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Bon voyage, Santa Claus

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In una sperduta cittadina americana, Julius Caesar Grudziński, un cinico nullafacente che odia se stesso e il mondo, accetta di impersonare Santa Claus in un centro commerciale per guadagnare in fretta pochi dollari.
Julius vive con Amy, una minuta ragazza zoppa che lo ama ciecamente e che attenderà stoicamente il suo ritorno a casa per tutto il giorno, preparando la loro cena di Natale. Dopo alterne vicissitudini però Julius resterà coinvolto in una rete di equivoci e sarà costretto a passare la vigilia di Natale con Mimi, una bambina molto, molto speciale.
Ricattato dalla madre di Mimi, che non ha mai visto la figlia così felice, e rimpinzato di birre, Julius trascorrerà una fatale vigilia di Natale, tra il grottesco e l’irreale, in un mondo immaginifico, fatto di musica, balene, sogni e un coraggio, o un cinismo, paradossale. Di fronte a Julius si schiuderà la possibilità di una redenzione, o di un’ultima illusione senza speranza.

Dolce, quando nel mare immenso i venti sconvolgono le acque, contemplare dalla riva l’affanno grande di altri, non perché l’angoscia di un uomo dia gioia e sollievo, ma perché è dolce vedere da che mali tu stesso sei libero.

Lucrezio, De rerum natura, Liber II, Utet, Torino, 1997

Nell’ordine ch’io dico sono acclinetutte nature, per diverse sorti,più al principio loro e men vicine;onde si muovono a diversi portiper lo gran mar dell’essere, e ciascuna con istinto a lei dato che la porti.

Dante, Paradiso, Canto I, in Tutte le opere di Dante, Mursia, Milano, 1969

PROLOGO IN MARE

Da quando la nave aveva fatto naufragio l’universo intero si era inclinato sul suo albero gigantesco. I fiumi avevano preso a scorrere tumultuosi; l’acqua a ribollire dentro i pozzi; le stelle a gravitare, a mulinare i venti. I suoni della strada e quelli della casa ora ritmavano un senso nostalgico, sgomento; un certo canto straniero.

All’improvviso, il tempo si era involuto e dipanato in cadenze sincopate; dopo ciascuna ci si aspettava un non so che, che mescolava nella vertigine l’est con l’ovest; che confondeva ogni eccomi con lo stesso addio.

Allora lei sentiva che subito succedeva ogni volta un buco sbigottito, un’assenza di loro due, un nonciseipiù che di continuo strappava e strappava e strappava la canzone semplice del loro essere qui con lei, presenti nel presente.

Così, dentro la cucina nella casa, nel vorticare dello spavento, chiudendo forte il verde dentro gli occhi, per salvarsi aveva subito fabbricato una scialuppa – la sua Grottanido – nella quale da allora in poi avrebbe viaggiato per un mare sterminato di musica e di sogni.

L’immensa nave, che la conteneva dentro la sua ghianda Grottanido – nella cucina dentro la casa – pare avesse rotto gli ormeggi in un istante preciso del tempo, e adesso, ormai disancorata, scarrocciando tra le nubi e le costellazioni era sospinta per gli spazi da flutti azzurri e privi di materia. Così veleggiava, la Terra, scrivendo spirali dentro il cosmo, la cui storia lunghissima si computa a dismisura rispetto alla brevità della vita umana.

Tutto s’era sradicato dal baricentro il giorno in cui Conradpapà era fuggito dalla stanza. La sera in cui lui e la mamma si erano divelti l’uno dall’altra; quando i loro canti si erano smembrati e rifusi e smembrati ancora. Allora lei aveva cambiato la scialuppa in un vaso ermetico ed era scesa giù: dentro gli abissi. Giù, giù, più giù ancora.

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Liquidamente si era abbandonata e disciolta nell’acqua senza tempo di suoni multicolori, inabissandosi nella sua bolla Grottanido dentro silenzi blu oltremare. E ora viaggia tra cataste trasparenti e translucide meduse, barbagli verdi di luci e illusioni, languide Posidonie e moltitudini di pesci che sussurrano voci mute.

Felice, adesso sogna al centro di un cosmo diventato un labirinto. Sogna di scendere giù, tra azzurri cupi di splendore fin sotto i ghiacci del Polo, dove loro cantano e si cercano dalle origini del mondo.

Le aveva viste un certo giorno, per la prima volta, in un programma che Kay le aveva regalato – così: quasi per caso – e subito le aveva riconosciute. Aveva sentito che l’angelo del cuore che viveva dentro il petto le prendeva a battere forte un ritmo nuovo, che scandiva lo stesso tempo della musica del loro canto. E, mentre le guardava nuotare pensierose e sagge, capiva che lei era proprio lì – che era con loro che doveva andare. Che erano state create della sua stessa natura e che da lì tutto poteva forse ricominciare.

Come la prima volta, anche stamattina ha preso tra le manine il bicchiere tiepido di latte che Kay le ha portato dentro una folata di fa pieni di luce. Si è protetta sotto la copertatetto della Grottanido, che ha poggiato sopra la testa come un velo spesso e trascinato fino alla sala, dove ha acceso la TV.

Adesso ode il cantare cromatico della casa e la sinfonia dei suoni del mondo che soffiano e s’intrufolano da fuori intorno a lei; lei ormai muta da cent’anni. Muta e rapita di fronte alle immagini delle balene, che sognano una volta ancora il loro viaggio musicale, iniziato all’inizio, e che dura, ancora adesso, solo per lei.

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Stefano Carta
Stefano Carta, psicoanalista e professore universitario, vive e lavora tra Cagliari e Roma. È codirettore della Rivista di psicologia analitica, la più antica rivista junghiana in Italia, deputy editor per l’Europa del Journal of Analytical Psychology, la principale rivista di settore, nonché membro della redazione scientifica dell’International Journal of Jungian Studies.
Bon voyage, Santa Claus è il suo romanzo d’esordio.
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