Capitava spesso di vedere corpi attorcigliati agli scogli: le mani cercano un appiglio, si contorcono, lasciano la presa. I corpi diventano batacchi; un mantello di porpora si adagia, infine, sull’acqua.
Quando Tonio affogò, il mare ringhiava e s’infilava rabbioso fin dentro la terra.
Fu raccolto sulla battigia, nei pressi della grotta: la corrente se lo portò nella tana.
Il funerale si svolse la mattina seguente; presto, come decise il Barone, per non saltare il primo turno di lavoro nella cava.
Lena era davanti alla bara del marito. Le mani fremevano come chele di granchio. Giocherellava col cappello di Tonio, e piegava meccanicamente il busto in avanti.
Le donne le accarezzavano i capelli bruni, e la pelle rugosa per nulla solcata da lacrime.
Il prete parlava del sacrificio di Cristo; il vento cominciò a soffiare.
Le parole della liturgia si confusero con il fischiare degli olivi.
Lena iniziò a beccheggiare freneticamente, seguendo l’incalzare del vento.
Le sue mani sfuggivano incubi che nessuno vedeva; era trascinata da qualcosa di invisibile. All’improvviso, rotolò nella polvere.
In un attimo, il vento si calmò.
Il sole si fece grigio e poi bianco e piccolo: pochi raggi senza tepore.
Fu il buio in pochi istanti.
Lena, ormai incosciente, si dimenava; pareva posseduta da un demonio.
La bava le colava dalle labbra serrate. Tirava colpi su colpi alla bara, e finì per romperla.
Il corpo di Tonio scivolò in terra; lei lo baciò, cercando di sfilargli le vesti.
Svenne. Si riebbe solo quando il sole rispuntò.
Non riconobbe nessuno.
Tutti erano certi che era stato un maleficio, e che l’avesse ordito lei.
Tutti temevano che il demonio avrebbe finito per ascoltarla.
Nei giorni seguenti non si parlò d’altro in paese.
Il Barone tentò di convincerli che si trattava di un’eclissi e che la donna era solo un’isterica.
Quando Lena scomparve, la paura si diffuse nell’aria come la polvere della cava.
Il primogenito del barone nacque privo di vita. Il cordone ombelicale gli s’era attorcigliato al collo come un serpente.
La giovane madre vagava, affranta, nell’enorme palazzo. Si trascinava nell’androne e lungo le scale di pietra grigia. Perfino i seni le erano ostili: gonfi del latte mai succhiato.
Ferruzzo, che del Barone era il braccio destro, si rivolse a tutte le magare della zona per farsi togliere l’affascino: proprio lui che aveva deriso il terrore dell’eclissi, spiegando, con parole non sue, che si trattava di un fenomeno naturale.
Quando s’impiccò, gli trovarono in tasca un biglietto: il Barone gli aveva ordinato di spaventare Tonio; lui l’aveva spinto in mare, ma senza volerlo.
Passarono i mesi, e il lavoro d’estrazione andava a rilento.
La cava tratteneva i suoi frutti, sembrava che il filone si fosse esaurito.
Il sospetto di un maleficio trovò conferma: Lena s’era vendicata.
Pochi erano disposti a mettere ancora piede nel luogo dell’affascino; anche a costo di morire di fame.
La valle si impoveriva e nel mare compariva un’ombra: uno scoglio emerso a metà.
Sembrava un corpo steso in acqua, con le braccia lungo il busto e il cappello. La roccia era marmorea, dello stesso tipo della cava. “Sono le ossa del demonio”, dicevano tutti.
Il Barone si spense come uno stoppino.
Se l’avessi ucciso?
Le gocce di sudore sono lente come bambini impauriti sullo scivolo.
Le mie mani tremano ma continuo a tenerlo sotto tiro.
Si trascina nella boscaglia; è ferito.
Mia madre era convinta che sarei affogato nel sangue. Oggi, invece, toccherà a lui. E quando l’avrò ucciso, nessuno mi biasimerà.
«Re Giorgio V farà grande la nostra patria», urlo.
Le tempie pulsano.
Invoca perdono. Singhiozza.
Ripongo il fucile e mi asciugo il sudore.
«Come ti chiami?» gli chiedo. «Io mi chiamo Harry. Harry Tandey».
Poi scivolo verso di lui, anch’io come un bambino.
Ha le mani calde e fredde allo stesso tempo.
Si chiama Adolf. Lo aiuto a tirarsi su. Gli do da bere.
Il silenzio sembra vestire le trincee, oltre la boscaglia.
Mi sistemo vicino a lui. Passeremo la notte insieme, come commilitoni.
Ho qualcosa da mangiare e qualcosa da bere.
Prima, però, gli sistemo la ferita; non è grave, se la caverà.
«Hai un cuore grande e ti sarò eternamente grato, Harry». Lo ripete più volte.
L’alcol manda in letargo le bestie che siamo.
Ci abbracciamo. Si incammina verso le sue linee.
«La guerra è come un candela» grido. «Si tratta solo d’aspettare. Quando tutto sarà finito, verrò a trovarti, Caporale Hitler».
La porcilaia
I.
Il viadotto sfregia il paesaggio come il taglio di un cesareo, e Pino è felice perché sa di essere nato da quel parto. Fissa le macchine che sfrecciano sull’autostrada, seduto su un grosso ceppo. Alle sue spalle, c’è la porcilaia. Le vacche muggiscono al pascolo, poco più in là.
Pino percorre tutte le mattine ottocento metri per raggiungere il fondo, tra i rovi e gli arbusti che fiancheggiano un sentiero sterrato. Il padrone non viene mai. Chi vuoi che resista con questa puzza di merda densa come acqua sporca?
L’ultimo bracciante è durato il tempo di una merenda. Pino ghigna: Muhammad era grosso quanto una scrofa incinta.
Pino mastica quello che rimane di una cicca di sigaretta; l’ha spenta poco prima che la brace arrivasse al filtro; si alza dal ceppo, e si stiracchia; si rigira la cicca in bocca; ogni tanto la prende tra le dita, la vorrebbe riaccendere, ma poi pensa che è l’ultima, e che la giornata è ancora lunga.
Sente un rumore di passi che scendono lungo il sentiero. Ci sarà da rimediare un’altra cicca, pensa. E si gira.
Lei ridacchia. Lui si piega per allacciare le stringhe delle scarpe. I due si scambiano qualche parola. Lei fa un cenno in direzione di Pino.
Pino si risiede; inserisce la cicca dietro l’orecchio, proprio sopra il lobo. Si rialza dal ceppo. Resta fermo, e li guarda.
I due gli vanno incontro.
– Buongiorno – dice la donna; l’uomo rimane in silenzio.
– Buongiorno – risponde Pino.
– Lei è il titolare?
– No, sono Pino. Lavoro qui.
– Lei è solo oggi?
– Certo che sì! Non ci resta nessuno a lavorare con Pino, troppa fatica!
L’uomo si siede sul ceppo dov’era seduto Pino e tira fuori un foglio. Sopra il figlio c’è disegnato il fondo: si vede la porcilaia, il pascolo, il sentiero. L’uomo disegna se stesso seduto sul ceppo, e poi Pino, e poi la donna.
– Siamo dell’Ispettorato del lavoro – dice lei, mentre gli mostra un tesserino di riconoscimento – io sono la marescialla Colaberti, comando il N.I.L. che è il nucleo dei carabinieri dell’Ispettorato del Lavoro. Lui è l’ispettore Cruz. Può chiamare il titolare per dirgli che siamo qui?
II.
La Colaberti ha il collo reclinato sul sedile, una leggera bava che le cola quasi sul mento. Tu bussi al finestrino, e lei salta come un pupazzo a molla in una scatola.
– Cazzo! Ma una cazzo di mattina potresti fare a meno di farmi venire un infarto?!
– Il mio scopo non è farti venire un infarto, ma richiamare la tua attenzione. Ti invito a riflettere: il problema potresti essere tu. Potrebbe essere il fatto che ti addormenti mentre mi aspetti.
– Fanculo, Cruz! Fanculo tu e la tua sindrome del cazzo.
– Ti invito a riflettere ancora: il codice etico ti proibisce di rivolgerti a me in questo modo.
– Fanculo tu, e il codice etico! Ti sopporto da due anni. Sono due anni che andiamo in missione insieme. Tutti i dannati giorni della settimana. Tu non sei un Asperger, tu sei soltanto stronzo.
– Non è vero. Noi usciamo per il servizio esterno tre, al massimo, quattro volte la settimana. E poi non si dice più Asperger. Si dice sindrome dello spettro autistico.
– Stai zitto.
– A me non piace parlare. Non farmi domande.
La città è ormai alle vostre spalle. Viaggiate sulla strada provinciale verso l’obiettivo. L’hai visto, l’obiettivo, qualche giorno fa, dall’alto, mentre ispezionavi una falegnameria.
Tiri fuori un foglio: sopra c’è disegnato un capannone, un fondo destinato a pascolo. In prospettiva, si intravede la valle tagliata in due dal viadotto. Un ceppo di tronco. Nessuna persona.
L’auto procede senza sbalzi, la sua guida è morbida.
Non è vero che sono due anni: uscite insieme da diciotto mesi e 23 giorni. In tutto, siete andati in missione 218 volte.
È un numero di volte sufficiente a rendere due persone intime?
La Colaberti ferma l’auto. Vi incamminate lungo un sentiero sterrato.
– C’è qualcuno seduto su quel ceppo – ti dice – vedrai che non è assunto – ridacchia.
Ti fermi, hai le stringhe delle scarpe sciolte. La Colaberti fa un cenno all’uomo, vorrebbe che si avvicinasse. E invece vi avvicinate voi.
– Buongiorno – dice la Colaberti.
– Buongiorno – risponde l’uomo.
– Lei è il titolare?
– No, sono Pino. Lavoro qui.
– Lei è solo oggi?
– Certo che sì. Non ci resta nessuno a lavorare con Pino, troppa fatica.
Ti siedi sul ceppo, devi aggiungere questa scena al disegno.
III.
Pino telefona al titolare, gli dice che ci sono gli ispettori, gli chiede cosa deve fare; intanto cammina, mastica la cicca, la rimette dietro il lobo, la riprende. Non ci capisce niente di cose amministrative, di quello che c’è da fare per lavorare tranquilli. Ma al padrone gli vuole bene.
Pino guarda la marescialla che s’infila negli uffici adiacenti alla stalla. Vorrebbe chiedere al padrone se deve fermarla, ma c’è quell’altro tipo strano con gli occhi fissi su di lui.
Pino gli porge il telefono, perché pensa che voglia parlare col padrone; quello rimane impassibile e non dice una parola.
I due si osservano per qualche istante. Pino muove il braccio col telefono stretto in mano; gli sembra di essere un pizzaiolo che protende la pala verso il forno.
Pino cambia la gamba d’appoggio; ha sempre un piede sporto in avanti e il busto reclinato all’indietro. È stato un bambino scoliotico, ed è come se il suo corpo avesse ancora il baricentro fuori asse.
La marescialla si avvicina, gli prende il telefono dalla mano, spiega al titolare tutto quello che faranno. Pino si rimette il telefono in tasca. Adesso è tranquillo.
IV.
La Colaberti gira per il fondo. Ma poi chiederà a te di descrivere nel verbale i luoghi.
Lei gira per verificare che non ci sia nessuno. Tu osservi per memorizzare.
Senti il rumore delle macchine sul viadotto. E senti le mucche muggire al pascolo.
Ed è strano perché dovresti sentire più di tutto il grugnito dei maiali nella porcilaia.
La Colaberti si avvicina.
Pino è fermo, eppure non è immobile.
È come se danzasse ogni volta che cambia piede d’appoggio. E anche la sua voce accelera; lascia una frase a metà; ne inizia un’altra; si ferma di nuovo.
– Torno subito – dice – vado dalle ragazze che mi stanno aspettando per mangiare.
– Che vuol dire ‘le ragazze’?! Mi ha detto che era solo! – urla la Colaberti.
– Certo che sì, sono solo – dice Pino.
V.
Pino scuote il capo e ride. Le ragazze sono le scrofe ed è comico immaginarle interrogate dalla marescialla.
È quasi dentro alla stalla, quando si accorge che quel tipo strano lo sta seguendo. Si ferma, cambia piede d’appoggio. Vede quegli occhi fissi su di lui. Entra, e l’uomo dietro.
Pino sente che i passi dell’uomo che affondano nel fango. – È meglio non avvicinarsi troppo perché hanno fame – lo avverte.
L’uomo gli passa di fianco; si sporge nel recinto. Le ragazze grufolano. L’uomo si gira verso Pino, lo fissa. – Hanno già mangiato – gli dice – sono sazie.
Poi esce dalla porcilaia.
VI.
Pino vibra come un alveare.
La Colaberti sta parlando col titolare.
Pino mastica la cicca della sigaretta.
Tu disegni tutto quello che hai visto.
Quello è il braccio di Muhammad; il titolare ne è sicuro per via del tatuaggio ma non riesce a capacitarsi che sia accaduto. – Ho parlato con lui ieri sera – dice, e sembra disperato.
La Colaberti gli chiede i nomi di tutti i braccianti occupati degli ultimi mesi.
Tu disegni.
E mentre disegni, capisci.
E quando hai capito, disegni anche quello che non vedi e che non hai visto.
VII.
– Lo sai che mio padre ha fatto l’autostrada? – dice Pino. L’ispettore Cruz alza gli occhi e chiude l’album da disegno.
Pino lavora in questa azienda da quando era bambino. Iniziò che c’era il padre del padrone. Pino neppure se lo ricorda il nome del padre del padrone, e neppure quello del padrone. E neppure quello del proprio padre, che non l’ha neanche conosciuto. L’ispettore lo fissa. Forse vuole sentire la mia storia, pensa Pino.
– Mio padre faceva l’operaio. È venuto dal nord per lavorare all’autostrada. Ha conosciuto mia madre, e patatrac: l’ha messa incinta. Lo sai come andavano le cose a quei tempi? Così mi sono ritrovato solo, ché per la vergogna a mia madre l’hanno mandata via dal paese.
– Scansafatiche! Tutti scansafatiche! Li senti i nomi che il padrone sta facendo alla marescialla? Io li ho conosciuti tutti! Pochi giorni a fare niente, a chiedere “ma quando ci paga?”, a dire “Pino, falla tu ‘sta cosa”.
Pino si arrabbia. Nessuno di loro ci teneva alle ragazze, nessuno di loro! Per Pino quella vita di fatica, di sacrifici, invece, è tutto. Tutto ciò che il destino gli ha donato, e lui se lo vuole tenere ben stretto.
L’Ispettore Cruz apre l’album e lo mostra a Pino. Pino riconosce la stalla, le scrofe.
Ma guarda quanto è bravo, pensa Pino.
Il disegno riempie il foglio come una magia.
È una dannata magia! Come cavolo ha fatto a capirlo?
Le ragazze sono brave, e ogni tanto se lo meritano un pasto speciale.
Pino lo pensa, ma non lo dice. Si siede. E aspetta che tutto sia finito.
Donatello Pisani (proprietario verificato)
Sarà sicuramente scritto bene.