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Ho paura del nero

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Sullo sfondo dell’Italia degli anni Settanta, Bianca da bambina introversa e sensibile si fa donna. Nasce in una famiglia numerosa, in cui l’assenza dell’amore paterno segna la sua infanzia, cresce cercando la propria strada lavorativa e affettiva, diventa una moglie infelice perché non è in grado di dire “no”, di deludere le aspettative.
Ho paura del nero è un percorso, spesso sofferto e solitario, che porta alla consapevolezza, alla liberazione, alla gioia bellissima di scoprire l’importanza di bastarsi prima di poter donare. È la storia di Bianca ma, in un abbraccio generoso e immenso, è anche la storia di tutte le donne coraggiose e forti che ancora non sanno di esserlo.

INTRODUZIONE

Questa è la storia di Bianca, una piccola donna, ormai adulta, che da bambina adorava le favole raccontate dalla sua mamma o ascoltate con il suo gracchiante mangiadischi grigio e anche un po’ vecchio, ma che prometteva, nonostante l’apparenza, meravigliosi racconti.

A mille ce n’è…

Bianca e le sue sorelle disponevano di un variopinto arcobaleno vinilico. Non rimaneva che l’imbarazzo della scelta; il favoloso viaggio nella giungla, le peripezie di centouno dalmata, le beffe del furbo sarto che confezionava abiti invisibili per l’imperatore credulone, o le esotiche avventure del Califfo Cicogna.

La Disney aveva prodotto, sul finire degli anni Sessanta, una serie di fiabe sonore, incise su dischi colorati, che si mescolavano ai più comuni quarantacinque giri neri.

Giallo, rosso, verde, blu e nero.

No il nero no, ho paura del nero…

Il disco nero non le piaceva, lo guardava di sovente ma lo riponeva subito, e la favola di quel disco non la voleva proprio ascoltare. Comincia da qui la storia di Bianca, dal giorno in cui decise di porre fine alle sue paure e trovò finalmente il coraggio di inserire il disco nero nella fessura ingorda del suo vecchio mangiadischi. E la sua storia è ora anche la vostra.

A mille ce n’è…

E Bianca e il suo nero cominciarono a uscire…

C’era una volta una bambina qualunque di nome Bianca, non una principessa, come si è soliti narrare, ma una bambina in carne e ossa, occhi azzurri sì, ma cortissimi capelli castani, che viveva con la sua numerosa famiglia qualunque, reale e non regale, composta da mamma Luce, papà Ruggero, le sue sorelle Agnese, la più grande, Caterina la seconda e Giovanni il piccolo di casa.

Bianca era una bambina curiosa, di animo mite, amante della compagnia, ma a suo agio anche in solitudine. Sapeva occupare bene il tempo libero, varcando talvolta, con la sola fantasia, le mura della cameretta a cavallo dei suoi sogni.

Non esistevano per lei pareti o limiti.

Nel suo mondo immaginario e immaginato si poteva andare ovunque.

Il corso di danza era costoso, e i soldi in casa Benvenuti non erano molti.

Papà Ruggero lavorava, ma la famiglia era numerosa e mamma Luce, con le sue doti parsimoniose, doveva già compiere ogni giorno i suoi miracolosi prodigi, distribuendo pani e pesci agli affamati, e nulla mancava mai di ciò che serviva.

Nei sogni, Bianca, era invece libera di andare ovunque desiderasse. Sognava un teatro, dove danzare in punta di piedi, sulle note di Ravel. Odori di tessuti polverosi e di assi di legno vecchie rendevano ancora più vivide le immagini del suo sogno.

La fantasia, si sa, apre ogni porta, anche la più segreta.

Certo, il ritorno alla realtà le lasciava qualche volta un po’ di amaro in bocca. Le tende della cameretta tornavano bianche, esattamente come prima, ma nella sua mente rimanevano impressi almeno i ricordi di fastosi tessuti damascati, di luci e di colori.

Bianca avrebbe desiderato molto iscriversi a un corso di danza, ma sapeva bene che le disponibilità economiche della famiglia non lo consentivano.

E così, anziché puntare i piedi e strillare, come faceva a volte la sorella Caterina, si riservava di sognare, anche in grande a volte, perché i sogni in fondo non costano proprio nulla.

Capiva anche con quanta fatica mamma Luce dicesse di no ai suoi figli. Le sue rinunce erano sempre le prime nella lista. Si concedeva poco, o quasi niente, e con il poco che le restava cercava sempre di accontentare i suoi figli.

I suoi figli sì che dovevano essere i più belli, i più educati e ben tenuti. E in questo mamma Luce era molto esigente.

Confezionava maglioncini con la lana disponibile, spesso di riciclo, anche un po’ infeltrita, ma di mille colori, buttati lì forse un po’ a caso, ma curati in ogni più piccolo dettaglio, e caldi, molto caldi. Erano il suo abbraccio intrecciato. Tagliava, cuciva, lavava e i suoi bambini erano sempre in perfetto ordine, proprio come voleva lei.

Se il sogno di diventare ballerina non poteva avverarsi, come poteva essere triste Bianca?

Della sua mamma Luce percepiva ogni più piccola sfumatura di colore e l’infinita delicatezza del suo cuore.

Non c’è colpa alcuna nel non potere.

Come è possibile arrabbiarsi, se non si può rubare il sole?

Non si può e basta.

E fu così che Bianca rimise quel suo sogno nel cassetto, ma senza dolore, così com’era nato, come l’onda che ritorna al mare dopo aver raggiunto la sua massima punta.

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LUCE

Bianca era attenta e osservava, negli specchi di casa, le immagini che questi le rimandavano.

Scorgeva mamma Luce, la sua mamma adorata, e guardandola pensava sempre a quanto era bella.

Cresciuta contadina nelle origini, ma nobile nell’animo, era il cuore pulsante della famiglia, l’immagine più marcata e nitida.

Sorrideva però poco mamma Luce.

La vita le aveva riservato più fatiche che ricompense, ma nonostante gli urti forti da parare, lei rimaneva in piedi, ritrovando sempre il suo baricentro.

I suoi occhi belli raccontavano a volte di lacrime trattenute a stento e mai piante, ma non perdevano mai la loro naturale dolcezza.

Papà, grand’uomo di cultura, dedicava a mamma Luce la rimanenza della sua giornata e spesso il silenzio era ciò che riempiva le loro serate.

I figli crescevano sani e forti, fra le braccia della sua consorte, ma privi di quell’autorità paterna che avrebbe suggerito invece il suo ruolo.

A volte anche i rimproveri, che interrompono il silenzio, fanno molto meno male dell’assenza di comunicazione, ma papà Ruggero era troppo lontano per accorgersene.

Egli delegava a mamma Luce la crescita dei figli, come si delega il ritiro di una raccomandata in posta. Ma si sa, in posta si ritirano spesso solo nuovi crucci e pensieri.

Ma mamma Luce c’era, come esiste il mondo, solida roccia su cui aggrapparsi.

Quante carezze avrà desiderato in quei silenzi, quanto avrà atteso uno sguardo che la cercasse?

Quanta pazienza tenera e cara mamma Luce!

La sua fierezza la portava a trattenersi dal lamentarsi, e così, rianimava ogni giorno il suo spirito e volgeva al domani.

Anche se il domani, già lo sapeva, sarebbe stato uguale…

Papà Ruggero, tra quelle mura, era come una candelina su una torta. Decorava, ma non sfamava, né tantomeno ne costituiva l’essenza. Mamma Luce era invece la torta, quella buona che fa gola.

Le vere delizie della torta sono gli ingredienti che la compongono. E lei era l’ingrediente di prima qualità, in grado di saziare anche gli appetiti più esigenti, raddolcendo gli animi e gli umori.

La specialità di mamma Luce era la sua torta di pane. Buonissima.

Bianca adorava osservare la sua mamma con le mani infarinate e ammirava silenziosa la nascita delle sue creazioni, cercando di coglierne i più piccoli segreti.

Attraverso i gesti di quelle mani instancabili Bianca comprese che per realizzare un buon impasto serviva tanta pazienza, per amalgamare per bene ogni singolo componente con un pizzico di passione e non risparmiarsi in fatica.

E ciò vale anche per un buon amalgama di vita.

Gli occhi di mamma Luce erano tanto belli ma tristi, infinitamente tristi, verdi come la speranza che non si spegneva mai. Ogni giorno attendeva impaziente il ritorno a casa di papà Ruggero, ma la sua torta di pane, appena sfornata, non attirava mai lo sguardo del suo uomo. Rimaneva lì, dimenticata sotto il panno umido, ancora calda e profumata alla vaniglia, senza ricevere mai alcun apprezzamento né tantomeno un gesto di gratitudine.

Gli occhi di papà Ruggero erano già stanchi, sfuggenti, pieni di altro vedere. Rincasava con la voglia di essere dimenticato. La sua poltrona lo ingoiava e lo nascondeva alla vista, mentre il fumo delle sue sigarette occupava lo spazio lasciato vuoto dai suoi silenzi.

Un’altra sera passava, come tante altre, identiche anche nei minimi dettagli. I figli, già in pigiama, lo salutavano allegramente, ma svogliati “buonanotte” chiudevano la comunicazione.

«Ora a nanna» diceva mamma Luce, facendo appello al suo spirito rinfrancante. «Si va al Cinema Bianchini, sotto le coperte e sopra i cuscini.»

Dopo il Carosello la storia era sempre quella e le bambine, seppur di malavoglia, si dirigevano nella loro cameretta, tutte insieme appassionatamente.

Rimanevano nel salotto i due coniugi, sciupati nell’amore, l’una che rincorreva lo sguardo dell’altro, quando l’altro orientava il suo altrove. E quegli sguardi non si trovavano mai. Divergenze di sguardi.

Ma la famiglia Benvenuti, seppur con i limiti e le pecche di ogni nido, era costituita comunque da un buon amalgama.

Una ciambella un po’ sbilenca forse, senza il buco anche, ma come si sa da proverbiale memoria, “non tutte le ciambelle riescono perfette”.

Nonostante la distanza comunicativa e affettiva, tra mamma Luce e papà Ruggero, nella famiglia Benvenuti non mancava l’allegria. Mamma Luce era infatti una buona barriera per i suoi figli. Parava i colpi – anche quelli più duri – senza mai perdere la sua fierezza. Era difficile coglierne la tristezza, e la fragilità – di alcuni momenti –la si percepiva solo nella postura che assumeva. Si ripiegava su se stessa, come un cappotto buttato sul pavimento, perdeva definizione, dava le spalle al mondo, e fuggiva dagli sguardi dei figli.

Il divincolarsi dalla loro possibile consolazione era il suo modo per ripararsi e per non lasciarsi andare.

Doveva proteggerli.

Voleva proteggerli.

Mamma Luce aveva avuto un’infanzia serena.

Crebbe in una solida famiglia, dove l’amore era l’unica fonte con cui riscaldarsi, e godette fin da subito della predilezione del padre, un uomo bellissimo con gli occhi verdi come i suoi. La portava sulla canna della sua bicicletta, fiero di quella bimba tanto graziosa e così diversa, nelle fattezze e nei modi, da quel mondo contadino che l’aveva vista nascere.Luce fu nutrita di un amore di buona qualità e quel suo amore, così sostanzioso, seppe dispensarlo ai figli in modo del tutto speciale. Non c’era mattina in cui la sua voce non li svegliasse, non c’era notte senza il suo bacio, non c’era pranzo senza la sua pasta, non c’era cena senza la sua minestra, non c’era compleanno senza la sua torta, non c’era momento senza di lei.

RUGGERO

Papà Ruggero era un uomo bello, di quelli forse però che non si notano subito. Alto, magro e dal viso scavato. Occhiali grandi a coprire quei suoi occhi azzurri profondamente malinconici e schivi; occhi che guardano ma fuggono per non essere presi mai; occhi visibili attraverso le lenti, messe lì non solo per correggere la vista carente, ma per separare anche l’anima dal mondo.

Gli occhi riflettono l’anima e ne mostrano dettagli così nitidi che nemmeno il carattere riesce a mettere in luce. Ruggero era un uomo bisognoso di amore ma incapace di amare. Di animo inquieto e alla costante ricerca della sua dimensione, che stentava tuttavia a trovare nella sua professione di impiegato prima, di giovane insegnante poi, e – non da ultimo – nella sua vita coniugale.

L’inattitudine affettiva e la carenza di istinto paterno non sono però colpe. Il mondo animale lo insegna.

I cuccioli non crescono, quasi mai, con il supporto affettivo del padre. Dopo il concepimento l’animale maschio guarda già altrove, disinteressandosi, fin da subito, di ciò che è stato e di ciò che avverrà.

I cuccioli sono affidati alle cure materne, si nutrono dal seno delle loro madri e da loro ricevono protezione.

È la madre a difenderli e ad affidarli al loro destino, sopprimendo, talvolta, i più deboli per la crudele ma innata legge della natura che prevede in vita solo i più forti…

La capacità affettiva non è solamente una questione genetica, un dono recapitato dal corredo cromosomico. Il più delle volte la si apprende vivendola nel quotidiano, nella gestualità, nella qualità delle carezze ricevute, delle parole dette e non taciute, nelle negazioni a fin di bene, nella gratifica del merito.

Papà Ruggero all’affettività non ebbe modo di educarcisi.

Nacque anch’egli in una famiglia contadina, come primo di cinque figli, e fu sottratto ancora piccolo dalle calde braccia della sua mamma Rosa.

Mamma Rosa, quella sua mamma rotonda e morbida, che odorava di camino, dovette infatti piegarsi – come tanti in tempo di guerra, la seconda grande guerra mondiale – all’evidenza della povertà e della fatica, e fu costretta ad affidare il suo primogenito alle benevole cure della suocera e del cognato prete.

In canonica il piccolo avrebbe goduto di un luogo sicuro e anche di miglior agio.

Pianse molte lacrime mamma Rosa, ma la sua vivace intelligenza la fece andare oltre il sacrificio e da buona madre rinunciò al figlio, certa di fargli dono di un futuro migliore.

La nonna e lo zio prete amarono Ruggero con le stesse premure e attenzioni riservate a un figlio unico. Troppo di tutto e di più di quel che serve. Chissà però quante volte il piccolo, nelle sue notti senza sonno, quando tutto intorno taceva, avrà pensato alla sua mamma e alla sua sorellina appena nata, sentendo nascer dentro di sé un’insostenibile tristezza e quella morsa di paura che paralizza le gambe e volge ogni cosa, anche la più bella, al nero.

Quando si viene al mondo si sale in giostra.

A volte si è incredibilmente in alto, a volte si è terribilmente in basso. Ma la giostra gira. La mitezza dello zio prete, buono di cuore e grand’anima, assecondò lo spirito inquieto di quel nipote prediletto e Ruggero divenne adulto senza quasi faticare. Lo allevò con tanto amore e santa pazienza, invitandolo a seguire la strada della cultura.

«Delle tue braccia magre se ne può far senza, della tua testa no» gli ripeteva sempre lo zio.

Ruggero ottenne così il suo diploma, diploma di ragioniere, carta che non solo cantava prestigio, ma la certezza di una sedia comoda su cui posarsi. E da giovane ambizioso cominciò così il suo viaggio.

LUCE E RUGGERO

Luce visse la sua giovinezza nella sua grande famiglia, composta dal padre, dalla madre, due fratelli, cinque sorelle, nonni, zii, cugini e parenti tutti.

Di certo Luce non ebbe l’infanzia ovattata e solitaria di Ruggero. Fu amata nel suo stesso nido, seppur il tempo per l’amore fosse limitato a quei pochi momenti ritagliati fra un lavoro e il seguente. Ma l’allegria in quell’affollata famiglia non mancava mai.

Il suo papà, nonno Agostino, oltre ai suoi begli occhi verdi e calmi, sapeva anche di buono. Di statura imponente sovrastava la piccola moglie, nonna Amelia, solo in altezza, perché in casa i pantaloni di certo li portava lei.

Nonna Amelia era una donna minuta nelle forme, riassunta tutta nel suo metro e cinquanta, ma dal temperamento di un vero generale. Scattante e decisa, comandava la sua truppa con la forza del solo sguardo, e di quella sua voce che suonava imperativa anche nelle parole più tenere.

Nonno Agostino, oltre al duro lavoro nei campi, aveva grandi doti da intrattenitore e delle sue filastrocche in dialetto veneto, canzoncine e racconti, sono piene le memorie di Bianca. Din, don, campanon, tuta note le sonava, pan e vin le guadagnava, na bosseta de quel bon, da portar a Suor Simon, Suor Simon no la ghera ma ghera l’Andreana…

Mite uomo, grande padre. Prediligeva la sua piccola Luce, che poco aveva ereditato dei tratti somatici, un po’ spigolosi, di nonna Amelia. Luce aveva un volto bello da cinema, pensava orgoglioso il padre.

Sembra un’attrice, si ripeteva fiero. E in effetti, i suoi lineamenti delicati e così armoniosi la rendevano particolarmente fotogenica, un bel viso da ammirare in copertina.

Ma nonostante la predilezione di Agostino per Luce egli, da buon padre di famiglia, non fece mai mancare l’amore a nessuno dei suoi figli, che crebbero così robusti e forti e pronti a portare le loro solide radici altrove.

Mamma Luce tuttavia del mondo contadino non mostrava né tratti né attitudine. Sognava la città come luogo di proiezione futura di tutti i suoi sogni. Ma il “tutti per uno, uno per tutti” valeva anche per lei.

Non si sottraeva mai alla sua parte di lavoro nei campi, ed era anche, nel concreto, una piccola ape operaia, ma portava sul suo capo – come unico vezzo – un cappello a tesa larga, per impedire al sole di colorare il suo viso, segno distintivo di origini contadine.

Lasciò la scuola, presto mamma Luce. Le sue braccia servivano nei campi, la fame era tanta, e così il diploma sperato rimase giusto un sogno, rimesso nel cassetto con obbedienza, anche se con fatica.

Anche il lavoro in fabbrica accolse le fatiche di mamma Luce, e i suoi sogni di un futuro migliore rimasero confinati lì, in quel cementificio, a frantumarsi fra le polveri.

Ruggero e Luce si conobbero a un matrimonio, circostanza foriera di buoni auspici. Lui si innamorò, fin da subito, di quella ragazza delicata, così diversa dal mondo contadino dal quale proveniva. Bella, educata e di buone maniere. Vide in lei la sua sposa e la corteggiò con molto impegno e caparbietà.

Luce infatti non ricambiò subito l’interesse di Ruggero, anche se, in fondo, quel bel ragazzo di montagna non le era del tutto indifferente. Occhi azzurri, tratti decisi, aria da intellettuale. Era diverso dai ragazzi del suo paese, così immediati e diretti, teneri nel corteggiarla ma del tutto privi di quella galanteria e fascino riconducibili a Ruggero. Quel giovane ragazzo dalle buone maniere aveva un diploma, un futuro lavorativo di tutto rispetto e molta ambizione.

Le aprì orizzonti che la incuriosivano e vide in proiezione quella città che sognava fin da bambina, immaginandola come luogo misterioso e magico.

Vi si trasferì, prima con i sogni, e poi con i fatti. Luce e Ruggero si sposarono nel mese di settembre, carichi di progetti e di fiducia che quell’amore potesse bastargli per sempre.

Luce promise e seppe mantenere il valore del “per sempre”. La giovane sposa conquistò anche il cuore e la predilezione dello zio prete, che la amò con lo stesso identico amore che riservava al nipote.

Prese entrambi in affido congiunto, e raccomandò loro l’uso dei migliori ingredienti per edificare una buona famiglia: creta, pazienza, un pizzico di fantasia e non da ultimo impartì loro la sua benedizione.

Ruggero immortalava la bellezza di Luce in ogni istante, la riempiva di scatti, cogliendo ogni luce e ombra del suo viso. Riempì gli album di foto con le sue immagini sorridenti, stanche, felici, pensierose.

Erano immagini in bianco e nero ma mostravano il giusto punto di colore del loro amore: il rosso.

Mamma Luce e papà Ruggero assolsero nell’immediato i loro doveri coniugali e concepirono la figlia primogenita, la piccola Agnese.

22 aprile 2018

Corriere della Sera, Verona

Sull'edizione di Verona del Corriere della Sera si parla della presentazione del libro Ho paura del nero di Francesca Fasani e della casa editrice bookabook. edizione di Verona del Corriere della Sera libro Ho paura del nero

Commenti

  1. Gatassone

    Bellissimo libro. Mi ha molto emozionato ma era facile prevederlo. Brava Francesca, un abbraccio. Claudio

  2. Un racconto delicato che nasce da una lunga e difficile introspezione. La scrittura come liberazione, travaglio necessario, propedeutico alla rinascita. La scrittura che esprime la gioia di vivere. Tutto questo in un libro da premiare per il coraggio e la caparbietà dell’autrice.

  3. (proprietario verificato)

    Ho avuto il privilegio di leggere la bozza di questo meraviglioso racconto, un vero e proprio concentrato di vita.
    In questo libro si cresce pagina dopo pagina, vicenda dopo vicenda, nei ricordi nitidi e delicati di questa bambina che passo passo diventerà Donna.
    È un inno alla vita, contro tutte le difficoltà, è una lotta agli stereotipi imposti spesso alle donne nella nostra società.
    È un canto sublime all’Amore quello che non ti chiede mai niente in cambio..
    Non privatevi di una lettura così umana e speciale

  4. Libro dolcissimo con una sensibilità ed un’ironia dai colori sottili e sempre gradevioli. Mai banale. Apparentmente una lettura “leggera” ma che poi si scopre essere uno spaccato di vita profondo e che offre molteplici spunti di riflessione. Il tutto sapientemente intermezzato da citazioni e lampi descrittivi simpatici e divertenti. Brava Francesca!

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Francesca Fasani
Francesca Fasani, classe 1967, diplomata in Ragioneria, lavora nel settore della proprietà intellettuale occupandosi di brevetti. Da sempre divoratrice di libri, scrive racconti e poesie; Ho paura del nero è il suo romanzo d’esordio.
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