18 novembre 2010
Sono qui, nel mezzo della festa del sessantesimo compleanno di mio padre.
C’è la torta, ci sono sei colossali candeline da soffiare, le foto, i parenti, qualche amico e pure alcuni conoscenti.
Ci sono i miei figli, gli unici due nipotini di mio padre.
C’è lui, il festeggiato.
E c’è la mia nostalgia. Nostalgia di qualcosa che ancora non ho perso: un anticipo di nostalgia per quel che so perderò.
Mio padre ha un tumore al pancreas. E’ terminale. Queste malattie sono così, arrivano in silenzio e quando te ne accorgi perché cominciano a farsi sentire è già troppi tardi. Tre mesi fa la dottoressa del reparto mi ha detto: “Non c’è nulla da fare, solo sperare che non soffra. Non serve aprirlo, sarei la prima a sezionarlo come un coniglio. Se solo servisse a qualcosa. Ma qui non ha senso. Il pancreas fa così. Auguri signora, arrivederci.”
Arrivederci.
Perché ho scritto questo libro?
Ho scritto questo diario anni fa, durante la malattia di mio padre. In quest’epoca di Lutto inenarrabile, di Dolore infinito, di Paura indefinita, mi sono ricordata di come stavo allora. Rileggendolo, ho ritrovato quella Sofferenza, ma anche la Bellezza della Vicinanza, della Condivisione, del Conforto, del Fermarmi, del Prendermi l’Ascolto. E ho pensato così di rimettere in circolo tutto questo, porgendo il mio diario a voi. So che lo leggerete delicatamente, con Cura. E vi ringrazio
ANTEPRIMA NON EDITATA
AGOSTO 2020
Ho scritto questo diario anni fa, in un periodo in cui cercavo a tutti i costi di rimanere a galla, con l’ovvio scopo primario di non affogare.
Ero una giovane mamma, ma anche una giovane moglie, e anche molto sola. Venivo da una storia fatta di “arrangiarmi” e, pur essendomi permessa di incontrare l’Amore, pur essendomi concessa di costruirmi una Famiglia vera – da me amata e da cui sentirmi amata – pur essendomi incaponita (saggiamente, in fondo – lo dico persino col senno di poi) nel concentrarmi anche sul Lavoro oltre che sulla Famiglia – senza voler scegliere (come pare spesso debba accadere), restava in me un nucleo profondo di solitudine. Solitudine vissuta come ingiustizia e quindi con rabbia, una rabbia sorda e muta che in quegli anni ha saputo esprimersi, senza disvelarsi, attraverso il dolore fisico (per cui mi diagnosticarono una malattia degenerativa autoimmune) e attraverso il mio consumarmi nell’aiuto, il mio identificarmi completamente nel ruolo di “chi fa sempre solo per l’Altro”.
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Ho scoperto dopo – per quanto mi paresse di sapere e di avere già sperimentato queste cose (non le ho studiate e praticate per anni del resto?!) – cosa accadeva davvero dentro di me, solo quando ho lasciato che finalmente qualcun Altro mi aiutasse: i miei Familiari, le mie Amiche, il mio Giuseppe (etichettarlo solo come il mio Terapeuta mi pare che non renda abbastanza quanto mi abbia aiutato a cambiare la mia vita) …
Ha funzionato così bene che persino la diagnosi della mia malattia, che era divenuta in quegli anni quasi invalidante, sembra ormai essere una sorta di scherzo fuori luogo, dato che fortunatamente non ho più alcun sintomo da anni, se non qualche avvisaglia di malessere a cui riesco tempestivamente a dare risposta, ora che so Fermarmi, ora che so Stare, ora che so (abbastanza) Chiedere e Prendermi l’Aiuto, che a volte è cercare la Condivisione, a volte il Conforto, a volte la Vicinanza, a volte l’Ascolto, a volte la Considerazione, e così via…Tutte cose che mi facevano così paura e che invece sono semplicemente piacevoli! Eh, saperlo prima!! …Ma meglio tardi che mai, di questo sono ormai convinta.
Devo dire che non so bene come mai ho dunque ripescato questo diario in questo periodo per poi addirittura decidere di proporlo all’Editore. Provo a darmi qualche risposta e – visto quanto scritto poco fa – a Condividere con Voi che state prendendovi il Tempo della Lettura, regalando un po’ di Tempo di Ascolto a me.
Siamo in epoca Covid-19 (e speriamo di essere in fondo al tunnel). Il mio lockdown è stato “improprio” poiché ho sempre lavorato, essendo il mio un mestiere oserei dire necessario, visto il dilagante e comprensibile fortissimo disagio psicologico e sociale. Ho avuto ed ho così una prospettiva privilegiata (o molto parziale, in base a come la si voglia guardare) che mi fa stare tutti i giorni al cospetto dei grandi Mali Umani, amplificati ed esplosi in quest’epoca che già è stata definita “del tempo sospeso”, ma che in fondo già prima del Covid, chiamavamo – in base a dove volevamo porre l’accento: “precariato”, “instabilità”, “società liquida”, “globalizzazione”, ecc.
Ecco, forse mi sono ritrovata in un momento storico che ha il sapore di Lutto inenarrabile, di Dolore infinito, di Paura indefinita, di Solitudine artificialmente fiduciosa e di Diffidenza profonda. E semplicemente mi sono ricordata come stavo mentre moriva mio padre e io scrivevo questo diario di figlia.
18 novembre 2010
Sono qui, nel mezzo della festa del sessantesimo compleanno di mio padre.
C’è la torta, ci sono sei colossali candeline da soffiare, le foto, i parenti, qualche amico e pure alcuni conoscenti.
Ci sono i miei figli, gli unici due nipotini di mio padre.
C’è lui, il festeggiato.
E c’è la mia nostalgia.
Nostalgia di qualcosa che ancora non ho perso: un anticipo di nostalgia per quel che so perderò.
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