Gli ultimi 500 metri sono di pura spinta. I denti serrati per lo sforzo, rantoli e sbuffi accompagnano i lamenti del legno raschiato dalle pietre che formano il traguardo. Scarichiamo. Zanzare. Fango. Schiena indolenzita e contratta sul legno del pavimento della palafitta dove abita la famiglia. I bimbi più piccoli, rimasti a casa con il nonno, osservano incuriositi il nostro arrivo e improvvisano una gara ad ostacoli tra gli zaini. Ma non c’è tempo, Juan Pablo ci richiama all’ordine.
« Preparate amaca, coperta e acqua. Ci muoviamo tra 5 minuti ».
« Non è qui la cerimonia? » chiedo.
« No, la Maloca è a pochi metri da qui ».
« Te va a gustar, la Maloca » ribadisce Jesus.
(“E che cavolo è la Maloca” penso io. Amen, lo scoprirò a breve suppongo).
Una delle ragazze prende una clementina dallo scatolone della frutta.
« Per togliere dalla bocca il sapore della medicina – o del vomito » spiega lei.
Mi pare una buona idea. Afferro una nettarina e me la metto in tasca.
Di nuovo in marcia, la comitiva sta avanzando tra i miasmi delle viscere della foresta già da un quarto d’ora. Fila indiana, braccia cariche, ognuno aiuta il suo vicino di fila indicando le pezze di terra più solide per evitare di affondare i piedi nella melma. La passeggiata laboriosa e inattesa non mi sta aiutando a distendere i nervi.
« Manca molto? »
La domanda non fa in tempo a ricevere risposta. Uno ad uno sbuchiamo in una piccola radura. Nel centro la fredda luce lunare, filtrata da un brandello di nube, lascia intravedere il profilo di una sorta di grande capanna rialzata. Con l’aiuto della torcia, salgo i quattro ripidi scalini che ne permettono l’accesso e mi ritrovo sulle assi nude che formano il pavimento. Su queste poggiano un pugno di candele, la cui tenue luce giallastra rivela l’asciutta architettura della Maloca. Quindici colonne, disposte in tre file, su cui poggiano le travi che sorreggono un tetto di latta e paglia. Balaustre ad altezza vita a delimitarne il perimetro. Il resto delle mura composto dalla notte densa della selva.
La struttura legnosa scricchiola sotto i passi dei dodici partecipanti, già intenti a far girare attorno alle travi i grossi pezzi di corda tagliati poco prima al coltello, con funzione di tiranti per le amache.
Due di queste sono in realtà già in posizione ad attenderci, quelle dei mastri di cerimonia. I “Taita”, ovvero i “nonni”. Uno, Antonino, è l’anziano della famiglia che ci sta ospitando. L’altro, Claudio, coetaneo del primo, è venuto in supporto dal villaggio vicino.
Poggio borraccia e nettarina, mi levo gli scarponcini, allaccio il giaciglio con un’inadeguata gassa d’amante, testo la tenuta e monto a bordo prendendo con me la coperta. Due scossoni fino a trovare una posizione sufficientemente gradevole, mi guardo attorno. I baccelli colorati, più o meno rigonfi, sembrano ondeggiare al vento. Il movimento è amplificato dalle ombre arancioni che le poche fiammelle tremolanti proiettano sul soffitto.
Sporgo la testa oltre le trecce che decorano i bordi dell’amaca. Cerco di identificare Lala e Olivia tra le crisalidi più sottili al lato opposto della sala, oltre la linea immaginaria che divide la sezione degli uomini da quella delle donne.
« Energie differenti, vanno tenute separate » mi ha spiegato Jesus lungo la strada.
Poco prima ha preso da parte le partecipanti una ad una per assicurarsi che non fossero in gravidanza o in periodo mestruale.
« È pericoloso per i Taita, gli possono prendere attacchi epilettici durante la cerimonia ».
Mi interrogo sulla veridicità e potenziali cause del fenomeno, quei pochi secondi necessari a realizzare che non ho nessun elemento per convincermi o dubitarne.
Non capisco cosa stiamo aspettando, sarà passata almeno mezz’ora, nel silenzio disseminato di brevi frasi e risate nervose sollevate a intermittenza dai marinai adagiati nelle cuccette di questo strano vascello notturno. Seguo con gli occhi il murales dipinto sulle uniche semipareti della Maloca, situate nell’angolo in prossimità dei Taita, che hanno come scopo quello di proteggere dal vento una mensola con ciotole di diverse dimensioni e un piano di lavoro. Il disegno raffigura al centro un giaguaro e, ai lati, il Taita Antonino in abiti cerimoniali e il nipote Fernando navigando il fiume – quest’ultima immagine particolarmente familiare. Fernando, ora aiutante di cerimonia nonché candidato alla successione del nonno, indossa tutt’ora la stessa polo rossa del dipinto.
Appena sotto le immagini oscilla silenziosa e leggera l’esile amaca blu-di-Prussia dell’officiante. Mi chiedo in quali propedeutiche pratiche meditative possa mai essere assorto e ricevo in risposta una potente russata. Sorrido e mi sciolgo, forse dovrei provare a fare lo stesso. Lotto con piedi e spalle per trovare una posizione che mi permetta di rilassare i muscoli anchilosati, senza troppo successo. Chiudo gli occhi un momento e li riapro solo all’odore di fumo di legna ardente che proviene da dietro il murales. L’amaca del Taita Antonino è vuota. Il corrispondente angolo di soffitto è illuminato da una chiara luce danzante che si riflette sui volti dei cerimonianti, spuntati fuori incuriositi. Non c’è dubbio, a patto che la Maloca non stia prendendo fuoco, qualcosa bolle in pentola.
La luce si attenua, la sagoma gracile del Taita risale qualche minuto dopo gli scalini. Nella penombra ne intravedo la mano saldamente serrata attorno al manico di una caraffa di plastica trasparente, riempita a metà. Lo osservo armeggiare con gli strumenti sulla mensola appena alla portata del suo metro e sessanta e inclinare il recipiente. Poi si blocca. Dal silenzio, una vibrazione gutturale profonda riempie l’aria per un lungo minuto, intervallata da potenti soffi e schiocchi di labbra. Girato di spalle lo vedo portare le mani al volto, inclinare la testa e ripetere il rito per offrire la bevanda al suo compagno di squadra.
«I due Taita sono la stessa persona durante la cerimonia» mi spiegheranno domani.
Il tema della trasposizione di coscienza è ricorrente nei racconti fino a qui ascoltati – il giaguaro del murales rappresenta quello, raccontano, abitato dal Taita Antonino in una delle sue tante sessioni.
Sottovoce, per non guastare la solennità del rituale, JuanPa chiama gli uomini uno per uno ad avvicinarsi al piano di lavoro. Mi metto in coda, reminiscenze cattoliche. Disposti sulla superficie ci sono nell’ordine la caraffa, piena di un liquido bianco e nebuloso, un vaso di acqua dentro il quale galleggia un bicchiere di plastica – per sciacquarsi la bocca – e una delle ciotole in legno più piccole che, arrivato il mio turno, mi viene riempita a tre quarti e offerta.
La ricevo dalle solide e ossute mani e pronuncio un appena percettibile “gracias” in direzione delle rughe benevole. Concentrato nella semioscurità cerco di portare a due mani la coppetta alla bocca senza spargerne il contenuto. Quasi. Soffio fuori, epiglottide contratta, tiro giù. Ma a differenza della tequila a cui solitamente dedico questo trattamento il sapore non sembra volersene andare. Un amaro intenso che resta ancorato in fondo alla gola nonostante i miei incisivi stiano già toccando il nocciolo della nettarina di cui ho iniziato senza pietà a succhiare lo zucchero, altro che pipistrelli vampiro.
Bocca contorta, torno a posizionarmi sull’amaca mentre Jesus fa la spola tra il Taita e la sezione femminile per terminare la distribuzione della bevanda.
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