L’attrito. La forza resistente che si produce nel contatto tra due corpi premuti l’uno contro l’altro, che ne ostacola il movimento. Era questo il primo passo, uno dei motivi che lo mandava in estasi e dava inizio a quel moto di soddisfazione, che sarebbe terminato di lì a poco, con un agognato appagamento. Rallentava i suoi movimenti fino a percepire distintamente ogni solco dell’epidermide. Era il momento iniziale di ciò che definiva la sua opera, il vero momento iniziale. Lei era distesa supina, occhi chiusi e flebile respiro e lui le aveva spostato leggermente il braccio sinistro, distanziandolo dal corpo fino a formare un angolo di quasi novanta gradi e poco sotto l’ascella, sul fianco, all’altezza della quinta costa, aveva cominciato l’incisone. Preferiva usare un coltello, al posto di un più preciso bisturi, perché in quel modo poteva partecipare al taglio, come se la lama fosse un prolungamento del suo arto, assorbendo le vibrazioni che tanto desiderava. Avvicinò il viso al dito indice che guidava l’affilato coltello, al punto che fu difficile mettere a fuoco la ruvidità della superficie che veniva lacerata. Una volta riuscito, cominciava tutto.
Il movimento del primo taglio, la pelle che da una parte si tende, perché sotto pressione e si piega dall’altro lato, poi lo spostamento della lama che affonda nella carne e infine, la conseguente prima goccia di sangue, che colava in un rivolo che andava a perdersi dietro la curva della schiena. Tutto quello aveva un che di poetico, di mistico. Era l’esaltazione dell’essere, la vera e unica spiegazione alla vita, attraverso la sua conclusione. Continuò il taglio lungo tutta la costa fino a dove fu possibile. Ogni volta era lo stesso, a malapena riusciva a controllare l’entusiasmo, fisico ed emozionale, durante quella lenta, silenziosa e nitida operazione. A taglio ultimato, seguì la linea appena fatta col dito, percependone i bordi frastagliati sotto il polpastrello. Nonostante avesse un guanto in lattice, riusciva comunque a sentire tutto. Dopo aver assorbito quella sensazione, si fece spazio tra la carne, liberando la costa e dopo una decisa pressione a mani unite, ruppe la parte anteriore che la univa allo sterno, la spezzò di netto con un colpo e la mise da parte. Lei non si mosse e non emise alcun suono. Diede un lungo sguardo al corpo lacerato e poi, senza indugio, spezzò a forza le altre due coste, allargandole per farsi spazio, con lo stesso fervore di un detenuto che tenta di forzare le sbarre di una prigione. Se fosse stato in casa, come stava già progettando di fare in futuro, avrebbe agito con più calma e meno irruenza, prendendosi i suoi tempi ed eseguendo ogni passaggio con maggiore cura, con più attenzione.
A quello, seguiva il prossimo passaggio, ma doveva essere più preciso e pratico. Si sedette a cavalcioni sopra di lei e inserì lentamente la mano destra al suo interno, facendosi delicatamente spazio dentro il suo corpo, attraverso gli organi. Quando lo trovò, il cuore era lì, come se per tutto il tempo fosse rimasto ad attenderlo. Chiuse gli occhi e lo strinse delicatamente, percependone il battito sul palmo della mano, lento ma costante, assaporandone la purezza e la magnificenza e sentendosi un privilegiato, grato per essere lui a fare ciò che stava per fare. Si concesse un attimo in più, per sperare che questa volta andasse bene e poi si riprese, sapendo che appena avesse continuato la sua opera, il tempo a sua disposizione sarebbe precipitosamente venuto a mancare. Diede qualche strattone per come aveva studiato, ruotò il polso e la mano in senso orario e lo estrasse intatto, fuori dal corpo di Scarlett Meile. Fu allora che si chinò prontamente su di lei e le sussurrò qualcosa all’orecchio, mentre un lieve battito delle palpebre sanciva il suo ultimo movimento in questo mondo. Il tutto durò non più di qualche minuto, ma sapeva che con un po’ più di studio e migliorando alcuni aspetti, avrebbe potuto ottenere maggiori risultati.
Ripose il cuore in una borsa refrigerata, vicino alla costa estratta poco prima, si pulì le mani e avvicinò il viso al corpo. Annusò. Non sentiva odore di morte, quella era ancora vita, per lui era ancora tutto in trasformazione e quando qualcosa si sta trasformando, non sta di certo morendo, ma tramutando sé stessa. Portò la bocca vicino un seno e gli leccò il capezzolo, avvertendone l’ultimo calore, poi si coricò sul corpo inerme e la baciò sulle labbra, anch’esse ancora vive. Sentì la parvenza di un’erezione spingere attraverso i suoi indumenti, ma si decise a non ascoltarla. In fondo, erano già stati insieme quella notte e il suo seme faceva ormai parte di lei. Si alzò lentamente, con un sentore di soddisfazione lasciata a metà, come quella che si prova quando qualcosa di ambito e gratificante viene portato verso la sua conclusione. Era soddisfatto, lo era tutte le volte, ma quella era stata la sua prima vera opera portata a termine con totale successo. Sapeva che si sarebbe ripetuto, meglio di come aveva appena fatto e la cosa lo entusiasmava. Quando si sarebbe accaduto, nel comfort della camera che aveva quasi terminato di preparare, tutto sarebbe stato perfetto, anche il prossimo, rischiosissimo passaggio conclusivo.
Ripose il coltello nel fodero e sistemò gli organi appena estirpati, in una borsa ermetica. La prossima volta che avesse compiuto l’opera, come aveva deciso di pianificare, tutti quegli attrezzi non sarebbero serviti, ma adesso la direzione era quella. Quella volta, aveva finalmente usato metodo, programmazione e conseguente successo. Avvolse il corpo in un telo di cerata nero, lo caricò in auto e scomparve tra gli altipiani del Kentucky, in quel freddo gennaio del 2011.
Capitolo uno
“La luce”
Giugno, 1988
La tavola calda di Merle, la preferita del signor Graham, stava proprio una strada e qualche isolato dopo la chiesa Saint Francis of Rome. Sembrava di buon umore quella mattina, alla gente che lo vedeva solcare il marciapiede, canticchiando a bocca chiusa l’acclamate al Signore udito poco prima e in effetti lo era. Non era certo usuale una sua manifestazione così plateale, seppure sommessa, ma di certo attirava su di sé l’attenzione. L’afa della giornata e il caldo che saliva dall’asfalto non sembravano nemmeno sfiorarlo e quando spalancò la porta di ingrasso, per aprire l’accesso al gruppo che lo seguiva, ci mise così tanta enfasi che alcuni commensali si girarono a guardare. Quella mattina la tavola calda era piena solo per metà. Il signor Graham amava andarci la domenica, subito dopo la messa delle undici, prima che si riempisse e specialmente preferiva farlo quando le giornate erano proprio come quella, col sole di giugno che splendeva nel cielo, l’estate alle porte e la sua famiglia al completo, lui, la moglie e i suoi tre figli. Erano poche le volte che quell’abitudine era venuta meno, lui non ci avrebbe rinunciato per niente al mondo e quel preciso giorno poi, era fin troppo importante per poter rientrare nello scarno elenco delle mancate. Quindi erano tutti lì.
– Oggi è un grande giorno – esordì, una volta che tutti ebbero preso il loro solito posto – un giorno fausto, da ricordare. – Tutti quanti abbozzarono un sorriso, ma nessuno parlò. – Merle – si rivolse al padrone di casa, – portaci da bere, il solito. – Poi si volse ai suoi figli, – ragazzi, guardate i menù, ordinate e andate a lavarvi le mani.
I tre eseguirono alla lettera, con gli occhi a scorrere tutte le pietanze. Quando Marybeth, la gentile cameriera che da sempre lavorava tra quelle mura, arrivò con una grande caraffa di acqua frizzante, loro ordinarono i soliti piatti di sempre e si alzarono diretti verso il bagno. Al loro ritorno trovarono i piatti già al tavolo, segno che probabilmente Merle conoscesse fin troppo bene le abitudini della famiglia Graham.
– Come mai ci avete messo così tanto?
– Scusa papà – rispose Eva, la figlia maggiore, che era solita parlare sempre per prima e a nome di tutti, – ma c’era fila e ad Ariel scappava.
– Ariel – disse il signor Graham, guardando la più piccola dei tre, la prossima volta avvertici, così almeno sapremo quanto aspettare. Hai otto anni, sei una signorina adesso, comportati come tale. Ora, prima di iniziare a mangiare, vorrei che tutti insieme pregassimo e ringraziassimo nostro Signore e desidererei che a farlo fossi tu – disse, rivolgendosi al suo secondogenito, l’unico maschio, – perché oggi hai compiuto un passo importante, ti sei avvicinato a nostro Signore, hai mangiato la sua stessa carne nella tua prima eucarestia e lo hai fatto da uomo e come tale vai trattato. – Il piccolo lo guardò quasi incredulo, la sua speranza si era avverata e le poche parole che si era preparato da dire, ora potevano liberarsi. Lui lo incoraggiò con un sorriso, uno dei pochi che a memoria gli avesse mai concesso – forza, comincia, prima che si freddi.
Il sorriso di rimando di sua madre era come quelli che vedeva sui volti delle riviste che teneva ordinatamente impilati sotto il mobiletto del TV, o come quelli delle ragazze nei poster, quando lei lo portava dalla parrucchiera e lui rimaneva seduto ad aspettare che quelle donne si conciassero la testa, con strani e vorticosi giri di capelli e ciocche adornate da nastri colorati. Quel vezzo sembrava disegnato sul suo viso, tirato con le molle e carico di attesa e tensione, proprio come quello che aveva quando, quella stessa mattina, era stato chiamato per ricevere la sua prima comunione e un attimo prima si era girato a guardarla. Sembrava quasi che stesse per mollarsi e schioccare di botto. Era comunque bella, sua madre, della bellezza che conservano tutte le madri, di quelle che non possono sfiorire nemmeno volendo. Che lascia i figli innamorati e tormentati, sempre con qualcosa di mancato, di non detto, come se fossero costretti a vivere in eterno con un debito troppo grande per essere estinto. La bellezza che le rende le donne più desiderabili del mondo. – Che questo pasto sia il mio vero primo – disse, infine – come una persona nuova che muove passi decisi nel mondo e che possa giovare a tutti voi poterlo condividere con me, in questo importante e glorioso giorno di festa, conferma e consacrazione.
Fu straordinario vedere l’espressione compiaciuta di suo padre, che amava e possedeva il dono della sintesi e quella contratta della madre, distendersi in un liberatorio moto di soddisfazione. Niente schiocco quindi, solo un disteso sorriso. – Amen, figlio mio. – Disse suo padre. “Amen” fecero eco lui e gli altri alla tavola. Dopo quelle parole, l’unanime lode sembrò quasi suonare meglio delle altre volte.
– Bellissime parole, tesoro – disse la madre – non è vero, caro?
– Perfette. Sono state perfette.
– Sì, è proprio così – aggiunse Eva, che da sorella maggiore aveva già vissuto quella esperienza e si sentiva quasi in dovere di dire la sua e di spingere anche la sorellina a complimentarsi col fratello – sono state meravigliose, diglielo Ariel?
– Lo sono state, Luc – disse sbadatamente, – molto belle.
– Non chiamarlo così – esordì il padre, interrompendo subito quel momento di idilliaca aggregazione che si era creato.
– Mi spiace – disse subito, coprendosi la bocca con le mani.
– Vorresti che ti si chiamasse Ari? Vorresti che il tuo nome fosse mutilato, storpiato e che perda il suo significato? Il suo unico e importantissimo significato? Forza, rispondi – le chiese, ignorando del tutto la mano della moglie sul suo braccio.
– No, papà – rispose lei mortificata.
– Bene. Chiedi scusa.
– Scusa papà.
– Non a me, a tuo fratello.
– Scusami, se ho mutilato il tuo nome – disse, con matura coscienza guardando il fratello e manifestando la sua età e sbadataggine l’istante dopo, – ma a me piace di più Luc.
– Non fa nulla – rispose lui – noi siamo gli unici a cui può succedere, a lei non accade mai – disse, indicando la sorella dodicenne alla sua destra.
– Che posso farci se il mio nome non si può storpiare – si difese Eva, punta sul vivo, quasi con tono di giustifica, – è corto ed è bellissimo così.
– Lo è – irruppe il padre, imponendo immediatamente il silenzio – e deve piacerti il suo nome, perché è importante. Tutti e tre avete nomi importanti e meravigliosi. Un uomo è il nome che porta. Una donna è il nome che porta. Il mio nome è Christopher, sapete perché il nonno mi ha dato questo nome? Sapete cosa vuol dire il mio nome?
– Sì – risposero i tre sommessamente, ma vennero comunque ignorati dal padre, che diventava sempre più incalzante e per la centesima volta si preparava a sciorinare eloquentemente la storia di come il vecchio Abraham Graham gli avesse dato il nome che, con estrema fierezza, portava da quasi mezzo secolo.
– Viene da San Cristoforo. La leggenda narra che fosse un cananeo che portò sulle sue spalle nostro Signore Gesù Cristo, quando era un bambino e gli permise di attraversare un fiume. Un uomo grande e grosso, forte e onorevole. Letteralmente vuol dire “Portatore di Cristo”. Capite, non solo portatore del suo corpo, ma del suo stesso fardello, del peso della sua immensa responsabilità. Dell’impegno preso nel rendere questo mondo, l’unico mondo, il migliore possibile. Fatto di persone pure, ligie, senza peccati. Ecco perché dovete capire che ognuno di voi è importante, indispensabile. Che ognuno di voi – disse, puntando verso di loro la forchetta – ha un compito in questa vita e deve portato a termine. È chiaro?
Christopher Graham era nato a Louisville in Kentucky, nel 1939, precisamente sul ponte della famosa Idlwild, meglio conosciuta come la “Belle di Louisville”, un battello a vapore costruito nel 1914 dalla James Rees & Sons Company di Pittsburgh, nello stato della Pennsylvania e donato in seguito alla città di Louisville per la tratta che collegava il parco dei divertimenti di Fontaine Ferry e Rose Island. Sua madre, che precorrendo i tempi fino a quella data aveva lavorato allo Zoo della città, nell’ormai ex Senning’s Park, vicino Iroquois Park, era stata licenziata a causa della sua chiusura e, nonostante il marito non fosse del tutto d’accordo perché lei era incinta, aveva trovato lavoro proprio sulla Belle. “Se fare la schiava per i turisti è quello che vuoi, non sarò certo io a fermarti” le aveva detto il marito, che nonostante fosse definibile come un uomo d’altri tempi, forse per temperanza o perché l’America stava cambiando sé stessa e quindi i suoi figli, aveva mollato la presa. Lì, il venti di un mattino di maggio, proprio sul ponte di poppa, diede alla luce il suo secondogenito. Fu come se uscire dal corpo della madre fosse stato, per Christopher, la cosa più semplice del mondo e al contempo lo stesso fu per Mary. Nessun segnale, nessun preavviso. Non aveva avvertito nessuna contrazione e nessun liquido era fuoriuscito da lei per darle un qualche segnale, o più probabilmente non se ne era nemmeno accorta. Semplicemente getto il bastone con lo straccio bagnato da una parte, si coricò sul ponte tenendosi la pancia, chiamò aiuto e due minuti dopo suo figlio le gridava tra le braccia.
Abraham, invece, suo padre, era un veterano della Prima guerra mondiale e aveva lavorato per la Curtiss-Wright Aircraft Company, assemblando aerei da guerra, quando a seguito della fine del conflitto e della conseguente espansione del mercato, l’azienda venne venduta alla International Harve-ster, rinomata fabbrica di attrezzature e macchinari agricoli. Un po’ di tempo dopo, approfittando del periodo e degli incentivi, comprò qualche terreno e decise di mettersi in proprio. Fu una vera e propria scommessa, vinta contro il parere di quasi tutti i suoi amici, gli unici a non voler vedere le opportunità che il paese offriva. Inizialmente, come previsto, non fu semplice far quadrare i conti, ma grazie alla sua ostinata caparbietà, nel giro di poco tempo, riuscì a far fruttare il suo lavoro.
Fino all’età di ventitré anni Christopher tenne insieme alla madre una bancarella nel rinomato Haymarket, poi a seguito della sua chiusura decise di investire i suoi guadagni e quelli del padre, nella coltivazione di tabacco. Abraham non visse molte toccò a lui prendersi carico di tutto, riuscendo a dare alla sua famiglia tutto quello che gli necessitava. Voleva che i figli studiassero e che trovassero il loro posto nel mondo. Ma la sua massima aspirazione l’aveva trovata in Dio, quando prima dei venticinque anni e di sposare sua moglie Rachel, era finalmente diventato Diacono. Era un assiduo frequentatore della chiesa del suo quartiere e col tempo era anche arrivato a gestire una piccola associazione per bisognosi e senzatetto, cosa che lo gratificava sopra ogni altra. Era stato un buon figlio ed era un ottimo padre, anche se a tratti fin troppo austero, ma niente e nessuno veniva prima della sua fede e dei conseguenti insegnamenti che lui, senza remore, dispensava inderogabilmente a tutti.
– È chiaro, papà – rispose Eva.
– Sì, papà – fece eco Ariel – è chiaro.
– E tu, che mi dici – chiese al ragazzo che lo guardava fisso negli occhi.
– Chiaro – rispose lui.
– Perfetto. Adesso mangiamo, anche se si è freddato. Buon appetito.
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