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Vuoi giocare ancora?

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Consegna prevista Luglio 2025
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Italia, anno 2055. La sanità non esiste più, la pensione nemmeno e perfino le elezioni sono state abolite. Si lavora 12 ore al giorno e la scuola e l’università sono diventate private e costose. Ma tutto questo non importa, perché ormai il problema principale è un altro. Ormai fa talmente caldo che quasi non si può più vivere all’aperto. E allora resta solo una soluzione: scappare, fuggire. Verso nord. Alla ricerca di un angolo d’ombra che garantisca la sopravvivenza dei corpi. Per scoprire, alla fine, che probabilmente le cose non sono così come sembrano. E chiedersi, allora, se si vuole continuare a giocare. Se si vuole giocare ancora.

Perché ho scritto questo libro?

“Vuoi giocare ancora?” è un libro ambientato nel futuro, ma radicato nel presente. Perché scrivere del futuro, a volte, se non sempre, costituisce una forma di critica del presente, di ciò che c’è già e delle sue possibili derive. È proprio a partire da questa urgenza critica che nasce il libro, nel tentativo, però, allo stesso tempo, di immaginare mondi altri, vie di fuga, strategie di uscita da una realtà asfissiante e apparentemente immutabile.

ANTEPRIMA NON EDITATA

 

Intro

Dove sono? Dove sono? Non lo so dove sono.

Sono qui fra queste onde, fra un respiro e l’altro. L’acqua è calda, quasi è piacevole. Ma non è l’acqua il problema. O la sua temperatura. Il problema sono io dentro quest’acqua. Anzi, il problema è come mi sento io dentro a quest’acqua. E poi c’è un altro problema: dov’è la costa? Quanto è distante ‘sta costa? Dov’è la terra?

Sono solo. Forse. Gli altri dove sono? Quanti eravamo prima che fossi solo? Non lo so, non me lo ricordo. Non ricordo nemmeno da dove siamo partiti.

Però mi ricordo altre cose. Mi ricordo, per esempio, che sono uno storico. Uno storico di mestiere. O forse per passione, chi lo sa?

Come mi chiamo? Eh, come mi chiamo? Importa qualcosa? Il nome lo ricorderò, prima o poi. So abbastanza per certo che ho poco più di trent’anni. E che alla fine effettivamente è successo. Che cosa è successo? Siamo nel 2055, cazzo. Che cosa vuoi che sia successo?

Sono uno storico, io. Uno storico per passione. Forse anche uno storico di mestiere. E allora mi sa che devo provare a onorare questo mestiere. E a raccontare. Raccontare che cosa è successo. Raccontare come siamo arrivati fino a qui. Fino a questo mare. Fra queste onde. Nel nord.

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Sono uno storico. E la lunga durata è la mia specialità. Senza la lunga durata, senza i tempi lunghi, non si capisce niente nemmeno dei tempi corti. Anzi, non si capisce niente del qui e dell’ora.

Sono uno storico. E allora proviamo a raccontarla questa storia. La storia delle storie. O le storie della storia. La mia storia. Che poi non è solo la mia, ma è anche necessariamente quella degli altri.

Clandestino

Ero estremamente grato a Jean per l’ospitalità. Ed era proprio questa gratitudine a rendere difficili i miei primi giorni a Parigi a casa sua. Di nuovo mi animava quella sensazione, la stessa che tendevo a provare nei confronti dei miei genitori quando mi passavano dei soldi. La sensazione di avere un debito che prima o poi avrei dovuto in qualche modo saldare. Lo so che è del tutto irrazionale pensarla così. Lo so che certi gesti si compiono non sulla base di un calcolo economico, ma sulla scia delle emozioni e dei legami umani. Ma io proprio non riuscivo a non pensare al fatto che tutta quella generosità comportava, per me, dei benefici materiali che, specularmente, potevano corrispondere a una privazione altrettanto materiale ai danni di chi mi stava aiutando. Ad ogni modo, dopo i primi giorni riuscii a mettere da parte tutte queste stronzate e ad accettare la bellezza di quanto Jean e sua moglie stavano facendo per me. L’unico problema è che, come già mi era capitato altre volte nella vita, davvero non sapevo che cazzo fare lì. Per di più non sapevo il francese e temevo che l’inglese non potesse bastarmi per trovare un piccolo lavoro con cui tirar su dei soldi e trovarmi una sistemazione autonoma. E poi c’era la grande incognita, quella che gravava sulle teste di tutti noi. La situazione climatica generale. Che tendeva ad evolversi con costanza e rapidità, minacciando di investire in poco tempo quasi tutto il continente europeo. Inevitabilmente, era proprio di questo che tendevo a parlare nelle mie frequenti conversazioni con Jean e Marie, sua moglie, quando a cena ci ritrovavamo tutti insieme a tavola dopo aver trascorso la mia giornata a passeggiare o leggere.

  • Oggi ho letto che ci sono delle novità. Sembra che il governo francese stia provando ad elaborare un piano contro il caldo per i prossimi mesi e anni – dissi io una volta.
  • Già – mi guardò Jean, preoccupato.
  • Perché quella faccia? – gli chiesi.
  • L’altro giorno mi hai detto che quando sei arrivato qui dalla stazione hai fatto tutta la strada a piedi. Hai notato per caso un grande cantiere non lontano dal fiume a un certo punto?
  • Sì! – risposi di getto io – Infatti volevo chiederti cosa fosse, ma poi nella foga dell’arrivo e dei saluti me ne sono dimenticato.
  • Sai che cos’è? – continuò a chiedermi Jean.
  • No.
  • Un impianto di desalinizzazione delle acque. Il più grosso che dovrebbe sorgere a Parigi nel giro dei prossimi mesi secondo il piano del governo francese a cui accennavi prima tu. Lo stanno costruendo per contrastare la siccità. Le riserve di acqua dolce sono ormai quasi insufficienti per fornire alle persone acqua potabile e irrigare i campi destinati alla produzione di cibo. Quindi pensano di sostituire l’acqua dolce con quella salata presa dal mare, che però va trasportata, lavorata e trattata. Il problema è che in questo modo il costo del cibo aumenterà. E poi c’è un altro problema. Quando d’estate la temperatura salirà oltre i livelli di guardia, diventando potenzialmente letale per le persone, la soluzione secondo il governo è fare quello che chiamano “lockdown climatico”: tutti chiusi in casa nelle ore più calde della giornata, dalle 8 alle 16, a rinfrescarsi con l’aria condizionata. Ma naturalmente non tutti hanno un condizionatore in casa. Dulcis in fundo, è previsto che si lavori di notte anziché di giorno, soprattutto nelle campagne, visto che nella fascia dalle 8 alle 16 farebbe troppo caldo per poter uscire di casa.
  • Mamma mia, che prospettiva di merda – mi venne da dire istintivamente.
  • Già – disse semplicemente Jean.
  • Un tempo si diceva: 8 ore per dormire, 8 ore per lavorare, 8 ore per lo svago. Adesso, se va bene, si dirà: 8 ore per dormire, 8 ore per lavorare, 8 ore per stare chiusi in casa. Ma si può vivere così? – chiesi.
  • Direi di no. E infatti non si sa ancora se il governo approverà mai ufficialmente questo piano. Ma soprattutto, non si sa se le persone riusciranno a vivere secondo le condizioni stabilite dal piano.

Nel frattempo, continuavo a seguire il conflitto sorto fra le regioni del Nord Italia e il governo centrale a Roma. La minaccia di usare l’esercito era bastata per convincere i Reggenti Governatori del Nord ad accettare una specie di piano di migrazione interna, in virtù del quale la popolazione del Sud veniva trasferita nelle regioni settentrionali. L’immenso patrimonio di case sfitte e in disuso in città come Torino e Milano e altri centri più piccoli sarebbe stato destinato a ospitare questi nuovi immigrati, almeno per l’anno 2055. Dopo di che, si sarebbe valutato come procedere, sulla base delle previsioni legate all’andamento delle temperature. Non potendo aumentare la produzione agricola, il cibo sarebbe stato razionato, cosa che ovviamente iniziò subito a generare lamentele e proteste da parte della popolazione del Nord Italia. Il governo rispose che in un momento così critico era necessario praticare quella che chiamava “solidarietà nazionale”. E aggiunse che si sarebbe attivato per elaborare con gli altri Stati europei un programma di accoglienza e spostamento all’estero della popolazione italiana nel caso in cui le cose fossero andate male, cioè se le temperature fossero ancora aumentate anche nel Nord del Paese. Non moriremo come i Brasiliani, dicevano. Se necessario, la solidarietà non sarà solo nazionale, aggiungevano. Verrà in soccorso anche la solidarietà di tutta la vecchia Europa, concludevano. Era l’inizio di febbraio del 2055.

Fu proprio in quelle settimane che la situazione deflagrò e accelerò ulteriormente. Ero arrivato a Parigi da circa un mese, quando una mattina, mentre mi trovavo da solo in casa di Jean e Marie, appresi dai giornali la notizia che nella notte i Paesi del centro Europa avevano deciso unilateralmente di uscire dall’Unione Europea. Era uno sconvolgimento senza precedenti. Il motivo, sebbene non esplicitamente dichiarato, sembrava tuttavia abbastanza chiaro. Si trattava di dare un ulteriore giro di vite ai confini. Ognuno dentro il suo recinto e si salvi chi può. Con la fine dell’Unione Europea, infatti, non si poteva più circolare liberamente e senza passaporto da un Paese all’altro. Si tornava così a un’epoca ormai lontana e dimenticata, quando per andare all’estero era necessario un visto validato dal Paese di arrivo. Quello stesso giorno, si mosse immediatamente anche il governo francese, accodandosi a quanto avevano deciso gli altri Paesi. Il problema è che, a quel punto lì, avevano diritto a rimanere in Francia solo chi aveva la cittadinanza francese o gli stranieri in possesso di un regolare contratto di lavoro. In pratica, ero appena diventato un immigrato irregolare, illegale, clandestino. Mai avrei pensato che nella mia vita sarebbe potuto succedere qualcosa di simile.

Quando quella sera Marie e Jean tornarono a casa dopo la loro giornata di lavoro, mi trovarono praticamente in lacrime.

  • Ho saputo, amico – mi disse subito Jean prim’ancora che ci salutassimo.
  • Cazzo. E adesso? – chiesi.
  • Aspettami qui – rispose Jean, che si allontanò poi per qualche minuto dal salotto in cui ci eravamo incontrati al suo ritorno.

Lo vidi tornare poco dopo, con in mano una bottiglia di vino rosso.

  • Brindiamo – disse subito lui.
  • Non vorrei sembrarti ingrato, Jean, ma, dico, sei impazzito? Io sono appena diventato clandestino e tu mi proponi di brindare? Ma che cazzo fai? – ribattei io con quella rabbia che in genere reprimevo e tenevo chiusa dentro, tutta per me, anche quelle rare volte che arrivavo a litigare o a discutere animatamente con qualcuno.
  • Calma, amico. Presto, ormai, saremo tutti clandestini. Oggi tocca a te. L’anno prossimo o fra qualche anno, molto probabilmente, toccherà a me e Marie. Con quello che è successo oggi, i vari governi europei ci hanno fatto capire che sta venendo giù tutto. E che conviene scappare per mettersi in salvo, andando verso Nord. Abbiamo gli anni contati, in un certo senso.

A quel punto lì, mi calmai. Le parole di Jean erano risultate ancora una volta convincenti. Ci sedemmo per terra, con la schiena appoggiata al divano del salotto di casa sua, e iniziammo effettivamente a bere il vino che aveva portato dalla cantina.

  • Che roba è? – gli chiesi.
  • Ma che cazzo ne so! Non sono un raffinato esperto di vini, io. So solo che è un Borgogna e che qualche anno fa un amico mi ha detto che era una bottiglia particolarmente buona. E così l’ho comprata senza mai berla. Mi ero ripromesso di aprirla in un momento particolare della mia vita. E adesso sento che questo momento è arrivato.
  • Ma perché?
  • Per brindare all’estinzione, amico. L’estinzione della specie umana. E allora, se proprio ci dobbiamo estinguere, almeno facciamolo bene. Bevendo. E vediamo se ‘sto vino è effettivamente così buono come dicono.

Eravamo lì a bere direttamente dalla stessa bottiglia, passandocela di volta in volta dopo i rispettivi sorsi. E mentre l’effetto inebriante iniziava ad agire abbastanza rapidamente, alleggerendo proprio fisicamente lo spazio interno alla mia testa pesante e appesantita, parlavamo a ruota libera dell’assurdità di ciò che stava succedendo intorno a noi.

  • Sai, Jean, ho pensato un po’ in questi mesi a quello che mi hai detto una volta in una delle tante nostre telefonate dell’anno scorso.
  • Cioè?
  • Ti ricordi? Ti avevo chiesto perché noi tutti, come genere umano, non abbiamo voluto vedere quello che stava per succedere. E tu hai risposto dicendo che forse era troppo difficile fermare la macchina quando è in piena corsa.
  • Già. Ricordo. La penso ancora così.
  • Ecco. Sono d’accordo. Ma poi mi sono anche chiesto perché quella macchina che chiamiamo “società” non solo l’abbiamo costruita, ma abbiamo anche continuato a farla funzionare in un certo modo ogni giorno, per anni, anzi, per secoli. Qual è il motivo profondo. E allora ho pensato che forse questa macchina l’abbiamo desiderata. Questa macchina ci è piaciuta. Questa macchina ci ha sedotto. Ce ne siamo innamorati. Ci è piaciuto lavorare e produrre così tanto. Ci è piaciuto estrarre dal pianeta tutto quello che potevamo estrarre. Vabbè, lascia stare, sto delirando. È il vino che parla per me, adesso. Io sono abituato a ragionare in termini di classe sociale, di differenze fra le classi sociali, e invece adesso mi rendo conto che sto facendo un discorso del cazzo che chiama in causa la colpevolezza dell’umanità intera, a prescindere da quelle classi sociali a cui mi sento ancora tanto legato.
  • No, aspetta, non è del tutto sbagliato – mi rispose Jean, trascinando sempre più vistosamente le lettere che componevano le sue parole, sotto l’effetto del vino – Forse hai ragione. Forse il problema è proprio l’uomo in quanto tale, che è ormai arrivato a un punto in cui tutto ciò che ha costruito, tutto ciò che ha sviluppato, con tutta questa tecnologia, si sta rivelando definitivamente dannoso non solo per il pianeta, ma per la sopravvivenza dell’uomo stesso.
  • È vero – gli feci subito eco io – eppure non mi rassegno al fatto che le cose dovevano per forza andare in questo modo. O all’idea che la colpa sia tutta di quello sviluppo tecnologico che nominavi anche tu. Alla fine, se ci pensiamo bene, anche in passato sono collassate tante altre civiltà, quando ancora non esistevano tutte le tecnologie di cui disponiamo oggi. O mi sbaglio? E allora è colpa della tecnologia in sé o dell’uso che si fa della tecnologia e del modo in cui viene progettata?
  • Hai ragione anche tu – ribatté subito Jean – però pensa a quest’altra cosa che mi è appena venuta in mente: e se la forma di ambientalismo più estremo, e al tempo stesso anche più coerente in assoluto, fosse semplicemente la sparizione dell’uomo dal pianeta? La sua estinzione, appunto? Togli l’uomo e hai effettivamente un impatto pari a zero sulla salute del pianeta.
  • Eh, mi sai che hai vinto, mi arrendo. Anche se così è troppo facile – conclusi con una risata amara.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Stefano Valerio
Mi chiamo Stefano Valerio, ho 34 anni e vivo a Torino. Per diversi anni ho lavorato in un ente privato di ricerca, occupandomi in maniera particolare dell’impatto delle tecnologie digitali sulle città e sul lavoro. Nel 2017 ho collaborato a una ricerca sulle condizioni di lavoro negli stabilimenti italiani del gruppo ex-Fiat, diventando coautore del libro “Lavorare in fabbrica oggi” (Fondazione Feltrinelli, 2020). “Vuoi giocare ancora?” è la mia seconda opera narrativa. La prima, “Saluteremo il signor padrone. Favola sociale”, è stata pubblicata nel 2023 da Buendia Books e narra la curiosa storia di quello che accadde quando una volta, in Italia, per coincidenza, tutti si dimisero dal proprio lavoro nello stesso giorno.
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