In principio, questo libro era destinato a essere un semplice diario. Un raccoglitore di memorie, forse per i miei figli, forse solo per me stesso, come un frammento del passato da riscoprire nella vecchiaia. Niente di più.
Ma il tempo, imperscrutabile e mutevole, mi ha condotto su un’altra strada. Ho ascoltato racconti, storie di chi ha vissuto su questa isola e in qualche modo ne ha segnato il cammino. Le loro parole si sono impresse nella mia mente, ogni dettaglio, ogni sospiro, ogni silenzio colmo di significato.
Ed è così che il mio scopo è cambiato.
Non più un diario, ma un testimone.
Non più il mio racconto, ma il loro.
Perché il mondo deve sapere.
Ogni storia narrata in queste pagine appartiene a chi ha attraversato Orirm, a chi vi ha lasciato un segno. Alcune vi sembreranno reali, altre così incredibili da sfidare il confine tra verità e leggenda. Eppure, tutte provengono dai loro racconti.
Ecco perché solo alla fine inserirò la prima pagina del mio diario, quella che sarebbe dovuta essere la prefazione originale. Perché la storia, dopotutto, non inizia mai quando crediamo. Si intreccia nel tempo, si nasconde tra gli attimi, sfugge alla logica lineare degli eventi.
Il tempo è relativo, si dice.
Ma qui, su Orirm, è qualcosa di ancora più insondabile.
A voi che vi accingete a leggere, sappiate questo: solo il tempo, quel maestro silenzioso e implacabile, vi offrirà le risposte che cercate.
E ricordate, la fretta non è mai una buona consigliera.
Buona lettura.
Capitolo 1
Aldemair
130° Anno Novis, 1 Luglio
Il cielo di Aldemair è solitamente grigio.
Un velo di nubi perenni avvolge la città in una luce opaca e malinconica.
Le due vette che la sovrastano, sempre ricoperte da uno strato di neve perenne, spesso scompaiono tra la foschia, lasciando intravedere solo sagome sfocate nel freddo abbraccio del vento dei monti.
Solo due cancelli, uno a est e uno a ovest, interrompono le alte mura di pietra, gli unici varchi che permettono l’accesso alla città. Sono imponenti, rinforzati con metalli scuri e decorati con gli antichi simboli di Aldemair, testimoni silenziosi della sua storia.
Davanti a loro, instancabili sentinelle avvolte in pesanti mantelli sorvegliano ogni movimento, immobili come statue.
A sud, lo sguardo si perde nella vastità della palude di Agostea, un intreccio di acque stagnanti e terre fangose che si estende fino all’orizzonte. La nebbia serpeggia lenta sulla lontana superficie, avvolgendo la vegetazione in un velo di mistero.
Oltre la palude, oltre i suoi silenzi e i suoi pericoli nascosti, l’oceano si estende senza fine. Da lassù, l’orizzonte appare lontano, irraggiungibile, un manto statico che custodisce segreti e promesse.
La città si sviluppa in tre anelli sovrapposti, ciascuno scolpito nella roccia della montagna, come terrazze che si affacciano sul mondo esterno. Ogni livello è un’immensa spianata scavata con precisione, con edifici e strade che seguono la curvatura naturale della montagna.
Non ci sono scalinate a collegare i piani, solo due seggiovie, poste ai lati opposti di ogni anello, che si muovono senza sosta, trasportando abitanti e merci in un flusso continuo, come vene che pulsano nel corpo della città.
Sopra di essa, tra le due vette imponenti, si estende un ghiacciaio antico, un colosso di ghiaccio eterno che si insinua tra le cime come una creatura dormiente. È da lì che nasce la cascata, un fiume scintillante che si getta con fragore lungo il fianco della montagna. Dal terzo anello precipita al secondo, e poi ancora giù fino al primo, dove si divide in tre getti minori, che si riversano oltre il bordo della montagna, scomparendo nell’infinito. La loro voce riecheggia tra le pareti rocciose, un ruggito costante che si mescola ai suoni della città, ricordando a chiunque vi abiti la forza indomabile della natura.
Le case si alternano in un equilibrio affascinante tra passato e presente: eleganti strutture in legno, con balconi ricchi di decorazioni intagliate e tetti spioventi, si affiancano a abitazioni più vecchie, solide e austere, fatte di pietra grigia, segnate dal tempo ma ancora imponenti.
Le strade principali, lastricate di sanpietrini disposti con precisione, attraversano la città come arterie pulsanti, mentre vicoli stretti e irregolari si diramano ai lati, formando un intricato labirinto che nasconde piccoli mercati e botteghe.
Ma in questo primo pomeriggio, tra quelle stesse strade, c’è qualcosa di diverso.
Dopo lunghe settimane grigie, il sole illumina finalmente la città e le sue vette, ma non porta con sé la solita gioia.
Le vie sono affollate, ma non di quella vivacità che di solito le anima. La maggior parte della gente si muove con passi svelti, i volti tesi, le mani impegnate a ripulire negozi e abitazioni con gesti più meccanici che sentiti. Solo pochi, come alcuni bambini, sembrano immuni a quell’aria pesante, ridendo e correndo tra la folla, ignari dell’inquietudine che serpeggia nell’aria.
Nell’anello più basso, una massa scarlatta si muove compatta verso la prima seggiovia, un flusso denso e inarrestabile che scorre come un fiume lungo il centro della città.
Tra il movimento uniforme, emergono figure avvolte in pesanti cappe dello stesso color del sangue.
Le guardie della BEQ, le guardie di Orirm.
Una gendarmeria nata con il proposito di ricostruire un’isola spezzata e devastata dalla guerra.
Tra le guardie provenienti dall’entrata ovest, un piccolo nano si fa notare per il suo aspetto unico e il portamento sicuro.
La sua lunga barba castana, intrecciata con cura, ricade sul petto come un emblema di orgoglio e tradizione. I capelli dello stesso colore, lunghi e spessi, sono raccolti in una crocchia stretta sulla nuca, rivelando una praticità che contrasta con il suo aspetto apparentemente burbero.
I suoi occhi neri, profondi e vigili, analizzano con meticolosità ogni edificio e ogni movimento intorno a sé, come se volesse memorizzare ogni dettaglio in caso di necessità. Sul volto, ruvido e segnato da anni di lavoro, spicca un naso a patata, un po’ lucido e leggermente arrossato dal freddo pungente della montagna.
Il suo armamentario, coperto dalla cappa scarlatta, racconta una storia diversa da quella di un tipico soldato. Indossa due grossi guanti metallici color sabbia, visibilmente consumati dall’uso ma ancora robusti, testimoni di un passato fatto di fatica piuttosto che di battaglie. La sua armatura, più che da combattimento, ricorda quella di un minatore: pesante e resistente, segnata da ammaccature e graffi, progettata più per affrontare condizioni difficili che per incutere timore.
Ogni pezzo porta i segni di un lavoro duro, riflettendo la natura pragmatica e osservatrice del nano.
Dietro di lui, con un passo vivace e leggero, segue un halfling minuto, la cui figura agile e dinamica contrasta nettamente con quella solida del suo compagno.
I capelli biondicci, corti e arruffati, sembrano sfidare ogni tentativo di ordine, conferendo un’aria ribelle e giocosa. Gli occhi castani, vivaci e curiosi, si spostano incessantemente, catturando ogni dettaglio con una rapidità quasi infantile.
Sul suo viso, una spruzzata di lentiggini attraversa il naso e le guance, donandogli un’espressione giovane e spensierata, bilanciata da un sorriso furbo che sembra pronto a cogliere ogni occasione.
L’abbigliamento che si intravede della piccola figura è semplice, privo di fronzoli, quasi da paesano. Gli abiti, pensati per la comodità più che per l’eleganza, trasmettono un senso di praticità che ben si sposa con la sua leggerezza. Tra le mani tiene un lungo stocco, sottile ed elegante, che ondeggia con ogni passo, accompagnando i suoi movimenti con disinvoltura.
Il modo in cui cammina, con spavalderia e un pizzico di noncuranza, suggerisce un atteggiamento sempre pronto a sdrammatizzare qualsiasi situazione.
Insieme, i due compagni creano un contrasto curioso. Eppure, nel loro camminare fianco a fianco, si percepisce un’intesa profonda, quasi naturale, che li rende complementari, pur nelle loro evidenti differenze.
Dall’ingresso a est, invece, si fa strada un uomo magro, dal viso scavato e dai lineamenti affilati, segnati dalla stanchezza o forse dagli anni.
Il suo naso sottile, leggermente aquilino, gli dona un’aria severa, quasi implacabile. I capelli neri, rasati sulla sommità e lasciati lunghi ai lati, ricadono con disordine fino alle orecchie, incorniciando occhi verdi come le oasi nel deserto, che si muovono appena, osservando distrattamente le persone intorno a lui senza mai soffermarsi davvero.
I suoi movimenti, rigidi e meccanici, sembrano quasi innaturali, come se ogni gesto fosse studiato e controllato all’estremo. Sotto la cappa scarlatta della BEQ, indossa un abbigliamento insolito: tuniche e tessuti leggeri che ricordano quelli di un viandante del deserto, logori ma funzionali, e adatti a resistere alle condizioni più avverse.
Alla cintura porta due sciabole dalla lama curva, che oscillano con ritmo misurato a ogni suo passo. Il loro bagliore spento tradisce un utilizzo frequente, segno di una lunga familiarità con il combattimento.
L’uomo si mantiene distante, il suo sguardo, serio e vagamente ostile, non cerca alcun contatto con la folla che lo circonda, come se preferisse che la sua presenza passasse inosservata.
Come ultimi ad arrivare, i tre soldati si posizionano in fondo alla folla, cercando di non attirare l’attenzione.
Si dispongono uno accanto all’altro, mantenendo uno sguardo attento e vigile sulla scena davanti alla seggiovia, come a studiare l’ambiente e il ruolo che dovranno ricoprire in quella nuova realtà.
Tra la calca in movimento, una figura emerge con passo sicuro, dominando la folla con la sua sola presenza. È un’orchessa imponente, dalla pelle verde scuro e dai capelli rosso fuoco, rasati su un lato e lasciati cadere liberi dall’altro. Ogni suo passo è una dichiarazione di forza, ogni movimento un comando silenzioso.
La cappa scarlatta che le avvolge le spalle si muove con lei, ornata da ricami intricati che ne sottolineano il rango. Ai fianchi, due lunghe spade riposano nei foderi, il metallo consumato dal tempo ma letale come il giorno in cui furono forgiate. Sul suo volto, nessun dubbio, nessuna esitazione: solo una determinazione feroce, quella di chi è abituato a farsi strada non con le parole, ma con l’acciaio.
Giunta al centro della folla, solleva un braccio in un gesto rapido e fermo. Un segnale muto, ma più efficace di qualsiasi ordine urlato. Attorno a lei, i soldati si irrigidiscono all’istante, il caos della folla si smorza, come un mare che si ritrae davanti alla tempesta.
Per un attimo, tutto è immobile. Poi, ai margini del gruppo, il mormorio si rialza improvviso, stridendo contro quel silenzio imposto. Un urto, un passo incerto, e la tensione si spezza. Qualcuno, nella calca, finisce addosso ai soldati, attirandosi sguardi duri e ringhi di disapprovazione.
Dal groviglio di mantelli scarlatti, una giovane mezzelfa dai capelli ramati emerge trafelata, il respiro spezzato dalla corsa. Il suo slancio si interrompe bruscamente contro le schiene di alcuni soldati, mandandola indietro di qualche passo.
Un attimo prima, era inciampata, colta alla sprovvista.
L’equilibrio l’aveva tradita, e nel disperato tentativo di non cadere aveva finito per travolgere un nano ed un halfling. L’impatto li aveva mandati giù come tessere di un domino, trascinando con sé altri uomini della formazione.
Il caos si propaga in un’ondata irregolare: spintoni, imprecazioni, sguardi carichi di irritazione. Il mormorio cresce, diffondendosi come un fuoco lasciato incustodito, e la tensione nel gruppo si fa più densa.
Il nano e il suo compagno si rialzano borbottando tra loro, scrollandosi la polvere di dosso con gesti irritati.
L’halfling, il più minuto dei due, si volta per primo e alza lo sguardo, osservando meglio la figura slanciata davanti a lui con un’attenzione ora più curiosa che infastidita.
Il suo vestiario cattura subito l’occhio: un corpetto di pelle, modesto ma ben curato, che le avvolge il busto con un’eleganza sobria, in contrasto con la camicia chiara sotto di esso, leggermente sgualcita e con qualche segno d’usura. Ogni dettaglio sembra raccontare di qualcuno abituato al movimento tra praticità ed esigenza di farsi notare.
Sulle spalle riposa una lira, dall’aspetto vissuto, le corde consumate e la superficie segnata dal tempo. Lo strumento sembra quasi parte di lei, come se il suono delle sue corde fosse legato indissolubilmente alla sua essenza.
Poi lo sguardo del halfling risale al volto della mezzelfa, per rimanere affascinato dai suoi tratti delicati, incorniciati da onde disordinate di capelli rossi brillanti come fiamme. I suoi occhi castani, profondi e intensi, si muovono rapidamente, scivolando da un punto all’altro come se cercassero di orientarsi. L’espressione sul suo viso è vaga, smarrita, e porta con sé un senso di inquietudine trattenuta, che non riesce a nascondere completamente.
C’è qualcosa di etereo in lei, un contrasto sottile tra la bellezza luminosa e l’aria confusa di chi sembra perso. L’halfling le sorride dolcemente, come già ammaliato da quella presenza.
Poi, senza pensarci troppo, rompe il silenzio con tono diretto: “E tu, chi diavolo sei?”
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