Carmelo Male è spietato, calcolatore e capace di incidere il suo nome nella memoria di chiunque incroci. Quando un debitore non restituisce il denaro, Carmelo non perde l’occasione per recuperarlo a modo suo. È così che Libero Re – vedovo fragile, divorato dalla dipendenza da gioco e dal peso delle colpe – finisce nelle sue mani.
Felice, suo figlio, comprende troppo tardi l’abisso in cui il padre è precipitato, ma non si sottrae: decide di affrontarlo, e da quel momento nessuno dei personaggi che orbitano attorno a questa storia rimarrà immutato.
Le vite di Felice, di Libero, dell’amico d’infanzia Giuliano De Bellis, dell’ispettore Ercole Colonna e degli immigrati Heri e Masha si intrecciano in una spirale di violenza, fragilità e redenzione. Qual è il vero cuore malato? Esiste davvero un cuore buono? E uno irrimediabilmente sbagliato?
Ogni storia converge verso un unico punto. E il finale, quando arriva, non lascia scampo.
Il Male
Una corsa feroce nel prato che dirigeva alla masseria.
Il sole a picco, quello del meridione.
Un inseguito e un inseguitore.
Carmelo scappava in quella landa troppo vasta e dietro suo zio. Un tizio che delinqueva dalla minore età. Si diceva avesse rapporti con le capre e che mancasse di rispetto ai preti e alle forze dell’ordine.
Era l’ennesima corsa a perdifiato di Carmelo. Mai aveva detto nulla a sua madre. E non ne avrebbe parlato mai. Ma le cose a galla ci vengono in un istante. E spesso nell’istante sbagliato.
La sterpaglia attraversata senza attenzione e i graffi sui polpacci.
La terra rossa e incolta come la pelle di Carmelo, bambino trafelato dal calore e dalla fatica, rosso paonazzo. Una quotidianità stanca e svilente. Molti paesani lasciavano per trovare lavoro al nord ma quella terra rossa con edifici bianchi, il mare a tre passi e il sole sempre sopra. Abbandonavano la ruralità alla ricerca della modernità e del benessere. Una strada di catrame e i palazzi di cemento armato.
Carmelo amava lo sterrato, la polvere che a breve avrebbe assaggiato, la masseria, ora in rovina ma che un giorno avrebbe risanato.
Lo zio Vincenzo era un figlio di puttana, veloce assai, anche se beveva. Consumatore accanito di whisky da poche lire. Consumatore di rapporti occasionali strappati con forza. Si diceva avesse rapporti con le capre e che mancasse di rispetto ai preti e alle forze dell’ordine.
Quel che non si diceva è che violentava i bambini del paese e spesso uno di quei bambini era suo nipote.
Lo zio Vincenzo era un figlio di baldracca, forte nelle braccia cresciute della manovalanza edile. Spesso ladro di pollame e scippatore delle monete di turisti capitati nel suo Sud. Aveva avuto screzi con la giustizia ma i carabinieri preferivano evitare il contatto con quel nevrotico e nerboruto. Cinquantenne iroso dava sempre scocciature e agli arresti rispondeva con cazzotti. Poi usciva ed era peggio. Senza troppa attenzione sarebbe divenuto un elemento caratteristico del paesaggio. Tutto sarebbe scorso. Gli abitanti avrebbero accettato ed evitato se possibile. È come sapere che in quella campagna corre un cane senza catena, che digrigna e morde. Che t’insegue.
«Tu la eviteresti quella campagna, no?» Così i carabinieri pensavano che la gente avrebbe evitato Vincenzo. Si diceva avesse rapporti con le capre e che mancasse di rispetto ai preti. Sicuramente mancava di rispetto alle forze dell’ordine.
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Lo zio Vincenzo, fetido e fetuso, noncurante della sua pulizia. Trasandato in volto, sconquassato da una barba irsuta e ispido anche nei capelli scuri con riflessi rossicci. Masticava spesso uno stecchino da denti che sputazzava per terra. Una poltiglia di legno. Poi rideva, fragoroso e con qualche dente nero. Con alito marcescente. Un pastore lo aveva veduto nei pressi del gregge. Pensandolo capace di un furto lo aveva seguito e preso sul fatto. Con le braghe calate stava inchiappettando una capra. Si lamentava lei e godeva, di un godere atavico e perfido, lui. Il pastore l’aveva insultato, con improperi che avrebbero destato il cattivo dall’atto sessuale. Vincenzo, senza raggiungere coito, aveva estratto il pene dal giaciglio del piacere. Sollevatosi i pantaloni sudici era corso incontro al povero. Gli aveva fatto ingerire tanti denti quanti gli insulti ricevuti. «Ricorda bene, io sono il Male!» aveva sostenuto. Il pastore sdraiato sulla superficie poco fertile del pascolo non aveva inteso la sottigliezza. Lui si chiamava Vincenzo Male. Si diceva mancasse di rispetto ai preti e alle forze dell’ordine. Sicuramente aveva rapporti con le capre.
Lo zio Vincenzo piccino in quella landa troppo vasta. Una corsa feroce nel prato che dirigeva alla canonica. Il sole a picco, quello del meridione. Inseguito. Un prete dietro. Un prete veloce assai perché non beveva alcolici, forte nelle braccia cresciute della manovalanza offerta al Signore Padre. Lo aveva braccato e non era la prima volta. E gli aveva ispezionato l’ano. Lo sentiva Vincenzo, lo sentiva con dolore. L’altro godeva, di un godere atavico e perfido. Lui non si lamentava più.
«Io non temo Dio e non ho riguardo per nessuno!» così gli aveva gridato Vincenzo. Piangente era scappato per ritornare giorni dopo. Con un coltello lungo abbastanza per ferire. Aveva preso in disparte il porco. Appoggiatagli la lama ai coglioni aveva pronunciato: «Da oggi non toccherai più nessuno. Altrimenti, per quanto è vero Iddio, ti taglio le palle e piano piano te le faccio mangiare». Non c’era bisogno di capire che il piccolo non scherzava. Il prete, terrorizzato, aveva annuito tremante come un frutto maturo chiamato a cadere dalla pianta dalla forza di gravità. Andandosene si era girato: «Ricorda bene, io sono il Male!». Il pastore di Dio, sdraiato sulla superficie poco fertile del sagrato, aveva inteso la sottigliezza. Lui si chiamava Vincenzo Male. Non si diceva ancora che avesse rapporti con le capre e che mancasse di rispetto alle forze dell’ordine. Sicuramente però, da quel momento, mancava di rispetto ai preti. E con certa ragione.
Carmelo amava lo sterrato, la polvere che a breve avrebbe assaggiato, la masseria, ora in rovina ma che lui un giorno avrebbe risanato. Lo zio lo aveva braccato e non era la prima volta. E gli aveva ispezionato l’ano. Lo sentiva Carmelo, lo sentiva con dolore. L’altro godeva, di un godere atavico e perfido. Lui non si lamentava più. Piangente non era scappato per ritornare giorni dopo. Il coltello, lungo abbastanza per ferire, era già in suo possesso. Non occorreva cercarne uno. Quel pugnale era tra gli attrezzi, nella cassetta da lavoro. Era di suo zio. Prenderlo in prestito non era stato difficile. Non sapeva ancora che non avrebbe fatto in tempo a riporlo. Avrebbe voluto prendere in disparte il porco, appoggiargli la lama ai coglioni e pronunciare: «Da oggi non toccherai più nessuno. Altrimenti, per quanto è vero Iddio, ti taglio le palle e piano piano te le faccio mangiare». Una storia già vissuta da quel coltello. Ma Carmelo non sapeva. E continuando a ignorare aveva affondato tra le coste dello zio quella lama che portava ricordi. Ricordi segreti.
Quella lama ora era l’arma del delitto. Prima che lo zio svanisse, Carmelo gli aveva detto: «Ricorda bene, io sono il Male!». Il miscredente, sdraiato sulla superficie poco fertile del prato che dirigeva alla masseria, aveva inteso la sottigliezza. Lui si chiamava Carmelo Male e aveva ucciso suo zio Vincenzo, un uomo che si diceva avesse rapporti con le capre e che mancasse di rispetto ai preti e alle forze dell’ordine.
Quel che non si diceva è che violentava i bambini del paese. E spesso uno di quei bambini era suo nipote.
La faccia dello zio si era spenta in un digrigno sorridente. Sapeva lo zio che quell’attimo era un passaggio di consegne. Un’eredità. Che sarebbe durata un’altra vita.
Di Male in Male. Ora era la vita di Carmelo.
Carmelo avrebbe scontato il suo peccato capitale in un carcere minorile. Nessuno lo avrebbe toccato in modo invasivo. Nessuno lo avrebbe toccato.
Lui ora era il male.
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