già accennato e appena finiti gli studi ho lavorato per qualche brand del lusso girando tra Milano, Roma, Londra, New York, insomma la mia gavetta l’ho ampiamente fatta. Per poi passare a lavorare per la Bienne. Scelta giusta? Chi vivrà vedrà.
La mia scintillante carriera è saltata dalla progettazione di pezzi limited edition da red carpet al fianco di stilisti di fama mondiale, a disegnare 100 grammi, 100 grammi sì, i piumini leggeri, rabbrividisco anche solo a dirlo.
Non voglio essere snob (anche se so di esserlo), ma sto vivendo tutto questo come un piccolo fallimento. Perché l’ho fatto allora? La risposta ancora una volta è la stessa: soldi.
Dopo questa lunghissima auto-commiserazione non richiesta sono finalmente arrivata a lavoro. Invece di ritrovarmi sulla 5th mi ritrovo nel parcheggio aziendale, forse una delle mie parti preferite, se non l’unica.
La cosa più divertente è guardare come ogni persona corrisponda alla propria macchina, come i cani e i padroni; ad esempio le donne hanno praticamente tutte dei suv, gli uomini invece scendono da auto sportive a due posti.
Si intuisce che noi donne più potere abbiamo più macchine grandi vogliamo, e mi metto in testa alla categoria. Ho una Range Rover Velar. Aziendale.
In ogni caso, come ogni mattina, entro in azienda.
Prendo l’ascensore e salgo al sesto piano e nel mentre mi ricordo della prima volta che venni qui quasi quattro anni fa. Era la mia prima esperienza di responsabilità, mi sentivo invincibile. Ora mi sento vinta.
Appena metto piede fuori dall’ascensore ecco che arriva l‘HR con un sorriso a trentasei denti. Già mi preoccupo, di solito quando vedo la sua ugola è perché ha qualche stagista liceale da attaccarmi. Non per sembrare altezzosa, sono stata stagista per circa due anni e so bene cosa significa essere l’ultima arrivata, essere invisibile ed essere trattata come un peso.
Però se ne può occupare qualcun altro? Ho un file infinito di excel che non si compilerà da solo.
Figuriamoci se ai tempi dell’Accademia avessi mai potuto immaginare che sarei finita a fare tabelle pivot per fornitori che non vogliono capire i figurini.
I miei bellissimi figurini.
«…alla tua scrivania o dall’altro lato?» chiede l’HR. Brutto dirle di ripetere perché ero persa nelle lamentele polemiche mentali.
«Sì, va bene alla scrivania.» Sarà qualcosa da firmare? Negare fino alla fine e far finta di niente.
Mi dirigo verso il mio ufficio, ovviamente non personale, un meraviglioso open space luminosissimo. Lo so, in ufficio stile c’è bisogno di lavorare in team, la creatività nasce in gruppo, eccetera. Ma non sono d’accordo, ritengo che sia necessario avere il proprio spazio e, per carità, è giusto avere anche una postazione dove lavorare insieme, però uno non si può mai fare i fatti propri.
Mi sono ricordata di cambiare le scarpe? Sono scesa dall’auto con le Vans?
Mi guardo i piedi e sbatto contro qualcuno.
«Buongiorno, Amanda. Sei incantevole stamattina.» Ma chi è che usa la parola incantevole nel ventunesimo secolo? Il principe Filippo della Bella Addormentata? No, l’amministratore delegato.
«Buongiorno, grazie.» rispondo a disagio, i complimenti mi infastidiscono, soprattutto se partono da quest’uomo sessantenne con evidente crisi di mezza età (in ritardo), dal capello selvaggio, gli occhi acquosi con questo guizzo viscido che ti guarda come se ti potesse comprare.
«Congratulazioni per il tuo nuovo acquisto» mi dice «trattalo bene».
Che ne sa lui delle mie nuove Jimmy Choo? Mi ricontrollo al volo i piedi, le ho cambiate o no le scarpe?
Passo oltre perché evidentemente stamattina stanno cercando tutti di confondermi.
Mi siedo, accendo il pc e nel giro di tre minuti il “tin-tin” delle mail in arrivo diventa così insistente che mi stacco dallo schermo e prendo l’iPhone per cominciare a scrollare Luisaviaroma alla ricerca della nuova Symbole di Prada.
Mi starebbe proprio bene in versione cachi, con questa shoulder passeggiando sulla 5th avenue come Carrie aspettando il mio mister Big….
«Dov’è il capo?» mi chiede una voce maschile, ma io non smetto di scrollare, voglio restare nel limbo delle borse firmate.
Così con una mano che indica il nulla, dico: «Sarà nel suo ufficio, fuori dall’open space a destra» e ricomincio a scrollare.
Dovrei cercare qualche piumino? Ho così tante idee che aggiungerne altre sarebbe controproducente. Come voglio farlo poi? È un 100 grammi. O così o così.
Prendo la tavoletta grafica e apro Photoshop, traccio la prima linea e vengo interrotta nuovamente dalla stessa voce lamentosa:
«Ha detto che il capo sei tu!»
Ma cosa vogliono tutti da me stamattina?
Alla fine alzo lo sguardo, perché a quanto pare non posso isolarmi oltre.
Davanti mi trovo un ragazzino, capelli ricci e arruffati, giubbotto di pelle, occhiali da sole in testa, pantaloni della tuta (pantaloni della tuta?!), sneaker usurata e, mon dieu, sigaretta appoggiata dietro l’orecchio.
Ce li ha diciotto anni?
«Ah si guarda, il mio condizionatore è rotto, questo qua a sinistra sotto la finestra, è una settimana che salta di continuo, finalmente hanno mandato qualcuno ad aggiustarlo.» rispondo senza distogliere gli occhi dallo schermo.
Dopo un attimo di silenzio mi volto verso di lui.
Mi guarda un attimo accigliato ed è palese che cambia al volo la risposta: «Pensavo di dover fare solo fotocopie, aggiustare climatizzatori è una svolta emozionante.»
Fotocopie? Fotocopie. Lo stagista.
Mi alzo di botto e faccio il giro della scrivania, tendo la mano al nuovo arrivato e dico frettolosamente «Ciao, io sono Amanda. Perdonami ma ero un attimo impegnata.»
Stringe vigorosamente la mia mano, mi aspettavo una presa super flaccida alla “ma chi si stringe la mano in questo secolo?” tipico dei ragazzini, ed esordisce con: «Marco Rocca. Figo che adesso pure le donne fanno i capi. Siete nel tremila.»
Eh? Ma in che italiano me lo stai dicendo?
«Non sono il capo di nessuno. Figo che nel tremila, a diciotto anni, ti meravigli ancora dell’evoluzione.» Enfatizzo la parola figo perché l’ultima volta che l’ho usata forse portavo ancora le Converse. Ma sono comunque infastidita. Ma chi si crede di essere?
«Ne ho 24.» Dice, stizzito.
Ah beh! Poi si stizzisce lui? Ci metto tre secondi a farlo tornare da dove è arrivato.
Mi rendo conto che la sua frase è caduta nel vuoto e che non ho risposto. «Magnifico, nel pieno della tua giovinezza eccetera eccetera, ora mettiti in quella scrivania vuota dall’altro lato e non scrollare troppo Instagram. Io ho da fare.» e rifaccio il giro della scrivania.
«Allora scrollo qualche e-commerce come facevi tu prima. Non è questo il tuo lavoro?» dice, ironico.
Non gli rispondo nemmeno, non lo guardo neanche di traverso perché rischio di far appiccicare il mio mascara di Anastasia Beverly Hills da cinquanta euro sulla palpebra.
«Non posso comunque.» continua.
Non puoi cosa?! Essere educato? Essere simpatico? Provare a presentarti bene il primo giorno di lavoro?! Cosa?!
«Cosa non puoi? Il pc poi te lo danno.» dico, senza alzare lo sguardo dallo schermo.
«Non posso sedermi lì perché l’HR ha detto che devo mettermi di fianco alla tua scrivania» alzo lo sguardo pronta a dire un sonoro no, ma mi interrompe: «glielo hai detto tu prima, davanti all’ascensore.»
Perfetto.
Mi rialzo, già troppi squat stamattina, vado verso questa fantomatica scrivania e la libero da disegni e fogli vari. Bello questo piumino. Ha venduto bene come attacco stagione lo scorso autunno. Lo rifaccio? Magari color cipria. Rabbrividisco, ma che colore è? Tengo il foglio in mano e cammino distrattamente verso la mia sedia.
«Quindi? Tutti ‘sti fogli?» la sua voce mi riporta al presente.
Com’è snervante. Torno indietro e con fare scocciato tolgo tutto. «prego, si accomodi.» dico.
Sarò troppo antipatica? È uguale. Torno a fare le mie cose.
Non so quanto tempo dopo squilla il telefono. Guardo l’ora, le 13:30, ma quanto ero concentrata? Rispondo e dall’altra parte una voce squillante mi chiede: «Ciao Amanda, allora è arrivato? Vi trovate bene? Non mi hai dato il tempo di presentartelo come si deve, arriva dall’accademia di Belle Arti di Bologna, gli manca solo lo stage formativo per laurearsi, è molto creativo ma la coordinatrice del corso mi ha detto che è un po’ incostante…» un po’? «appena hai un momento ti giro il suo portfolio così ci dai un’occhiata, secondo me è perfetto per la tua nuova collezione estiva anche perché…» smetto di ascoltarla e sposto lo sguardo sul ragazzo. Che mi sta fissando. Trasalisco e fisso lo schermo. Ma cos’ha da guardare? Ma da quanto mi sta fissando? Perché soprattutto? Sono sporca? Abbasso gli occhi e mi do una rapida occhiata. La blusa è bianca, linda, i pantaloni di lino neri super aderenti non hanno pieghe. Quindi cos’ho? Si è accorto che non sono in palette? Non è colpa mia se non faccio la lavatrice ed ho tutto in lavanderia.
«…digli magari dove andare a pranzare.. È caduta la linea?» dice allontanando il telefono dalla bocca per controllare.
«No, ci sono. Ti stavo ascoltando.» mento.
«Perfetto, allora vi lascio pranzare. Fammi sapere. Ciao.»
Cosa le devo far sapere? Povera, devo smetterla di non ascoltarla.
Faccio per parlare, ma tentenno. Merda, non mi ricordo il suo nome. Sono pessima.
«Sempre Marco» dice.
Se n’è accorto. Che figura, provo a salvarmi. «Sì, lo so. Stavo pensando ad un’altra cosa» bugiarda «comunque, hai il pranzo?»
«No. Mi stai già invitando a uscire a pranzo?» sorride, fiero della sua battuta.
Non mi scompongo, di battute del genere dall’alto dei miei trentaquattro anni ne ho sentite e ignorate a volontà: «Allora c’è un bar qua sotto che fa dei panini decenti, se vuoi andare. La pausa dura un’ora, per favore non farti investire perché sono troppo importante per andare in galera.» questa è una bella battuta. Non come le sue.
Si alza ciondolante e dice «ti nasconderò un bisturi dentro una torta nel caso succeda.» e se ne va.
Tres sympathique.
Io nel mentre mi metto a mangiare la mia solita, tristissima quinoa presa dal carretto qui sotto. Voglio la lasagna, ma purtroppo no. Ho sempre voluto essere una di quelle donne in carriera che hanno anche il tempo e la voglia di cucinare e prendersi cura della casa, invece la per me la svolta è stato il take-away. Sono pessima lo so, forse sono cresciuta troppo ad immagine somiglianza di Carrie Bradshaw, quando avrei dovuto prendere spunto da Charlotte York.
Finito di mangiare ritorno a scrollare Luisaviaroma, devo finire la mia ricerca e poi ho bisogno di rifarmi gli occhi dopo tutti questi tristissimi piumini che mi tocca disegnare. Prada, Gucci, Fendi… Ah, l’Italia qualcosa di giusto la sa fare. E pensare che tempo fa mi occupavo di tutto questo.
Mentre le mie usuali paranoie provano ad impossessarsi della mia testa, ecco che torna Mirco. Marco.
Arriva con le mani in tasca, chewing-gum in bocca e la solita sigaretta dietro l’orecchio. Questo qui è davvero convinto di essere un bad guy.
«Posso aggiustare altro? Non so. Sturare i cessi?» E’ tornato ancora più simpatico. Mi innervosisco. Penso a tutta le cose che ho da fare, figuriamoci se dovevo avere anche questo accollo, e pure strafottente. Non ci sto. «Mettiamo le cose in chiaro. Sì, sono il capo qui. Sono la senior designer della linea Bienne Jeans. Ho mille cose da gestire e altrettante persone in mezzo ai piedi. Quindi o mi aiuti o te ne stai buono e zitto, per cortesia.»
Sensi di colpa per la sclerata.
«Wow» dice, mentre si siede alzando le mani «evidentemente ti piace stare qui dentro almeno quanto piace a me!»
Incredibile. In un secondo ha capito più lui di tutti quelli che mi circondano. Ma non si deve permettere a prescindere.
«E sei in ritardo di mezz’ora.» rispondo, cercando di ignorare ciò che ha appena detto, lui fa spallucce e si siede con fare rozzo.
Va bene, facciamo un passo indietro: «Frequenti l’Ababo giusto?»
«Non si direbbe, ma sì» dice con un sorrisetto ammiccante.
«Bene. Allora ti lascio una decina di rendering da fare, io ora ho un meeting con la Francia, puoi usare il mio Mac».
Mi dirigo verso la sala meeting e non posso fare a meno di notare quanto risalti il verde delle mie Jimmy Choo su questo tristissimo pavimento grigio. Sono proprio sprecata.
Mi siedo al tavolo e mi sento toccare la spalla «Amanda, puntuale come sempre» eccolo nuovamente, il CEO Marchetti. L’uomo più viscido e potente che si aggira per l’azienda. Abbronzatissimo, occhiali sfumati alla Vasco, e colletto della camicia tirato su. Osceno. Poi è sempre così piacione con le donne. Mi fa rabbrividire ogni volta che mi tocca.
Finito il meeting durato quasi tre ore mi fermo a prendere il quinto caffè della giornata e penso che anche stasera farò tardissimo.
«Ecco perché sei così nervosa» alzo lo sguardo mentre tiro fuori il mio caffè e vedo due mani tatuate appartenenti a questo ragazzino appoggiato alla macchinetta.
Carini i tatuaggi però.
«Quando inizierai a lavorare, capirai» vado via, sculettando anche un po’.
«Io vado a casa, capo» sento urlare, mi giro e lo vedo salutarmi con un inchino, poi darmi le spalle e infilarsi la sigaretta in bocca. Bah. La nuova generazione.
Torno alla scrivania mescolando il mio caffè, mi siedo e inciampo sulla mia Louis Vuitton. Quel tipo ha toccato e spostato tutto.
Ah, è vero. Gli avevo detto io di sedersi al mio posto.
Vediamo un po’ questi render.
Niente male, anzi devo dire che ha un’ottima tecnica, anche se ha fatto un po’ quello che pareva a lui.
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