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Una vita e oltre

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La vita di Alberto viene spezzata da un barbaro omicidio, ma lui si rifiuta di andare via. Vuole capire chi, vuole capire perché. La vita di Alessandra è distrutta dalla morte del suo uomo. Non si darà pace finché non arriverà alla verità. Entrambi, nel sogno di lei, ripercorrono la strada fatta insieme fin da ragazzi, le grandi gioie, gli immensi dolori e un amore assoluto sempre sullo sfondo. Un viaggio dentro e oltre la vita con un finale che accende la speranza di tutti verso un mondo, un oltre, una vita migliori.

PROLOGO

La notte è ormai calante, in questa e quella dimensione, i raggi di luce ancora filtrano tra queste e quelle nubi e le vicende umane si rincorrono, qui e lì, senza sosta, ognuna molto simile, se non uguale, a ogni altra.

Io, “il narratore”, mi trovo qui, e da questo posto vi racconterò una storia vera, a cui ho avuto la ventura di assistere da una posizione privilegiata.

Già perché, da qui, tutto è privilegiato!

Dove mi trovo? La prima riga lo dice: io mi trovo in questa dimensione. Voi, tutti voi, nell’altra.

Qual è la differenza? Be’, la differenza tra noi è che io sono morto.

Ma no, non vi date pensiero, non fa niente… Io, qui, ci sto bene!

Certo, mi potreste chiedere perché la chiamo “dimensione” e non inferno o, magari, paradiso. Semplicemente perché, vi risponderei, questo è il posto dove sono.

E, con me, in tanti. Tutti.

Da questo posto vediamo e sentiamo tutto e, credetemi, a volte ce le fate girare in maniera vorticosa.

Eh, lo so, è facile parlare col senno di poi, facilissimo… e, se considero che, a detta di chi è qui da molto più tempo di me, anch’io gliele ho fatte girare di brutto quando ero lì con voi, ecco che, onestamente, non sento di poter fare tanto il santarellino.

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Che posto è questo? Me lo chiedete e vi rispondo: è un bel posto, tanto che, a saperlo, ci sarei venuto prima… mi credete? No? E fate benissimo! Sapeste come rosico…

Detto tra noi, è troppo perfetto: si vive in pace e lietezza e tutti, ricchi e poveri, bianchi e neri, belli e brutti, cristiani, musulmani, scintoisti, buddisti o seguaci di questo e di quel qualcos’altro, indossano una tunica bianca, ma così bianca, così bianca che… scusate, non mi viene il paragone!

Sono in buona compagnia, questo sì, e con un ulteriore vantaggio: il non potere incontrare né i propri nemici né le proprie, eventuali, vittime di quando si era “vivi” e neanche sentirne parlare. Per due motivi: per il quieto “vivere” e per permettere a tutti di avere il tempo per dimenticare le offese subite o le malefatte effettuate. Vi confesso, però, che vorrei tanto poter chiedere perdono a qualcuno che, lo so, è qui con me.

Ma non posso, non ancora.

Adesso basta con le domande, se proprio siete così curiosi, raggiungetemi!

Scherzo, continuate a vivere meglio che si può, ve ne prego!

Io ve ne racconto una, di vita.

Per “l’oltre” c’è sempre tempo…

IL FIUME VA

Il fiume costeggiava il giardino della grande casa in pietra e la osservava, riconoscendoci una parte del suo mondo, quel mondo in cui s’insinuava, che rincorreva, dove passava attraverso non conoscendo altro: la montagna, la valle e, infine, il mare.

Conosceva bene quel posto, lo aveva visto nascere e crescere, ne ricordava ogni pietra e ogni abitante che, negli anni, l’aveva popolato.

E conosceva lui: il vecchio Michele! Che personaggio, Michele parlava alle donne facendole sentire più donne, ne aveva avute tante e a tutte riservava un angolo delle sue memorie. Tutte loro gli erano state riconoscenti e lo avevano ripagato in ogni modo: con lui si aprivano anima e corpo, come la cosa più semplice e normale.

Tra gli amici era lui il capo, il consigliere, il fratello. Gli si riunivano intorno consci della sua superiorità e contenti che lui non la facesse pesare.

Finché anche lui non dovette subire inganni e cattiverie, e proprio dalle persone che aveva aiutato indicandogli la strada della vita oltre che accollandosi i loro errori, indovinando le paure, calmando l’ira e anche schiaffeggiando – con i fatti o con le parole – chi, con i propri vaneggiamenti, disturbava la quiete del suo mondo.

Chi lo tradì gli fece seppellire l’anima in un labirinto senza uscita, gli mise il cuore in un forziere senza chiavi e il cervello sotto tonnellate di roccia.

L’odio che lo colse era figlio dell’amore che aveva provato, la rabbia accecante era pari alla sua serena intelligenza, la mano che si armò era la stessa con cui aveva tanto accarezzato. Nel momento in cui stava per compiere quel gesto estremo, sentì quei due occhi che lo guardavano.

Lo sguardo di quel bambino – uno sguardo supplicante, muto ma pieno di parole urlanti – ebbe il potere di fermare quella pazzia. Erano gli occhi di suo figlio, suo e di quella donna sciagurata e terrorizzata. Lo prese con sé, aprì la porta e se ne andò, per non ritornare mai più, mai più!

Che personaggio, Michele! Alto, maestoso, un viso ancora bellissimo, in barba all’età.

Lui era lì, nel suo letto di dolore, che ricordava senza rifiutare i cattivi ricordi, mischiando il bello e il brutto della vita con la speranza che, in un’altra esistenza, le esperienze fatte potessero servire: altrimenti, quale sarebbe il loro scopo?

Il fiume, proseguendo, osservava inquieto il mondo intorno.

Il vecchio era lì, a guardarlo e ad aspettare.

Aspettava che quel bambino, il suo bambino, andasse a tenergli compagnia.

Nessuno disse a papà Michele della tragedia che si era consumata in quella casa poco lontano da lì.

Non potevano, lui ne sarebbe morto!

E anche il fiume, pietosamente, continuò in silenzio il suo cammino.

DECORATA DA UN ODORE DI FIORI

Erano le dieci di un mattino di tarda primavera. All’interno della casa la luce era soffusa perché il sole, anche se già alto nel cielo, non riusciva a penetrare dagli spiragli delle imposte socchiuse.

Gli specchi erano coperti da pesanti teli scuri – in modo da impedire all’anima del defunto di restarne imprigionata – e l’aria appariva come decorata da quell’odore di fiori che un po’ disturbava, ma che regalava anche un senso di pace e benessere.

Il brusio, provocato dal vociare di tutti i presenti, diventò monotono e i toni finirono per alzarsi fino a toccare punte altissime, cosa di cui nessuno, individualmente, poteva sentirsi responsabile.

Fuori da lì, i rintocchi del campanile si inseguivano, mentre un odore di mandorli in fiore si espandeva in quell’aria talmente tersa che ti faceva vedere il mare, lontano, laggiù.

Le persone presenti, addolorate, commentavano ricordando il giovane defunto: «Era una brava persona!».

«Quella disgraziata si prende sempre i migliori!»

«Poverino, che pena!»

«Così giovane, chi se lo immaginava?»

«Adesso, come faranno in casa?»

Gente triste si avvicinava ai parenti più stretti: era tutto un incrociarsi di facce di circostanza, di sguardi comprensivi, di baci su visi stanchi e pallidi, di strette di mano e abbracci dati con mani umide di sudore e braccia spossate da una notte insonne.

Parole dette piano, con le lacrime dentro, come un fruscio sommesso: labbra contro orecchio, come ad aver paura di svegliare qualcuno.

Svegliare qualcuno? Lì nessuno dormiva!

Negli angoli e sui terrazzi si formarono dei gruppi, fatti, per lo più, da chi non si vedeva da qualche tempo o da chi, invece, si vedeva troppo. I discorsi – piano, piano – acquisirono un diverso tono: si parlava del più e del meno e qualche risata era subito zittita da chi avrebbe avuto più voglia di ridere. Ma, di certo, non avrebbe potuto!

Si parlava di lui, di Alberto, il protagonista di questo triste episodio.

Lui aveva avuto il permesso da quelle persone un po’ strane – che aveva incontrato dopo un viaggio piuttosto movimentato – di assistere ai fatti e di ascoltare i commenti di tutti. Aveva espresso il desiderio di tornare appena si era reso conto di dove fosse: c’erano cose da chiarire, persone da salutare, il motivo della sua morte da scoprire.

Al suo ritorno – da puro spirito – si ritrovò sorpreso e perfino compiaciuto di trovare nella sua casa, e intorno al suo letto, tutte quelle persone. Alcune non le aveva mai viste o sentite nominare, altre erano conosciute e amate e altre ancora le sentiva fisicamente e affettivamente lontane: fidanzate o mogli di cugini, i loro figli annoiati e petulanti, lontani parenti con le loro mogli un poco distratte e con i visi assenti, qualcuna anche pesantemente truccata e con l’aria di chi si chiede che cavolo ci fa in quel posto: ma si sa, il dovere…

Alberto andava da un posto all’altro, curioso com’era di ascoltare in che modo parlassero di lui oppure di quali fossero i discorsi che, in generale, le persone facevano in quei casi piuttosto malinconici.

Era pronto a qualche sorpresa e, infatti, il suo spiare lo portò in cucina, dove la cara zia Nannina era intenta a preparare il caffè in compagnia di due cugine. Intanto, le tre donne parlavano con sincero dolore di Alberto, quel povero ragazzo disteso sul letto di morte nella stanza vicina.

Poco dopo, l’apparire del caffè fu accolto da un brusio di approvazione, e si fece pure un po’ di calca intorno al bricco fumante.

Uno dei presenti, un uomo alto ed elegante e con un foltissimo paio di baffi, si avvicinò a Nannina in modo furtivo, bisbigliandole in un orecchio: «Ah! Brava Nannina, siete un capolavoro, guardate che tra poco è ora di pranzo e, se proprio insistete, non rifiuto un invito, se sarete voi a farmelo».

«Cavaliè, ma siete proprio senza ritegno, come vi permettete? Vi siete dimenticato dove siamo e quel che è successo in questa casa?»

«Perdonate, Nannina, ma di certo nessuno ascoltava. Il fatto è che quando vi vedo non riesco a stare calmo: mi fate un effetto che… altro che il caffè!»

«Cavaliere, avete sempre voglia di scherzare ma questo non è né il momento né il luogo che voi mi facciate la corte! State al vostro posto e rispettate il mio dolore.»

Alberto, nella sua condizione di puro spirito, ascoltando, si lasciò andare a una sonora risata ricordando una serie di episodi a cui aveva assistito! Lui, in realtà, sapeva che la tresca tra il cavaliere e zia Nannina durava da un bel po’: una volta che il Cavalier Antonio fu invitato a pranzo – da sotto il tavolo, non volendo – Alberto vide le mani di lui tra le gambe di lei e, addirittura, vide anche il contrario!

Alzandosi li osservò: zia Nannina rideva e parlava continuamente, il Cavaliere aveva una faccia un poco pallida e un’espressione da beota patentato!

«Cavaliè,» Alberto gli disse «vi vedo un poco strano, bevete un bicchier di vino che forse ne avete bisogno!»

Una notte, che proprio non riusciva a dormire, Alberto si alzò per prendere un po’ d’acqua. Passando davanti alla camera di zia Nannina sentì un rumore e, naturalmente incuriosito, si mise a origliare: «Ninuccio, ti prego». Ninuccio, così lo chiamava nell’intimità. «Ninuccio, non far rumore, qualcuno potrebbe sentire.»

«Che sentano, Nannina, quando sto con te il mondo è lontano mille chilometri. Ah, Nannì! Come sei bella Nannina mia!»

Ricordando quell’episodio, Alberto non riuscì a non riderne e, in verità, il fatto non gli dispiaceva. Anzi, gli faceva anche piacere per lei, santa donna.

Finché, in un’altra delle sue scorribande notturne, Decorata da un odore di fiori Una vita e oltre 19

non sentì un brusio provenire dalla stanza di Nannina: «Paoluccio non fare così ti prego, no, no!».

Adesso era Paoluccio! E il bello doveva ancora venire.

«Vituccio mio!»

«Andreuccio bello!»

All’anima di zia Nannina!

Ecco spiegati i vestiti, i regali che faceva e la macchina sportiva!

Lei diceva: «Ho fatto investimenti fortunati».

Altro che investimenti, zia Nannì, hai fatto proprio quello meno costoso e più remunerativo, al mille per mille di guadagno!

E che fantasia, nei diminutivi dei tuoi amanti!

DA MILIARDI DI GRANELLI DI TERRA…

Nel primo pomeriggio la casa tornò a riempirsi di gente.

Tra costoro spiccava un uomo, il Colonnello Ruffini, stereotipo vivente del militare di carriera: alto, maestoso, un modo di muoversi e parlare di chi era abituato a comandare e a farsi ubbidire, con un portamento e un fascino che prescindeva dal fatto che portasse o no la divisa.

Insomma uno che, anche se non lo conoscevi, indovinavi subito il mestiere che faceva.

Entrando, calamitò subito le attenzioni della gente: chi lo conosceva si avvicinò per salutarlo; chi no, pregava i primi per essere presentato.

Temuto e rispettato dai delinquenti di tutte le categorie, era ormai diventato una leggenda, tanto che si auguravano che non fosse proprio lui a dar loro la caccia e sperando che, se proprio dovevano essere arrestati, fosse lui a farlo.

Come un alibi: «Mi ha preso Ruffini, cosa potevo fare io?». Si laureò in Giurisprudenza a ventuno anni e, in seguito, prese anche la laurea in Filosofia.

La tesi che discusse il giorno della seconda laurea – una tesi sull’utopia che tracciava la strada pratica per arrivare alla costruzione dell’Io Ultimo – stranamente fu fatta mettere sotto il vincolo del segreto dal suo professore che, lui seppe dopo, era membro dei Servizi.

Lui, di fronte alla salma, dava l’impressione di essere disperato per come può essere totale la disperazione, ma gli occhi, per un attento osservatore, erano più freddi di quelli di un cobra, quelli di chi sa giocare con la vita degli altri in nome di ideali terribili, e alla ricerca smodata di un potere nel cui nome tradire, in una spirale senza fine, anche quelli.

Era, comunque, sull’attenti davanti al suo giovane ufficiale, ucciso, nell’adempimento del dovere, da una banda di vigliacchi assassini.

Il picchetto d’onore cominciava a schierarsi tra la curiosità della gente. Tra loro gli amici fidati e i compagni di mille avventure del povero Alberto, anziani marescialli e giovani ufficiali – gente con le palle così – che piangevano abbracciandosi, pur con la voglia di spaccare il mondo.

***

Qualche metro più in là sostava, affranta, la cugina Camilla, lei sì davvero piangente, tanto da chiedersi dove trovasse tante lacrime.

Tutti cercavano di calmarla, conoscendo – chi più, chi meno – l’affetto profondissimo che la legava al caro Alberto.

Di due anni più grande, Alberto era stato per Camilla il giocattolo preferito, il bambolotto che non aveva mai avuto, il fratello più piccolo, l’amico fedele e, perfino, l’amante appassionato!

Lo guardava e le ritornavano in mente i mille episodi di un’intera vita trascorsa insieme fin dalla più tenera età.

Erano abituati a vedersi senza vestiti addosso, perché da piccoli avevano fatto tante volte il bagnetto insieme e, inoltre, dormendo spessissimo nello stesso letto, avevano imparato per esperienza quali erano le differenze – almeno quelle fisiche – tra un uomo e una donna.

Ingenuamente curiosi, si toccavano e ritoccavano dappertutto fino a che, una sera, lei non sentì quel “coso” ingrossarsi: ne furono, entrambi, stupiti e impauriti.

«Madonna mia! Che ti sta succedendo?» chiese Camilla, sorpresa e preoccupata.

«Ho paura, non sarò mica malato?» anche Alberto era inquieto, soprattutto osservando la reazione della cugina.

«Aspetta!» gli rispose lei. «Ma quale malato, vediamo se riusciamo a metterlo a posto noi!»

Al ricordo di quello che successe dopo, lei non riuscì a trattenere un sorriso: accadde infatti che – manipolando, manipolando – a un certo punto lui strabuzzò gli occhi, sentì il corpo tremare senza che potesse fermarlo e gli prese un senso di profondo benessere. Una sensazione magnifica che, poteva giurarlo, non gli era mai capitata!

«Cos’è questa roba? Sembra panna! Alberto che hai? Sei sicuro di sentirti bene?»

«Mi sento benissimo, mai stato meglio! Ma che è successo?»

«È successo che, all’improvviso, sembrava che tu stessi per svenire e poi ti è uscita questa roba.»

Lei era eccitatissima, senza sapere di esserlo.

«Camilla, aspetta, se è così bello per me allora anche per te forse è così.»

Voltandosi, iniziò a toccarla.

Un crescendo di emozioni la colse, aveva voglia di urlare ma, opportunamente, si trattenne.

Poi si abbandonò sul letto, spossata.

«Che bel gioco!» disse Alberto. «Dobbiamo farlo ancora.»

«Certo che lo faremo! Però ti raccomando, non dire niente a nessuno: forse non sanno che si può fare, così la pagano per tutte le volte che ci rimproverano.»

Scoprirono presto che tutti sapevano che si poteva fare e, ascoltando più attentamente e di nascosto i discorsi dei grandi, che si poteva fare molto di più.

Provarono subito ma all’inizio fu un mezzo disastro: non riuscivano a smettere di ridere.

Poi il respiro si fece affannoso, il seno di Camilla palpitava offrendosi ai baci, i visi si contrassero, gli occhi si riempirono di desiderio.

In modo naturale, senza nessuno sforzo, lui la prese. Restarono abbracciati a lungo, senza parlare; nessuna parola poteva spiegare quelle sensazioni che li inondavano e, come per telepatia, entrambi pensarono che quello, di certo, non era un gioco…

«Alberto… Alberto, non dobbiamo farlo più. Mai più! Ci siamo fatti prendere dalla curiosità e dalla voglia di scoprire quello che fanno i grandi. Ed è stato bellissimo! Ma noi siamo piccoli – giovani, diciamo – e quel che abbiamo fatto non è una cosa da piccoli; e poi siamo cugini, quasi fratelli, e non si fa, tra fratelli!»

Decisero che non avrebbero più dormito nello stesso letto, ma che avrebbero continuato a crescere insieme, a confidarsi tutto e ad aiutarsi quando qualcosa non andava per il verso giusto.

Camilla era diventata proprio una bella donna, moglie di un uomo fortunato che si era guadagnato la stima e la gratitudine di Camilla e l’amicizia di Alberto, cui chiedeva consiglio quando lei faceva un po’ di capricci.

Camilla e suo marito Nicola piangevano abbracciati, l’uno consolando l’altra, e ridevano ai ricordi che si accavallavano senza fine. Ricordi d’amore e di pace, ricordi di una vita.

Ancora commosso dall’aver assistito al dolore di Camilla, Alberto andò nell’altra camera e qui vi trovò il suo vecchio professore che, al solito, teneva banco con i suoi discorsi, rafforzati da una saggezza innata.

Si fermò per ascoltarlo un’ultima volta, così come tanti stavano già facendo.

Si era perso una parte del discorso che il suo amico e maestro stava tenendo e anche una parte delle proteste che il suo pensiero provocava, ma non perse quell’ultima parte, quella che zittiva i suoi detrattori…

«Vi siete mai chiesti cosa sarebbe successo all’uomo se tutti la pensassero allo stesso modo? Ve lo dico io: staremmo ancora a mangiare la carne cruda di una carogna uccisa da qualche predatore, a dormire all’addiaccio per paura che nelle caverne ci sia qualche spirito maligno, a grugnire invece che parlare e a spegnere il fuoco provocato da un fulmine perché ci potrebbe scottare; a fare l’amore tra fratello e sorella, tra madre e figlio, tra padre e figlia, generando così poveri esseri ancora più imbecilli di chi li ha procreati. È la forza del pensiero che ci fa diversi dagli altri animali, per questo siamo superiori a loro.

«Di chi è il merito? È di chi ha assaggiato quella carne finita per caso su di un fuoco, di chi è entrato nella caverna avendo più paura della tempesta che degli spiriti, di quello che ha spiegato cosa volesse dire con quel grugnito e, soprattutto, di quel giovane cacciatore che ha incontrato quella bella e sconosciuta cacciatrice, forse l’ha anche brutalmente stuprata e, così facendo, ha procreato, da bruttissimo uomo di Neanderthal, lo stupendo Cro-Magnon. Siamo arrivati a questo punto della civiltà – bella o brutta che sia – grazie al fatto che qualcuno, alcuni millenni fa, ha cominciato a pensare e ad agire in modo diverso dagli altri.»

Alberto, a questo punto, sentì che qualcuno lo chiamava. Fluttuando per la casa aveva ascoltato i pensieri e i discorsi di tutti ed era giunto il momento di pensare ad altro.

Anche se a malincuore, si disse: Ascoltare il mio maestro è sempre un piacere, ma la realtà di quel che è successo mi riporta, di corsa, nella stanza dove giace il mio corpo senza vita. Conosco bene quel viso, pallido ma sereno, come si dice: “Sembra che dorma”.

No, non dorme. È morto! Sono morto!

Il fatto in sé non mi rattrista: sì, ne sono stupito ma nemmeno tanto sconvolto. Francamente, non mi sono mai sentito così bene e mi rendo conto a fatica di non essere altro che un’entità vagante e invisibile.

Una sola cosa mi addolora: vorrei tanto parlare con qualcuno, con Alessandra o con Camilla, per esempio, vorrei tanto essere coccolato, accarezzato e rassicurato, che qualcuno mi passasse la mano tra i capelli parlandomi dolcemente, che quel sussurro mi cullasse fino a farmi addormentare, sperando di potermi risvegliare.

Non posso più, nessuno risponde alla mia voce né prende la mano che gli tendo, nessuno, mai più, mi accarezzerà teneramente i capelli.

Mio Dio, che magone mi sta prendendo!

Reagisco a fatica, consapevole di aver vissuto una vita, posso dire, bella; di aver conosciuto gente che valeva la pena conoscere e di aver dato quanto umanamente potevo.

Sento le campane che suonano, il carro con i cavalli che si ferma davanti casa mia.

Non avrà sbagliato indirizzo?

Due tizi, con i modi spicci di chi queste cose le ha fatte tante volte, afferrano quel mio povero corpo e lo chiudono in una triste cassa scura, tra i pianti degli amici, le urla dei parenti e l’inebetita angoscia di chi mi ama e che amo.

Passo in mezzo ai miei compagni, che a fatica riescono ad alzare le sciabole.

Salgo nel carro tra fiori d’ogni colore e inizio l’ultimo cammino.

Nella fossa, la bara – con la bandiera, la sciabola e il berretto – tra poco sarà sommersa da miliardi di granelli di terra.

Tutti si avvicinano per l’ultimo saluto a chi se ne va.

Io no, non me ne vado!

Ho ancora qualcosa da fare in questo mondo.

Ho ancora tanto da dire!

14 Luglio 2017
Dai premi di poesia alla narrativa: Claudio Mattiello racconta Una vita e oltre. Di seguito il link all'intervista completa: https://www.corsoitalianews.it/claudio-mattiello-suo-libro-vita-oltre-030717/

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Claudio Mattiello
Claudio Mattiello, classe 1959, nato a San Giuseppe Vesuviano, ora vive e lavora a Meta nella penisola Sorrentina. Scrittore e poeta, autodidatta, scrive da sempre con grande passione. Una vita e oltre è il suo romanzo di esordio.
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