Ruttò ancora. Continuava a spostare i pesci del banco.
Sembrava solo uno che cercava qualcos’altro al di sotto, non dava proprio l’idea di uno che voleva comprare un pesce.
Mi scappò un sospiro e sperai che non se ne accorgesse: “Non lo so, signore, mio padre e mia madre me l’hanno insegnata così.”
Alla mie spalle e alla mia destra si srotolavano i moli della città.
Forse, per chi ci veniva solo di passaggio, Port Town poteva essere un bel posto.
Per me significava solo odore di pesce, fame che solleticava lo stomaco e la speranza che un giorno sarebbe stato tutto diverso.
Guardai i velieri ormeggiati all’ingresso del porto qualche iarda al largo. E come al solito mi ritrovai sopra uno di essi.
Stavolta indossavo un’uniforme da nostromo e stavo dando ordini a qualche marinaio. Ripetei i comandi più volte, perché nella mia testa il tono non era mai quello giusto. Poi un mozzo si affrettò a ubbidirmi, e fui finalmente soddisfatto.
“Ehi tu!” disse una voce. Io ripresi a guardare uno dei pesci della mia bancarella con sopra le mani del tizio di prima.
“Ehi, dico a te, mozzo!” ripeté la voce, e giù una risata.
L’uomo che mi stava chiamando mi sembrava un po’ irritato e un po’ divertito, forse dalla mia faccia.
“Avvicinati, mozzo!” disse ancora.
Ora lo vedevo meglio: aveva i capelli incrostati di salsedine, una barba tagliata male, i capelli peggio, qualche dente marcio e un vistoso tatuaggio su metà della faccia. Mi osservava come si guarda qualcosa da portare a friggere in padella. Lui sì che pareva uno intenzionato a comprare, ma non un pesce.
Non lo avevo mai visto prima d’ora.
“Cosa desiderate, signore?” sentii dire alle mie spalle. La mamma era finalmente ritornata.
Il tizio tatuato la guardò infastidito. Poi, come se si ricordasse solo in quel momento di recitare una parte, mise in mostra i suoi denti guasti in una specie di sorriso.
“Quanta bella roba sulla vostra tavola, signora.”
“Ed è tutta freschissima, e in vendita” disse mia madre.
L’uomo sporse in fuori le labbra con la lingua, ma non parlò più. Guardò a caso i nostri pesci; ma con insistenza tornava sempre su di me.
Istintivamente mi portai una mano al petto. Dalla camicia, che mi stava addosso sempre troppo grande, si vedeva il laccio di corda con cui lo tenevo legato.
Il tizio con la faccia tatuata non sapeva decidere cosa comprare. Gli occhi di mia mare lo interrogarono: anche se con gentilezza, gli stava facendo capire di non farci perdere tempo.
Quelli dell’uomo cercavano tra la mia camicia, mi pareva.
Feci finta di dover spostare qualche cassa, così avrei potuto scrollarmi di dosso quello sguardo.
“Be’, caro signore, quando vi sarete deciso su quale animale mettere in padella questa sera, fatemi un cenno.”
La mamma lo lasciò perdere e richiamò l’attenzione di una vecchia che guardava la bancarella da lontano.
Quell’altro fece per andarsene, ma guardò ancora una volta verso di me. Mi sembrò stringere gli occhi in maniera cattiva.
Proprio in quel momento notai che l’altro uomo, quello che ruttava e che mi ero dimenticato, faceva un gesto furtivo, nascondendo qualcosa sotto la giacca.
I nostri sguardi si incrociarono: quello sgranò gli occhi e poi spintonò via la gente che aveva alle spalle. Poco ma sicuro, quel balordo ci aveva appena fregato un pesce.
Senza pensarci due volte, mi lanciai all’inseguimento.
Aveva un leggero vantaggio, ma non mi davo per vinto: nessuno poteva prendere in giro me e mia madre, e rubarci da sotto il naso.
Quello mi era sembrato più che altro grasso e stupido; ma evidentemente mi ero sbagliato. Si era gettato verso i moli ovest, quelli più affollati.
Mi sforzavo di non perderlo di vista, ma con un bel po’ di spintoni si era già mischiato agli individui di tutti i tipi che affollavano come sempre la banchina. Visti di spalle parevano tutti uguali, accidenti.
Io non ero così forte da scansare chiunque, né troppo alto, così non riuscivo a tenere d’occhio tutti i movimenti del ladro.
Insomma, dopo pochi metri dovetti lasciar perdere; e la cosa mi fece arrabbiare fino a lacrimare.
Come potevo imbarcarmi sulle navi di Sua Maestà, se non riuscivo neanche a evitare che mi fregassero il pesce?
Calciai un sasso in mare e rimasi qualche istante a guardare l’acqua. Si muoveva sempre uguale addosso ai moli di Port Town.
Per qualche minuto sperai stupidamente che accadesse qualcosa di impossibile: che il balordo, pentito, venisse a restituirmi il pesce; che qualche passante, impietosito, me ne regalasse un altro; che una guardia catturasse quel farabutto e, mettendomi una mano sulla spalla, mi dicesse: “Tutto a posto, ragazzo”.
Naturalmente non avvenne nessuna di queste cose. Quando ne fui convinto, mi voltai per tornare alla mia bancarella.
Forse a causa dell’inseguimento, mi accorsi di avere, tanto per cambiare, una gran fame. Davanti al mio naso capitò un uomo che vendeva del pane. Bianche, soffici pagnotte con la crosta croccante.
Mi venne l’acquolina.
Era un po’ che i nostri affari non andavano bene. Mia madre avrebbe tanto voluto mettere sulla tavola dei pasti decenti, ma purtroppo non poteva permetterselo. Questa era la verità.
“Non sono lo scemo di Port Town?” pensai con rabbia “Gli altri possono rubare e io devo stare buono e zitto? E con una gran fame?”
Chissà che faccia avrebbe fatto mia madre, se fossi tornato con una di quelle belle forme di pane. Dopotutto, doveva avere fame anche lei.
Mi tremavano un po’ le gambe: non ero abituato a quelle cose io. Ma ormai avevo deciso.
Guardai fisso il fornaio che, per fortuna, sembrava distratto. E intanto mi avvicinai, cercando di fare l’indifferente.
Ero quasi alla distanza giusta, quando alle mie spalle qualcuno mi spintonò. Mi voltai pronto a mandare al diavolo chiunque. Incrociai un paio di occhi verdi. Era una ragazza.
Prima mi sorrise; poi guardò alle sue spalle; infine mi fece segno di stare zitto. Quindi mi spinse di lato, afferrò una pagnotta, mi fece la linguaccia, e se la diede a gambe.
Rimasi imbambolato, probabilmente sembravo uno dei pesci che vendevo.
L’uomo del pane aveva visto tutto e contorse la faccia in una smorfia che lo rese ancora più brutto. Guardava me, come se cercasse gli insulti giusti.
Io non avevo fatto ancora niente, ma a quel punto, anche se il fornaio mi stava fissando, afferrai anch’io una forma di pane e scappai.
“Brutti ingordi rognosi…” urlò quello; scavalcò la bancarella facendo cadere molti panini.
Io non mi voltai. Con il cuore che batteva come quello di un matto cercavo di scansare quante più persone potevo, e di infilarmi da qualche parte per poter sparire.
Per fortuna, in città quasi tutti si fanno gli affari propri. Quindi, anche se correvo con del pane in mano e la faccia stravolta, nessuno badava a me.
Io non mi guardai mai indietro, ma sentivo il trambusto che il fornaio stava facendo per cercare di raggiungermi.
“Acciuffatelo….randagio….ingordo…mal…” le sue parole si perdevano in mezzo alle risate di un gruppo di marinai.
Mi buttai in mezzo a loro, e mi presi un paio di insulti.
Ero capitato in una zona del molo a ridosso della case del porto, così mi lanciai in uno dei vicoli.
A quel punto dovevo fermarmi o mi sarebbe scoppiato il cuore. Adocchiai una cassa di legno malandata e mi ci nascosi dietro.
Ora sentivo solo le voci distanti e il mio respiro, che piano piano si calmava. Sbuffai rumorosamente.
E poi mi sentii mettere una mano sulla spalla, una mano forte che mi trascinò all’indietro. Cercai di scalciare.
Quando mi voltai, c’era un tizio che mi guardava con uno strano sorriso.
Strano sì, ma non minaccioso.
Non lo conoscevo. Aveva i capelli completamente arruffati in trecce nodose simili al cordame delle navi, un occhio verde, l’altro non lo so, che quasi brillava anche nella scarsa luce che c’era; la barba lunga annodata in quattro treccine di lunghezza diseguale, tre colorate di blu, e un naso abbastanza lungo che gli dava un’espressione furba.
“Se proprio vuoi rubare qualcosa, devi esserne convinto” disse, poi scoprì i denti con il sorriso amichevole di prima; uno brillava perché era d’argento.
“Non vi conosco, signore” dissi un po’ intimorito “mi dispiace, io…non volevo rubare.”
Non so perché stavo cercando di giustificarmi con quello sconosciuto.
“Ah, davvero? Oh scusa, devo aver frainteso.” Guardò la pagnotta che avevo ancora tra le mani e inarcò le sopracciglia.
Poi mollò la presa, così che potei allontanarmi di qualche passo.
Non sapevo bene cosa fare: chi era? Una guardia no di certo. E non aveva nemmeno l’aria di essere un fornaio che aggiustava i torti per i suoi colleghi.
Strinsi a me la pagnotta, quasi che potesse proteggermi: “Ora…devo andare” dissi, e feci un paio di passi.
“Tuo padre non sarebbe contento di quello che hai fatto, Oliver Vellens. O, be’, in effetti, dipende dalle circostanze.”
Cosa voleva dire? Perché aveva nominato mio padre?
“Come lo conoscete?”
L’uomo si limitò a sorridere.
“Come conoscete mio padre?” ripetei a voce più alta “chi siete?”
“Tu sei Oliver Vellens?”
Non avevo intenzione di rispondere.
Da quello che mi pareva di capire, l’uomo non cercava di catturarmi: rimaneva piantato lì dov’era, con le mani intrecciate all’altezza della pancia. Il suo sorriso stava diventando abbastanza stupido.
E io mi sentivo a disagio.
Feci altri due passi all’indietro e guardai alle mie spalle, per strada la situazione doveva essersi calmata. Era il momento di darsela a gambe.
L’uomo allungò una mano, quasi volesse trattenermi con un filo invisibile: “Se vuoi fare una cosa, ti ripeto, devi esserne convinto, Vellens. Di qualunque cosa si tratti.”
Ne avevo abbastanza; mi voltai e corsi fuori dal vicolo. Lo sconosciuto non mi seguì.
Mentre tornavo verso il molo, pensai a molte cose, tra cui naturalmente anche a quel tipo strambo nel vicolo.
Non sapevo ancora quale peso avrebbe avuto nella mia storia.
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