I rami si piegano verso il terreno a causa del peso delle castagne che crescono e maturano.
Seduta sul tetto ammiro la vita della natura: gli alberi ondeggiano al sospiro del vento creando una danza quasi tribale, a volte mi sembrano tremare nella temperatura più fresca di settembre.
Fra le mani una sigaretta… è assurdo come una cosa che potrebbe uccidermi sia anche l’unica che mi ricorda che sono capace di respirare.
Una leggera brezza mi scosta i capelli lunghi, che solleticano il collo scoperto suscitando piccoli brividi sul tutto il corpo.
Mi stringo nella felpa per tentare di placare il tremito. “Ludovica?
La voce di mamma arriva dalla la finestra, per poi dissolversi nelle onde sonore del vento. “Arrivo”.
Con poca agilità mi alzo, facendo attenzione a dove metto i piedi mentre rientro dalla finestra della camera. “Eccomi mamma, cosa succede? Che ci fai qui?”
“Sono venuta a darti una mano. Sono due settimane che ti sei trasferita e ancora devi disfare la metà degli scatoloni”.
Sposto lo sguardo sulla stanza in disordine alle spalle della mamma, consapevole del lavoro che devo ancora fare.
“Hai ragione, grazie. Ma le chiavi di casa te le ho date per le emergenze, non puoi entrare a tuo piacimento”. Mamma mi sorride intimidita, colpita in pieno dalla mia osservazione.
“Hai ragione, scusami. Ma devo ancora abituarmi a questo cambiamento”.
Facciamo entrambe un passo avanti, nello stesso momento, per un abbraccio consolatore; poi ci dirigiamo nell’ampio salone.
Gli scatoloni sono adagiati uno sopra l’altro nell’angolo tra il divano e l’enorme finestra che dà sul giardino interno.
La casa è ancora del tutto spoglia, solo le poche cose essenziali per la sopravvivenza sono ben ordinate al loro posto.
Mentre cerco di collocare mentalmente i vari oggetti che tireremo fuori, mamma mi prende alla sprovvista con le sue domande.
“Allora, sei pronta per domani?”
Inizio a muovermi nel salotto facendo finta di sistemare alcune cornici, e soprattutto dando l’impressione di non aver sentito.
“Allora?”
“Un po’ nervosa, ma sono pronta. Certo, non è il lavoro dei miei sogni… però come inizio non c’è male”. Non è vero, sono terrorizzata.
I cambiamenti mi rendono ansiosa, lo avverto anche a livello fisico.
Sono stanca e irrequieta allo stesso tempo, le tempie non smettono di pulsare ricordandomi senza sosta della pesantezza della testa rispetto al resto del corpo.
L’idea di dover conoscere altre persone e interagire con loro mi mette a disagio, lei questo lo sa. Inizio a pensare che quella di aiutarmi a disfare i bagagli sia una scusa bella e buona.
“Dai, Luca lo conosci da una vita e sai che è una persona in gamba e molto professionale.
Inoltre lavorerai in una delle scuderie più famose d’Italia, e per un pilota altrettanto importante! Vedrai che andrà bene”.
Alzo la testa e incrocio lo sguardo di mia madre.
Le sorrido costringendomi a essere il più sincera possibile, a credere che abbia ragione.
Per quanto io e lei possiamo somigliarci fisicamente, dai capelli ambrati agli occhi color cioccolato e alle fossette sulle guance quando ridiamo, abbiamo caratteri del tutto diversi.
Lei solare e positiva, io introversa e incazzata sempre con il mondo che mi circonda.
Comunque, dire che conosco Luca è una bella cavolata per cercare di calmare i miei mostri: ci siamo visti in occasioni sporadiche di qualche cena di ricorrenza, lui insieme alla sua ordinaria e composta famiglia e io in disparte con i miei amati libri fra le mani.
Le nostre famiglie si conoscono da tempo, mio padre in passato ha lavorato presso la ditta edile del papà di Luca, si frequentavano spesso, ma io ero già abbastanza grande per restare rintanata in camera immersa nei miei libri mentre lui sempre impegnato in pista per allenamenti a mio parere strazianti.
Avremo scambiato due parole al massimo.
“Ma sì mamma, stai tranquilla. È solo un po’ d’ansia per il primo giorno”. Lei abbassa lo sguardo prendendo il servizio di piatti nuovo dell’Ikea. “Questo dove lo vuoi sistemare?”
E come se nulla fosse, o forse per non aumentare la mia apprensione, cambia discorso.
“Io direi di riporlo nella credenza. Lo userò quando avrò ospiti, per me e Ninfea non serviranno piatti così sontuosi”.
Mamma si guarda attorno nella stanza, come se si fosse improvvisamente accorta che manca qualcosa. “Sì, certo… a proposito, dov’è? Non è venuta neanche a salutarmi quando sono entrata.
Ninfea? Ninfea?”
Da lontano sentiamo il rumore di un balzo, e poi quello di piccole zampette che ticchettano sul parquet color mogano.
Dopo qualche secondo il suo dolce e tenero musetto a macchie bianche e marroni fa capolino dalla porta del salone; mamma rimette i piatti nello scatolone e la prende in braccio.
“Ecco la principessa di casa! Dov’eri, ché non ti trovavo? Ma soprattutto chi è il cagnolino più bello del mondo?”
Mentre Ninfea inizia a leccare la guancia di mia madre, io ne approfitto per versarmi un bicchiere d’acqua. “Era sul tetto insieme a me. Bella acciambellata al sole”.
Mamma scuote la testa contrariata.
“Cosa ci troverete di divertente a salire sui tetti, ancora non lo capisco”. Mi avvicino a loro per abbracciarle.
“Da lì possiamo osservare il mondo, ma il mondo non può osservare noi”. Mamma ride di gusto.
“Chiaro, non vorrai rischiare di incontrare qualche essere umano! Menomale che Ninfea ti somiglia”.
Già. Perché lei, esattamente come me, non è molto propensa alla compagnia di altri esseri viventi, che siano animali o persone. Solo mamma e papà hanno il privilegio di coccolarla, come hanno il permesso di coccolare me.
Ninfea è entrata nella mia vita per puro caso. O forse no.
Due anni fa sono caduta in un tunnel davvero oscuro: dopo la pandemia, l’ansia e gli attacchi di panico mi stavano divorando dall’interno.
Non tanto per il Covid, ma per il fatto che piano piano potevamo tornare a uscire di casa e riprendere la vita di sempre.
Nella mia camera avevo trovato il mio porto sicuro, le persone che amavo erano sempre intorno a me e avevo tutto il tempo per poter leggere e scrivere a piacimento… in quel momento non mi rendevo conto dello stress che stavo accumulando. Non capivo quanto fosse innaturale obbligare la mente ad accettare quella situazione.
Il periodo del lockdown è stato facile, ma poi è arrivata l’oscurità.
Anche le piccole commissioni che mamma mi forzava a fare sembravano insormontabili: il fruttivendolo sotto casa, il panettiere dietro l’angolo. Per me erano ostacoli terribili.
Mi sentivo in trappola nel mio stesso corpo.
Mi mancava l’aria, tutto intorno a me pareva restringersi, soffocarmi.
Mi bloccavo ovunque, che fosse su una strada, in un parco, o davanti alla porta di casa. Le gambe smettevano automaticamente di obbedire ai miei ordini.
Lo stomaco diventava un covo di rami spinati che spingevano contro i miei polmoni perforandoli. E la notte, la mia peggior nemica, quando i pensieri si tramutavano in incubi intollerabili.
Poi …
Come per magia ho incontrato il suo musetto, nascosto tra i secchi della spazzatura. I suoi occhi proiettavano tristezza, sofferenza e solitudine.
Sembravano i miei.
Mi ha dato la forza di uscire di casa per prendermi cura di lei.
Visite dal veterinario, passeggiate nel parco. Più lei stava bene e si riprendeva dandomi fiducia, più io guarivo.
È strano come la vita ci regali doni inaspettati.
È quasi spaventoso, a pensarci bene: avevo bisogno di lei esattamente quanto lei aveva bisogno di me, si rifletterono. Io ho visto me, lei ha visto se stessa come in un perfetto specchio.
Non è stato facile tirarla fuori da lì, più mi avvicinavo più lei indietreggiava, ma questo non mi ha abbattuto, non avevo nessuna intenzione di lasciarla li.
Piccole gocce di pioggia cadevano dal cielo, quasi impercettibili, di quelle sottili che penetrano direttamente nelle ossa e lasciano il segno il giorno seguente.
Non avevo l’ombrello, non ce l’ho mai in realtà.
Mi misi seduta mentre l’odoro d’immondezza bagnata si faceva strada nelle mie narici, ma rimasi lì. Ci vollero almeno tre ore. Ma alla fine si avvicinò il giusto per poterla afferrare e portare via con me. Da quel giorno non ci separiamo mai.
Insieme abbiamo affrontato l’inferno per poter ricominciare.
Mentre finiamo di sistemare gli ultimi oggetti in salotto, qualcuno suona il campanello. Notando come Ninfea scodinzola eccitata, capisco che è papà.
“Amore, come stai? Ho visto che mamma non era in casa e sapevo dove trovarla”. Sporge la testa di lato per spiare sopra la mia spalla.
“Elisabetta Cristof, la prossima volta che sparisci da casa sei pregata di lasciare un biglietto”. Mamma ride sotto i baffi.
“Ma smettila, ti ho avvisato che sarei venuta qui. Solo che stavi dormendo.”
Ridiamo tutti e tre di gran cuore, mentre Ninfea saltella sulle zampe posteriori cercando l’attenzione di mio padre.
1
Analizzo ciò che vedo.
Una sagoma davanti a me copia i miei movimenti, prima un braccio, poi l’altro. La testa piegata leggermente di lato.
Sono io, ho meglio l’involucro che mi contiene, non rispecchia per niente ciò che sono. Mi tocco, come per accertarmi che sono io.
“Cavolo, quanto non mi piace questo contenitore”.
I jeans calzano, la camicetta bianca ben stirata copre abbastanza le forme del corpo; ai piedi però ho due scarpe differenti: sposto il peso da un fianco all’altro, indecisa su quale modello indossare.
Lo stivaletto dona meglio, secondo me, anche se la scarpa da ginnastica è decisamente più comoda.
Alzo di nuovo lo sguardo per osservarmi a figura intera, ma dopo un istante vengo colta dallo smarrimento. Mi sento così distorta, un puzzle mal montato, come se alcune parti del mio corpo non mi appartenessero. Due esseri assemblati in uno.
La me interiore non corrisponde all’immagine riflessa nello specchio.
Ho l’impressione di essere chiusa in una scatola troppo stretta, ingabbiata in un contenitore che non è il mio.
Eppure sono qui.
I movimenti e le azioni sono sotto controllo, il corpo obbedisce alla mia mente.
Eppure non riesco a togliermi dalla testa quella irrefrenabile voglia di uscire da questo involucro e fluttuare nell’aria.
Libera, nello spazio, senza restrizioni corporee. Senza limiti.
Chissà cosa proverei… Chissà se la sensazione di sollievo sarebbe la stessa che immagino.
Scosto leggermente il polsino e controllo l’ora. “Cazzo è tardissimo!”
Senza pensarci troppo afferro la borsa nera che ho scelto per l’ufficio, abbastanza capiente da contenere metà della casa in cui vivo, e mi dirigo verso la porta.
Cerco le chiavi nell’ammasso di carte, fazzoletti e tessere della metro che vagano nella borsa, poi con una rapida occhiata mi accorgo di avere ancora addosso le scarpe spaiate.
“Oddio”.
Ritorno in camera, consapevole che arriverò al mio primo giorno di lavoro in ritardo e già completamente sudata.
Appisolata sul letto, Ninfea mi osserva incuriosita e confusa.
Muove la coda timorosa, non capendo se deve farmi le feste perché sono rientrata o se semplicemente è il momento delle coccole, così la accontento con una carezza veloce mentre tento di togliermi lo stivaletto e infilare la scarpa da ginnastica.
A volte vorrei essere come lei: vivere un’esistenza senza tempo ed essere felice per i gesti più piccoli, riuscire a perdonare le mancanze di chi mi sta vicino, percepire solo l’amore che mi circonda.
Invece no.
No, noi siamo molto più complessi; ci complichiamo la vita perché non siamo capaci di essere felici. Cerchiamo costantemente una meta o una nuova sensazione di appagamento, anche se abbiamo già ottenuto ciò che desideravamo: perché accettare una conquista, accettare un traguardo, forse è più difficile e doloroso che superare un fallimento.
“Ciao cucciola, ci vediamo stasera”.
Con le scarpe giuste, le chiavi in mano e la consapevolezza del mio ritardo, mi affretto a uscire per prendere finalmente la metro.
Quando ho deciso di acquistare la casa non ho tenuto conto della distanza dalla città.
Mi sono follemente innamorata delle stradine piene di alberi e di verde, della pace di una casa in periferia. La mattina mi sveglio con il canto degli uccellini, come se fossi stata catapultata in una fiaba; e le risate dei bambini che giocano nel parco mi accompagnano per tutta la domenica pomeriggio durante il weekend. Anche Ninfea era felice quando siamo venute a vedere la casetta, finalmente poteva saltellare nell’erba bagnata di rugiada e rincorrere gli scoiattoli che popolano gli alberi del giardino.
Ma, adesso che mi tocca affrontare un’ora di viaggio e fare a gara contro il tempo che sembra prendersi gioco di me, devo ammettere che forse non è stata un’idea geniale come credevo.
Per raggiungere la metro devo anche percorrere un breve tratto con l’autobus.
Più che un viaggio, assomiglia a una guerra di logoramento; chi arriva illeso all’ultima fermata vince la battaglia.
I posti a sedere sono oasi nel deserto del Sahara: esistono, però sono pochi e in genere già occupati. “Mi scusi, grazie mille. Oh, mi scusi!”
Sono le uniche parole che si scambiano i pendolari. Un vocabolario ristretto, ripetuto all’infinito. Per non parlare dei meravigliosi odori che colpiscono i nostri nasi alle sette di mattina: ci si aspetterebbe un dolce
profumo di cornetti appena sfornati e l’aroma inconfondibile del caffè, invece siamo circondati dal greve odore di corpi sudati e ammassati. Come su un campo di battaglia, appunto.
Tra uno spintone, qualche parola di scusa e varie acrobazie per evitare la folla, finalmente arrivo alla metro. Come mezzo di trasporto lo preferisco, è più spazioso e veloce.
Mi siedo, metto le cuffiette; le note di una canzone conosciuta mi avvolgono, spegnendo il ronzio del convoglio. Ed ecco che la musica fa il suo solito miracolo. Mi porta via.
Non dimenticherò mai una conversazione avuta con una signora quando ero piccola e prendevo il treno per andare a scuola.
Eravamo sedute una di fianco all’altra. Stremate dopo una giornata di lavoro e studio, entrambe fissavamo l’interno della carrozza con sguardo assente mentre ciondolavamo al ritmo del treno…
Il telefono della signora squilla, un suono forte che fa girare tutte le persone verso di noi. “Pronto? Sì, sto arrivando. Ma no, non serve che mi accompagni domani… prendo il treno. Va bene, a dopo”.
Uno scambio veloce, che per qualche motivo mi spinge a dirle: “Fossi in lei accetterei il passaggio in auto”. Non dovevo impicciarmi, lo so, ma non intendevo essere impertinente: le parole mi sono uscite di bocca da sole.
A quel punto la signora fa un piccolo sorriso e mi guarda. Ha gli occhi di un turchese spento, solcati da profonde macchie scure. Qualche ruga le increspa il viso, sebbene sembri ancora piuttosto giovane.
“Sai, mia cara, il treno ha un dono speciale. Pochi riescono ad apprezzarlo, però se lo trovi e impari a usarlo non ne farai più a meno”.
La mia espressione è un po’ cupa, ma anche incuriosita. “In che senso?”
“Nel senso che qui hai il tempo di pensare”.
Lo dice lentamente, sottovoce, come se mi stesse rivelando il segreto del secolo.
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