Basta una parola per definirmi: accidia. Per la Treccani, l’accidia è “Inerzia, indifferenza e disinteresse verso ogni forma di azione e iniziativa. Più in particolare, nella morale cattolica, negligenza nell’operare il bene e nell’esercitare le virtù (nell’antica tradizione teologica, uno dei sette peccati, o vizi, capitali)”.
Secondo me è un complimento.
Alla mia età Gesù ne aveva fatte di cose, anche se sarebbe morto entro l’anno, invece a me non va di fare un benamato. Credo che questa cosa abbia a che fare con la libertà, con la possibilità di fare o non fare, ma non ho mai approfondito, per pigrizia.
Sono talmente pigro, che non ho mai veramente scelto di fare qualcosa. Mi sono sempre trovato spinto dall’esterno, liscio come una supposta su per i meandri oscuri delle chiappe. È stato così per l’università e per il lavoro. Il DAMS (Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo) per via dei film e il Call Center perché mio padre Eligio, appena andato in pensione, ha deciso di tornarsene all’amato paesino natìo di Rocca Venerina, nel bel mezzo del buco del culo della Sicilia. Evidentemente la terra di sepoltura lì è più morbida. La motivazione ufficiale è che così può prendersi cura meglio di mia mamma che, dopo l’incidente, non c’è più stata con la testa. Tutta la famiglia non c’è più stata con la testa, ma queste sono faccende personali che, se avrò la forza ed il coraggio, magari vi racconterò in un’altra sede.
A me restavano solo due opzioni: scendere in Sicilia con lui e finire l’università lì; oppure trovare un lavoro qui a Roma. Piuttosto che prendermi il cannolo nel di dietro, mi sono lasciato scegliere dal lavoro. Non sono andato a cercarlo io, ma ho risposto ad una mail di spam della HardworkinForce, l’agenzia internazionale di lavoro interinale.
Dopo tre anni di vita da solo, posso riassumermi così: sono Tony, che ha lasciato l’università a cinque esami dalla fine e che lavora nel Call Center dell’assistenza italiana della Peach, l’austriaca Software & Hardware House più ricca del mondo.
Quando dico che lavoro per la Peach, tutti mi fanno i complimenti, ma non sanno che in realtà lavoro per la HardworkinForce, che mi affitta alla Front&Back, controllata dalla Human Performance. Una di quelle scatole cinesi all’italiana per pagare meno tasse. Siccome sono pigro, lascio credere a tutti che lavoro direttamente per la Peach, anche perché così mi trattano come una specie di ingegnere che sorseggia tè su una base spaziale, mentre spara razzi sulla Luna. Ti trattano tutti meglio se credono che lavori per una multinazionale.
E invece lavoro in un Call Center, ricamando un miraggio di pensione più difficile della conquista di Marte, terra ferma sulla quale approdare dopo settant’anni di risvegli all’unisono con gli agricoltori della Basilicata, due ore quotidiane di pollaio dei mezzi pubblici, per raggiungere stie ancora più rumorose e buttarsi in un’apnea di otto ore di lagnose lamentele di primati senza opposizione pollice-indice, riprendere fiato per un’ora di pranzo e concludere, dopo un dejà-vu di due ore di pollaio a ruote, con uno spiaggiamento sul letto, farcito di propositi di festini, che si infrangono sulla realtà di fiction piene di preti e sonni pieni di rivincite. E qui riprendete pure fiato.
Tutto questo se tutto va bene, perché il privilegio di questa grande bellezza non è affatto sicuro: tra una settimana scade l’ultimo rinnovo con la HardworkinForce. O mi faranno lo staff leasing, cioè un contratto per cui diventerò ufficialmente precario a tempo indeterminato, oppure mi troverò in mezzo a una strada.
La mia accidia mi impedisce di cercarmi un altro lavoro, sicuramente pagato meglio. Altro che “generazione mille euro”. Averceli mille euro al mese. Con gli straordinari, grasso che cola se arrivo a novencentocinquanta euro al mese. Dicembre scorso sono riuscito ad arrivare a millecentoventitré euro e settantasei centesimi. Ancora ci sono i bicchieri di carta dello spumante seminati per casa.
Anche se la mia stanza, nell’appartamento che condivido con altri tre coinquilini, ha la televisione Full HD e la Play Station, c’è qualcosa che non va nella mia vita. Se fosse un software della Peach, chi lo ha progettato si sarebbe sbagliato alla grande, o sarebbe un pivello della programmazione.
Mi dicevano che da grande avrei avuto la libertà di diventare qualsiasi cosa, ma allora mi sa che questa famigerata libertà è un videogame in fase Beta, perché mi sento sempre in un livello duro di Tetris: tanti mattoncini da incastrare e pochissimo tempo.
Ma la mia vita è cambiata quando quell’estate ho incontrato Dio.
Valentina Gregori (proprietario verificato)
Ho la fortuna di conoscere lo scrittore di persona e la fortuna di aver già letto altri suoi romanzi e racconti. C’è poco da dire: è geniale. La sua scrittura ti rapisce! È ironico, diretto, accattivante, battuta sempre pronta, una scrittura molto descrittiva che sembra ti faccia vivere il libro in prima persona. Tutto questo lo ritrovi in “Tutti vogliono uccidere Dio”: una corsa contro il tempo per aiutare Junior (alias Dio) a superare il suo esame e salvare il mondo da un ripristino totale. È un susseguirsi di eventi che non puoi smettere di leggere. Ma, in fondo, chi è che non vorrebbe avere un Dio hipster come amico da aiutare?! Da sostenere assolutamente!