Una vita normale, liscia, pienamente in linea con le peculiarità di quella di ogni altro quindicenne normo-popolare odierno e facente parte della mandria pubescente.
Solitamente il branco adolescenziale richiede all’imberbe tipico, in rigoroso ordine sparso, quanto segue:
• Assoluta incapacità a prendere qualcosa seriamente, fosse un gioco, la scuola o un terremoto.
• Idiosincrasia verso qualsiasi attività di cura della persona (parlo di adolescenti maschi, of course), ivi comprese sessioni di lavaggio di durata superiore ai 3-4 minuti cronometrati.
• Possesso di almeno due palloni di cuoio da calcio firmati non importa da chi, Michel Platini o Silvio Piola o Paperinik; l’importante è che ci sia una firma.
• Possesso di minimo tre squadre complete di Subbuteo, stoccate in comodi bagagli a mano, sempre pronte per le insidiose trasferte a casa degli amici.
• Scarsissimo interesse verso l’altro sesso, se si escludono procacissime biondone su copertine di dubbissimo gusto, alcune mamme e zie degli amici e la Professoressa di francese che, essendo francese, è bella per definizione.
• L’amore viscerale per l’estate e i pomeriggi passati a tuffarsi nel torrente.
• L’odio atavico per la scuola, a parte le ore di francese, e tutte le persone oltre i sedici anni che si trovano al suo interno, a parte la Professoressa di francese.
• Poco altro dipendente dal carattere di ognuno.
Pezzi di felicità assoluta s’intrecciavano con frequenti moti di scazzo giovanile.
Niente, comunque, mi aveva ancora preparato a subire l’attacco che mi avrebbe cambiato per sempre.
Non ero ancora stato toccato, se non marginalmente e assolutamente inconsciamente, da quell’ansia indefinibile provocata dalle farfalle; da quegli sciami silenziosi che ti tritano lo stomaco quando, per la prima volta, conosci l’amore.
Era estate, le dicevo, ed io camminavo, come spesso facevo e faccio tuttora, con la testa persa in posti lontani, inaccessibili.
Complessi.
Sciocchi.
“La fermo subito Santo, stiamo quindi parlando di problemi d’amore?”
“In parte, ma non solo”
“Allora devo prepararmi diversamente, e la avverto, la parcella sarà più alta.”
“Va bene Professore, ci aggiorniamo, quindi?”
“Sì, prima di uscire prenda appuntamento con la Signora Marta, arrivederci a presto.”
“Arrivederci”
CAPITOLO PRIMO
Altrove Canavese, 10 agosto 1992
Registrazione n.2 Signor Santo Osiride Titocco.
Posizione: armadio grande in mogano scuro, terzo scaffale in basso a destra, studio
“Buon giorno Professore”
“Buongiorno Santo, prego si segga e cominciamo, mi pare di ricordare che si stava camminando”.
“Esatto Professore, esatto.”
Camminavo per la strada come chiunque altro.
Nascondevo nel portafoglio un nome che chiunque altro avrebbe rifiutato: Santo Osiride.
Così ero stato registrato all’anagrafe quindici anni prima Il risultato di un trattato di non belligeranza firmato, dopo mesi di lotta a colpi di libri di storia e passi del Vangelo, da una cattolica praticante e un patetico patito dell’antico Egitto: i miei genitori.
Il cognome, Titocco, completava il tutto, producendo una cacofonica via di mezzo tra una bestemmia, un’eresia Isiaca e un’imprecazione da idolatra pervertito.
Quel giorno mi dirigevo verso l‘ingresso di noce scuro dell’insolitamente poderosa, e giustamente polverosa, biblioteca di cui è provvisto il paesone che mi ha dato i natali: scafali di legno nero e stanze scure, illuminazione soffusa proveniente dalle piccole finestre poste irragionevolmente in alto, con il vetro lavato ogni lustro o poco più.
L’atmosfera che vi si respira è ovattata.
Quasi come essere, per lo meno per me, di nuovo nel ventre materno; si sentono poco i rumori provenienti dall’esterno, arrivano all’orecchio come un rombo basso e soffuso; tutto ciò provoca una rilassata attenzione nei lettori interessati, ma anche soporiferi viaggi di fantasia in quelli annoiati e diretto ingresso in fase rem in quelli stufi.
Varcato il serioso arco, mi diressi come sempre verso la sezione di Archeologia.
Fu proprio lì, sul bordo del tavolo numero cinque per essere precisi, che per fatua fatalità o ironia divina (faccia lei, che il sapore amaro dell’impotenza colpisce comunque e brucia in bocca), il primo pezzettino del tutto che avrebbe sconvolto il mio fragile equilibrio si palesò birbante.
Una manina così, le assicuro, non si era mai vista in tutto lo srotolarsi del tempo; neppure nel primo capitolo, quando il Grande Impresario cercava nel terriccio forme perfette, si era sfiorata tale grazia: dita corte ma affusolate, falangi, falangine e falangette ben proporzionate, il palmo cicciottello quanto bastava a renderlo desiderabile e infine le unghie, piccole, curate e appuntite quanto bastava a renderle degne di prudenza.
Questo pensavo, mentre le righe di Ceram perdevano la presa sui miei occhi ed esattamente nello stesso istante in cui gli occhiali decidevano di fare lo stesso dal mio naso.
Diottrie che da qualche tempo ormai non facevano più pienamente il loro dovere furono repentinamente spogliate delle loro artificiali proprietà, e il fluido ed elegante movimento che eseguii con la testa e che, perlomeno nelle mie intenzioni, avrebbe dovuto permettermi di osservare il corpo che possedeva siffatta appendice, si trasformò in un ridicolo lancio a campanile dell’occhiale.
Annaspai, tastai e bestemmiai anche un poco, devo ammetterlo; dimenticando la presenza di tante orecchie prontissime a scandalizzarsi per comandamento, tanti occhi fatti solo per registrare il ridicolo, e tante bocche pronte a tramutarlo in riso; ritrovai con la rapidità della disperazione gli occhiali, li inforcai clamorosamente al contrario, ribestemmiai calorosamente per coerenza (e si sussurra che in quel momento tanti furono i santi e gli dei chiamati in causa, che l’intero scafale della sezione teologica scricchiolò paurosamente) e quando riuscii nell’impresa l’infernale dispositivo ottico mi mostrò la più cicciona bibliotecaria dell’intero Ecumene, esibente in blasfema posizione infrapettorale un enorme crocefisso di oro puro, scintillante in tutto il suo non-senso evangelico.
Non mi reputo un pavido; le assicuro però che l’immagine che apparve innanzi a me quel giorno fu tanto repentina quanto paurosa.
Ora che posso pensarci a mente fredda mi riesce più facile comprendere quanto sia stato semplice per uomini primitivi crearsi dal nulla miti tritettuti e quindi religioni di femminile estrazione: in quell’istante fui indeciso se inginocchiarmi adorante di fronte a quella possente figura o fuggire.
Laicamente, fuggii.
Tornando a casa l’atavico timore pian piano sfumò e fu gradualmente sostituito dall’immagine della mano che aveva provocato tutto quel trambusto.
Fu inavvertitamente che il pensiero si tramutò in azione e rese il tragitto di ritorno costellato di lungimiranti (nel vero senso della parola) quanto inutili occhiate in tutte le stradine a caccia di tutte le mani di tutte le donne, senza distinzione di età.
Questo mi attirò sguardi a volte di ribrezzo, quando l’età era bassa, a volte speranzose, quando l’età aveva ormai tolto l’abitudine, più spesso indifferenti, quando l’età era giusta.
Osservavo alla ricerca di quel solo particolare che avrebbe potuto permettermi di ritrovare ciò che cercavo: un anello raffigurante due delfini d’oro zompanti fra onde d’argento.
Era l’unico reale appiglio visivo che ero riuscito a memorizzare prima di perdere gli occhiali e a esso mi aggrappavo come un investigatore a un’impronta digitale.
Fu tutto ovviamente inutile.
Giunto a casa mi precipitai in camera mia, nel pieno rispetto di ciò che ci si può aspettare da un adolescente in crisi ormonale.
Non mangiai, preoccupando la mamma, e non mi fermai a guardare l’amichevole partita di calcio Juventus-Dinamo Canicattì valevole per la conquista dell’ambitissimo Trofeo Macelleria Buratti, e questo preoccupò seriamente mio padre.
Mi rifugiai in camera e mi misi subito a letto compiendo una serie di ardite giravolte su me stesso prima di riuscire ad addormentarmi.
Il sonno giunse agitato, costellato d’incubi popolati da ciccione crocefisse in biblioteca e da delfini che le additavano (zoo logicamente inesatto, ma oniricamente possibile) ridendo di gusto.
La notte, dicono i saggi, porta consiglio.
Nel mio caso fu tanto ridicolo quanto fatale.
Mi spinse a disegnare una sagoma di donna in grandezza naturale a tre dimensioni cui appiccicai una fedele riproduzione di quello sconvolgente pezzo di carne che mi aveva turbato la vita.
Era l’unica parte del manufatto che poteva godere di un certo realismo giacché sono un buon disegnatore, e di quella avevo esperienze visive ed emotive.
Il resto, beh, immagino fosse la raffigurazione di tutte le turbe sessuali che un quindicenne (che ha degnato di veloci sguardi le teorie anatomiche di Leonardo, ma che mai ha ancora avuto il piacere di verificarne la genialità dal vero) possa avere: seni enormi e antigravità, innestati, alla maniera del Canova, su un corpo snello e chiaramente non in grado di sostenerli; sedere (ebbene sì, la sagoma era doubleface!) con forma tipicamente d’ispirazione musicale (c’è chi dice “a mandolino”, chi a “parte inferiore di violino”, ma questi ultimi sono soprattutto studenti del conservatorio, che di strumenti se ne intendono, chi addirittura a “grancassa”, e qui si potrebbe dissertare a lungo sui gusti degli uomini), gambe perfettamente rettilinee alla faccia delle articolazioni, e schiena con una superficie calcolabile esattamente applicando la formula “base maggiore più base minore per altezza diviso due”, che, per coloro mantenuti digiuni di geometria piana, significa trapezioidale.
Nascosto sotto il letto il simulacro, cui per la felicità di Edipo avevo assegnato il nome di mamma Rebecca, uscii ansiosamente da casa per dirigermi verso l’unico luogo collegabile alla mia nuova ossessione.
Entrai cautamente, memore della spettacolare uscita di scena precedente.
L’arco mi sembrò più scuro che mai.
Mi scontrai prontamente con la pettoruta cerbera:
“Fuori di qui!”, mi tuonò da far paura.
E anche Giove annotò con invidia cotanta possanza vocale.
Me ne andai rapido, e presi a gironzolare per le stradine del centro.
Nel mio adorato paese il sole non riesce a illuminarle completamente, un aspetto che da sempre mi ha affascinato.
La tortuosità di quelle viuzze lastricate di lisci cubetti di porfido, i chiaroscuri misteriosi che complicano ancor di più i colori già di per sé innumerevoli e sfuggenti, persino gli odori, che anche d’estate ricordano vagamente la muffa, tutto, insomma, mi fa sentire a casa.
Cominciai a passeggiare calciando i ciottoli che mi si paravano innanzi e pensando con un angolo del cervello al gramo destino di quelle pietruzze di strada lastricata (dico così perché in campagna se ne trovano talmente tante che a pochi vien l’ispirazione di calciarne una).
Sono condannate a sperare nel buonumore di gente che non conoscono per passare qualche ora tranquilla, perché si sa, se uno è di buon umore, le pietruzze non le vede e tuttavia neanche le sfiora, ma cosa c’è di meglio per tirarsi su il morale di qualche calcio qua e là a pietrine tonde e, evidentemente, con una particolare faccetta da culo?
Camminai come si cammina la mattina presto, imprecando a ogni posar di suola, a testa bassa, ma con furore e ritmo da maratoneta; cosicché mi accorsi del palo della luce solo quando ormai era ad un passo.
Alzai la testa grazie ad un sadico e ritardatario istinto di conservazione e vissi una di quelle scene rallentate, molto cinematografiche, con il palo ormai enorme davanti a me, ma con tutto il corpo proteso in una frenata chiaramente impossibile; ogni muscolo gonfio, la bocca allargata a scoprire denti digrignanti e gengive tirate; gli occhi, strabuzzati e roteanti come quelli di un geco, a cercare improbabili vie di fuga; le braccia tese sorprese a metà di un gesto salvatore e…, e poi il grigio del palo farsi nero.
Nerissimo, come il dolore; partito dalla fronte il gramo girò dietro i bulbi oculari, entrò nel cervello come i barbari in Roma antica e, dei barbari imitando le gesta, si infilò bastardo nella spina dorsale, e scese giù. Scese giù facendo rafting nel midollo spinale. Giù, solleticando le costole paio a paio. Giù, fino al bacino, dove sostò indeciso se provocare danni irreparabili, salvo poi proseguire magnanimo. Giù, facendo quasi entrare in risonanza femori tibie e peroni, per poi fermarsi, glorioso e soddisfatto, nei piedi: il conquistatore vittorioso.
Resistetti, non svenni subito.
Prima, non so perché, guardai in alto, forse già cercando gli angeli o gli arcangeli o Valentino Mazzola, venuti a portarmi via, e vidi come in sogno due delfini d’oro tra cinque onde rosa.
Sorrisi ebete e affondai come affondò il Titanic, con la musica nelle orecchie.
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