Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors

Un’altra verità

740x420 - 2023-04-13T175357.712
100%
200 copie
completato
22%
39 copie
al prossimo obiettivo
Svuota
Quantità
Consegna prevista Gennaio 2024
Bozze disponibili

Tommaso D’Amato è uno stimato manager di origini salernitane che vive a Milano. Quando era ancora molto piccolo, suo padre Riccardo e sua madre Vittoria si suicidarono. Questo evento tragico segnò una profonda crisi per la città di Salerno, dove la famiglia D’Amato aveva costruito un impero. Tommaso cresce con suo nonno materno Salvatore Vaccaro, che senza sottrarsi mai ai sacrifici di piccoli lavori di edilizia spicciola, passa al guadagno facile attraverso la speculazione, fino a diventare forte e potente. A suo nipote trasmette la convinzione che suo padre sia stato un drogato. Ma un video fatto recapitare da una donna, che si presenta in qualità di notaio, gli rivelerà un’altra verità.
Politica e malaffare, connessi in un tessuto sociale compromesso, sono protagonisti di questa storia avvincente e violenta. Un mondo coperto dal velo dell’apparenza in cui la brezza del vento non deve soffiare forte per sollevarlo.

Perché ho scritto questo libro?

Creare dei personaggi, decidere dove vivono e quando muoiono, cosa gli piace fare, che nevrosi hanno, se sono sinceri o bugiardi, calvi o capelloni, obesi o muscolosi è per me una delle cose più divertenti che si possa fare. Questo è il motivo per cui mi piace scrivere storie, credo ci siano poche cose nella vita così appaganti. In questo romanzo ho voluto approfondire il tema delle apparenze: le cose spesso non sono come sembrano, ma la verità prima o poi viene a galla.

ANTEPRIMA NON EDITATA

I fatti riportati in questo libro sono frutto della mia fantasia. Se qualcuno dovesse notare somiglianze con fatti o persone realmente esistite o in vita, si tratta di mera casualità. (In tal caso, se davvero esistono persone così, che conoscete o frequentate, il mio consiglio è di starne alla larga).

Prologo

Quando al giornale è arrivata la notizia che un uomo di nome Tommaso D’Amato risultava scomparso da una settimana sono saltato dalla sedia.

Chi non è di Salerno non può capire cosa evochi quel cognome. Negli anni Sessanta, mentre il Paese conosceva la dolce vita e il boom economico, i D’Amato diventavano i re della città. Il racconto della loro ascesa ha una valenza magica per chi, come me, ha sentito quella storia centinaia di volte. Mio nonno, che per i D’Amato lavorò tutta la vita, mi raccontava di Giuseppe, il patriarca, ogni volta che a piedi o in macchina ci dirigevamo verso il lungomare da via dei Principati.
Continua a leggere

Continua a leggere

I D’Amato brillavano come stelle del cinema e per tutto il tempo in cui la loro parabola è stata ascendente anche la città aveva vissuto un inspiegabile senso di ottimismo. Grazie alla loro storia, a quei tempi, si fantasticava di mille possibilità e di un mondo migliore, di un sogno americano in salsa salernitana che riempiva di speranza e orgoglio un’intera comunità, perché quel successo rappresentava una possibilità, una motivazione: anche a Salerno c’era qualcuno che ce l’aveva fatta.

Da metà degli anni ’40 e fino agli anni ’80, quando siamo nati io e Tommaso, i D’Amato sono stati i nostri Kennedy. Poi, proprio come per i Kennedy, si è abbattuta su di loro una maledizione che in pochissimo tempo ha fatto sì che scomparissero insieme ai nostri sogni e alle nostre illusioni.

Ogni volta che passeggio per via dei Principati un sorriso malinconico mi si stampa sul viso, stimolato dal ricordo del suono della voce di mio nonno che mi racconta di Giuseppe. Il mitico Peppino, il capostipite, che nell’immediato dopoguerra creò, in vent’anni, un piccolo impero.

Peppino, all’epoca dello sbarco alleato a Salerno, trainava tutte le mattine un carro carico di sciuscelle, i frutti del carrubo, che in quegli anni abbondavano sulle colline intorno. Peppino, che non era più di primo pelo, sudava anche quando era freddo sia in salita che in discesa proprio su via dei Principati, sulla via che andava e tornava dal porto. I suoi enormi sforzi furono notati dal capitano delle forze alleate McFly che alloggiava in un piccolo albergo situato in corso Vittorio Emanuele. All’alba, McFly attendeva il passaggio del carretto mostrando ai suoi collaboratori la determinazione e la fatica che quell’uomo metteva in campo tutti i santi giorni. Il capitano lo prese in forte simpatia e gli affidò un’importante fornitura di cruscami. In città ancora si parla dei dialoghi tra Peppino e McFly.

Ue Capità! Tutt’appost?”

“Yes Peppino, everything ok, take care!”

In quell’atmosfera ricca di opportunità che era l’Italia del dopoguerra, Peppino D’Amato non era però interessato all’attività che aveva ereditato dalla sua famiglia. La sua passione era l’edilizia. Con l’aiuto dei fratelli aveva ristrutturato la casa dei genitori e si era costruito un magazzino per stoccare gli alimenti. Sulla base di queste piccole esperienze fece credere a McFly di essere un abile costruttore andato in rovina a causa della guerra e di avere a disposizione le migliori maestranze in città. McFly, che aveva pieni poteri, gli affidò la realizzazione degli alloggi temporanei per i suoi luogotenenti e altre opere che consentirono a Peppino di guadagnare cifre consistenti in Am-lira, la moneta messa in circolazione dall’esercito USA dopo lo sbarco in Italia. Fu così che Giuseppe D’Amato avviò la sua folgorante ascesa a metà degli anni ’40.

Poi arrivarono altri cantieri negli anni ’50 e con il boom economico degli anni ’60 e le diversificazioni nell’alberghiero si avviò la costruzione e la gestione di tre dei più importanti alberghi della Costiera Amalfitana. Gli anni da venditore ambulante erano alle spalle, Giuseppe D’Amato era uno stimato imprenditore insignito dal Presidente della Repubblica della carica di Cavaliere del Lavoro.

A Salerno tutti volevano bene a Peppino e lavorare per lui era motivo di orgoglio.

Mio nonno Pietro, il padre di mia madre, è stato un capo cantiere alle dirette dipendenze di Giuseppe. Suo figlio Enzo, mio zio, è stato maître a Positano al Grand Hotel. Mio padre dopo la laurea in ingegneria ha iniziato a lavorare per la D’Amato Costruzioni.

I D’Amato entravano in ogni conversazione che la mia famiglia teneva a tavola quando ci riunivamo tutti insieme la domenica, al pari della politica nazionale e del campionato di calcio.

Mio nonno Pietro aveva un terreno a Macchia Morese, una collina soleggiata a sud di Salerno, con un piccolo casolare di una sola stanza spoglia che accoglieva una cucina, un tavolo allungabile con sedie una diversa dall’altra, un divano con qualche bruciatura di sigaretta e un bagno senza piastrelle in cui spesso trovavo degli animaletti neri chiusi come ricci. Per tutta la mia infanzia e buona parte dell’adolescenza ogni domenica ero lì con i miei genitori, i miei nonni e mio zio. Da che mi ricordi nonno prendeva posto a capotavola, mio padre alla sua sinistra, zio Enzo alla sua destra. Accanto a mio padre c’ero io e a seguire mia madre. Nonna sedeva accanto a zio Enzo. All’altro capo del tavolo c’era una sedia vuota. Era il posto di zio Dario, morto in circostanze mai accertate quando io non avevo ancora compiuto tre anni. Era scomparso all’improvviso. Secondo la polizia era coinvolto in un giro di scommesse clandestine. I miei non hanno mai creduto a quella ricostruzione. Zio Dario era un giornalista del Mattino e secondo nonno stava portando avanti un’indagine pericolosa.

A ogni modo, che fosse primavera o inverno, la domenica alle 13:00 eravamo a tavola.

Anche Tommaso partecipò a uno dei nostri pranzi a Macchia Morese. Era il 1994. Ci eravamo conosciuti a scuola proprio quell’anno. Sarà che la mia famiglia aveva una connessione così marcata con i D’Amato, il primo giorno di scuola io e Tommaso finimmo l’uno accanto all’altro e diventammo compagni di banco. Ricordo che all’inizio, a ogni appello, i professori dopo aver pronunciato D’Amato facevano una pausa per alzare lo sguardo e indirizzarlo verso quel giovane magrolino seduto accanto a me. Era come se pensassero, anzi sono sicuro che pensassero, “Ah, sei tu” oppure, “Ecco l’erede senza trono”. Proprio il 1994 fu uno spartiacque per me, per Tommaso e per la mia famiglia.

Quell’estate, mentre Roberto Baggio si svegliava all’improvviso a fine partita contro la Nigeria tenendo a galla una nazione intera, io e Tommaso terminavamo il primo anno del Liceo Scientifico.

Una domenica, mentre eravamo a tavola, dissi a mio nonno che il mio compagno di banco era Tommaso D’Amato. Quasi si mise a piangere. Quel cognome gli evocava la sua storia, tutta la sua vita. Tommaso mi aveva accennato che si sarebbe trasferito, che suo nonno voleva che vivesse lontano da Salerno e che si formasse in una scuola militare. Mi colpì il suo distacco, quasi stesse parlando di un altro e non di sé stesso. Però sul momento compresi quella decisione, su di lui c’erano troppi occhi, troppe attenzioni, troppe voci.

Ancora oggi, Salerno è una città troppo piccola per poter sfuggire ai pettegolezzi.

Sapendo che non avrei avuto altre occasioni, invitai Tommaso a pranzo da noi a Macchia Morese. Arrivammo al casolare in sella al mio SR Aprilia pochi minuti prima delle 13:00. Il sole picchiava. Io e Tommaso avevamo ancora indosso i larghi costumi da mare. A quei tempi per andare in spiaggia si indossavano dei boxer lunghi, le ciabatte e delle larghe canottiere. Appena parcheggiato il motorino sotto una pianta di ulivo prendemmo i caschi per far credere ai familiari di averli indossati ed entrammo. Sembrava una seduta di meditazione. Mio nonno era come sempre a capotavola, ma invece della solita canottiera indossava, nonostante il caldo, una camicia bianca.

Mio zio, al suo fianco, era seduto composto, con i polsi appoggiati al tavolo. Mia madre e mia nonna erano in piedi dinnanzi la cucina intente a servire cavatelli al sugo, mentre mio padre posò il giornale e si limitò a dire: “Eccovi”.

Rimasi sorpreso: la presenza di Tommaso aveva reso silenziosa anche la nostra tavola. Era come quando una brutta notizia arriva all’improvviso. Ricordo di essermi persuaso che la scelta migliore, per lui, era davvero andare il più lontano possibile. Aveva stampato sulla fronte un’etichetta, quella dell’orfano sfortunato, di un povero ragazzo che stimolava sentimenti di pena in chi gli stava accanto.

Dopo le presentazioni, nonno si rivolse al nostro ospite.

“Tommaso, Dario ci ha detto che andrai a studiare lontano da Salerno.”

“Sì, nonno ritiene sia la scelta migliore per me e lo credo anch’io. Lui non ha tempo e modo di seguirmi, ma può garantirmi un’istruzione nelle migliori scuole. Sono passati molti anni dalla morte dei miei genitori, ma il mio cognome è come un marchio che qui è impossibile togliersi di dosso, qualcosa di cui sembra io debba vergognarmi.”

Restammo tutti in silenzio. Zio diede qualche colpo di tosse. L’associazione della parola vergogna al cognome D’Amato a mio nonno non andò giù.

“Tommaso, usciamo un attimo” gli disse alzandosi da tavola. Lo prese sottobraccio e insieme si avviarono verso la campagna.

Trascorsero cinque minuti prima del loro rientro, in cui rimasi a pensare a testa china che forse non era stata una buona idea invitare Tommaso.

Il lungo silenzio fu interrotto quando nonno, rientrando, si rivolse a mia madre chiedendo di sistemare il coperto di Tommaso a capo tavola, al posto di zio Dario. A nonna cadde una lacrima.

Dopo essersi accomodato, il nonno versò del vino nel suo bicchiere e lo alzò.

“Brindiamo a Tommaso: la nostra famiglia sarà sempre grata alla tua e noi tutti ti auguriamo una vita felice. E mi raccomando, ricordati che semmai avrai bisogno, ci sarà sempre un Conti pronto ad aiutarti!”

A Tommaso! ripetemmo insieme. E da quel momento il pranzo della domenica della famiglia Conti tornò alla chiassosa normalità.

Non ho mai saputo cosa si dissero. Non feci in tempo a chiederlo a mio nonno, che morì poche settimane dopo per un infarto, né tantomeno a Tommaso, che partì per la scuola militare. Fu così che in quel 1994 diventai grande all’improvviso, sotto i colpi inferti da ciò che accadeva nel mondo e da ciò che accadeva vicino a me. La morte in diretta televisiva di un mito come Senna, ma anche il disincanto di una finale del mondiale persa ai rigori, rappresentarono la prefazione ai dolori personali che provai. La mia infanzia era davvero finita.

Pur vivendo distanti siamo rimasti in contatto fino a oggi: in occasione delle festività, per i nostri compleanni, per avvenimenti importanti, come la laurea o il primo contratto di lavoro. Dapprima con lettere scritte a mano poi, con l’avvento dei cellulari, grazie a sms e telefonate. Qualche volta mi sono chiesto da dove derivi un legame così forte, perché, in effetti, ci siamo frequentati in modo assiduo solo per un anno, all’inizio del liceo. Credo che il nostro rapporto sia alimentato dal desiderio di mantenere un filo con il passato, con la nostra terra d’origine: l’un l’altro ci rimandiamo a legami intimi del passato, a un periodo innocente, quando gli unici desideri erano di correre al mare, su un campo di calcetto o di giocare ai videogame.

Tommaso si era trasferito a Milano e aveva intrapreso una carriera brillante, era diventato un pezzo grosso nel settore alberghiero, attività in cui la sua famiglia, ai bei tempi, eccelleva tra Amalfi e Salerno. Ogniqualvolta raggiungeva una promozione o un risultato importante mi aggiornava e io ero davvero felice per lui: con tutto ciò che aveva passato meritava un pieno e totale riscatto. La sua fama era in continua crescita. Se cercavi il nome Tommaso D’Amato su Google il risultato erano decine e decine di articoli riguardanti il settore alberghiero italiano. Non era più l’orfano magrolino che avevo conosciuto nel ’94, era diventato un manager importante e sicuro di sé.

È facile intuire, dunque, quanto mi sconvolse la notizia della sua scomparsa. Mi sentii vuoto e soprattutto in colpa. L’ultima volta che ci eravamo incontrati, a Salerno, mi aveva posto alcune domande su Michele Perillo, ex sindaco e attuale Presidente del partito La Forza del Sud. Lì per lì mi sembrò semplice curiosità, poi, qualche mese dopo, mi chiamò e con voce concitata mi aveva chiesto di incontrarci: grande fu il mio stupore quando al telefono sentii la sua voce dire: “Incontriamoci subito, voglio raccontarti cosa so di Perillo!”

L’idea di ascoltare cosa aveva da dire sul famoso politico mi eccitava e mi intrigava, non riuscivo proprio a immaginare quale potesse essere il nesso tra i due.

“Sono a Napoli, posso essere a Salerno tra un’ora.”

Gli confermai la mia disponibilità a incontrarlo proponendogli di vederci in piazza Portanova che, oltre a essere a due passi dalla redazione, è anche la zona della città che preferisco: da un lato via Mercanti che attraversa e taglia in due tutto il centro storico, da un altro il corso Vittorio Emanuele con i bar, i negozi, le librerie e tutto il via vai di persone che vi passeggiano a passo lento. Di fronte, a poche centinaia di metri, il lungomare con le palme, i giardini e le panchine.

Tommaso a quell’appuntamento non arrivò mai. Poco dopo la sua telefonata, ricevetti un messaggio in cui mi informava che aveva cambiato idea, che si sarebbe fatto vivo dopo qualche giorno. Aspettai un suo contatto invano e senza fare nulla, per questo mi sono sentito in colpa. Con gli eventi che si susseguirono subito dopo fui travolto dal lavoro e non prestai attenzione al fatto che Tommaso non mi chiese un nuovo appuntamento.

Da quel giorno, da quando venni a sapere della sua scomparsa, sono trascorsi due anni.

In questo periodo ho cercato di mettere insieme i pezzi, ho svolto indagini, intervistato persone. Ho letto atti, testimonianze, analizzato documenti e ho iniziato a scrivere questa storia. Sento di essere in debito con lui. Vorrei ripagarlo in qualche modo e credo che l’unica possibilità sia di far conoscere alla città un’altra verità, fino in fondo.

Trentacinque anni dalla morte di Riccardo D’Amato.

Trentacinque anni fa, un salto di oltre quaranta metri nel vuoto interruppe l’esistenza di Riccardo D’Amato e di sua moglie Vittoria Vaccaro, figlia di Salvatore Vaccaro, discusso imprenditore della Piana del Sele.

Riccardo D’Amato era soprannominato il filosofo, non solo per gli studi classici e le sue idee contro corrente, ma soprattutto per rimarcare quella che per molti fu un’attitudine inadeguata per guidare un gruppo da milioni di fatturato e centinaia di dipendenti. Il suicidio dei coniugi D’Amato segnò una ferita ancora aperta per la città. Nessuno si aspettava un gesto così tragico, tanto più perché la coppia lasciò orfano il loro unico figlio Tommaso, oggi apprezzato manager che vive lontano da Salerno.

Il suicidio segnò l’avvio di una profonda crisi per la città, le sue istituzioni politiche, economiche e giudiziarie che videro da quel momento il rapido susseguirsi di eventi come la bancarotta della Banca Salernum, il fallimento della D’Amato Costruzioni, la messa alla gogna di un’intera classe politica cittadina che fu sostituita, a furore di popolo, dall’allora “nuovo che avanza” rappresentato da Michele Perillo.

Con questo trafiletto il mio giornale pochi giorni prima della scomparsa di Tommaso commemorò la morte dei suoi genitori. Tutti gli anni in città si ricordava l’evento, che segnò, di fatto, la fine di un’era. Molte sfaccettature della storia che racconto sono frutto di mie congetture, ma sono certo di non essermi spinto troppo lontano dalla realtà: è tale la sicurezza che ho sulla ricostruzione degli eventi che, pur non conoscendo personalmente tutti i protagonisti di questa storia, ho messo nero su bianco finanche i loro pensieri.

Tutto ebbe inizio nel gennaio del 2021.

Mi sembra di vederlo Tommaso in una mattina di inizio anno nel suo ufficio di via Cusani a Milano in un abito blu Armani, i riccioli tenuti a bada dal gel, la barba perfettamente rasata, i mocassini luccicanti. Tommaso è senza dubbio un bell’uomo con quel modo di presentarsi che ricorda un catalogo di alta moda.

Sì, posso immaginarlo come un predatore affamato pronto a divorare la sua preda, con l’obiettivo di portare a casa qualche punto percentuale di marginalità da presentare agli azionisti.

2023-04-24

Aggiornamento

Ciao! Sono davvero felice di comunicare che sabato abbiamo raggiunto i 200 pre-ordini! Un'altra verità sarà pubblicato, grazie, grazie, grazie!
2023-04-18

Il Mattino

Ciao a tutti! La campagna procede bene, oggi parlano di noi il Mattino e altri quotidiani online di Salerno e provincia!
Mi piace usare il plurale perché è una cosa che stiamo facendo insieme, senza il vostro contributo non saremmo ad un passo dai 200 preordini.
Grazie di vero cuore,
Gerardo
Ecco il link:https://www.ilmattino.it/cultura/libri/crowdfunding_bookabook_milano_libri_gerardo_petretti-7351041.html

Commenti

Ancora non ci sono recensioni.

Recensisci per primo “Un’altra verità”

Condividi
Tweet
WhatsApp
Gerardo Petretti
Sono nato nel 1981 a Salerno dove ai tempi del liceo frequentavo la redazione di diversi quotidiani locali, scrivendo di sport e cronaca. Mi sono laureato in Economia Aziendale all'università Bocconi di Milano. Dopo la laurea mi sono dedicato ad un'altra passione, il settore alberghiero, che mi ha consentito di lavorare in Italia e all'estero per importanti catene di hotels. Nel 2010 con i miei due fratelli abbiamo dato vita al concept MagicSuite, camere a tema con all'interno piccole SPA. Vivo a Eboli, in provincia di Salerno, con mia moglie Vera e i nostri due figli, Sara e Alessandro. Nel tempo libero frequento corsi di scrittura e collaboro con una testata online di Salerno.
Un'altra verità è il mio primo romanzo.
Gerardo Petretti on FacebookGerardo Petretti on Instagram
Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors