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ANGELO SCURO – Il serto del male

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Consegna prevista Marzo 2026
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Il protagonista è un vice ispettore molto particolare: un reietto per trascorsi che lo hanno segnato profondamente, compromettendone la carriera.
Abita in periferia ed è attratto dalla sua padrona di casa di cui si innamorerà.
Lo attendono incontri imprevedibili che avvieranno notevoli cambiamenti nella sua esistenza; il suo monotono lavoro subirà importanti variazioni quando verrà spostato dal lavoro di ufficio e rimesso nel servizio investigativo, qui troverà un commissario e colleghi con cui inizierà un rapporto difficile dalle conseguenze non sempre positive.
La prima indagine importante riguarderà il ritrovamento di ossa umane in un campo incolto; partirà un’investigazione assai complessa con risvolti inquietanti, molti i colpi di scena aventi sviluppi paranormali, a preludio di un finale inaspettato.

Perché ho scritto questo libro?

Mi sono voluto cimentare nella scrittura di un poliziesco perché è un genere che mi ha sempre appassionato; la storia, gli intrecci, gli stessi sviluppi dei casi narrati nascondono sempre una visione del male inedita che ho voluto approfondire. Nel caso del mio romanzo da subito è emersa una dualità tra il bene ed i suoi antagonisti ispirata alla tradizione cristiana con alcune deviazioni verso altre culture, ne è uscito un racconto contaminato da un soprannaturale insolito e particolare.

ANTEPRIMA NON EDITATA

PARTE PRIMA

1

C’era molto caldo e per questo avevo dormito con la finestra  aperta anche se abitavo al secondo piano.

Già verso sera avevo spalancato la porta del poggiolo dell’unica stanza che usavo come cucina e soggiorno per fare corrente con le finestre della camera e del bagno.

La sera spirava una leggera brezza dalle vicine colline che portava una tregua alla calura della giornata.

Non avevo paura dei ladri, sia perché le poche cose che possedevo erano di scarso valore, sia perché abitavo in un quartiere popolare dove vi era ben poco da rubare.

L’appartamento dove alloggiavo per me era comodo in quanto relativamente vicino al mio luogo di lavoro e mi consentiva di recarmici usando la bicicletta che tenevo sul terrazzino, inoltre pagavo un affitto ragionevole e la proprietaria, una vedova di mezza età di nome Giovanna, detta Giò (che abitava al piano superiore), sin da subito mi era risultata simpatica ed attraente.

Quella sera ero andato a letto tardi perché la calura mi opprimeva ed il venticello serale tardava a mitigare l’afa.

Certo, sarebbe stato fantastico avere un climatizzatore, ma potevo contare solo su uno sgangherato ventilatore che emetteva rumori inquietanti, forse presto avrebbe smesso di funzionare e avrei dovuto affrontare la spesa di uno nuovo.

Avevo cenato con degli involtini primavera e un riso cantonese acquistato nella rosticceria cinese sotto casa e mi ero abbuffato di fette di anguria fresche tagliate da un cocomero che risiedeva nel mio frigo ormai da un paio di giorni.

In tivù c’erano i soliti vecchi films farciti di interruzioni pubblicitarie, per cui avevo spento tutto, mi ero preso un libro poliziesco e mi ero seduto su una sdraio che tenevo sul balcone assieme alla bici.

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La lettura era gradevole anche se mi ero dovuto cospargere di lozione antizanzare (che odiavo per la sensazione di unto ed il suo odore particolare) per non passare la sera a grattarmi, il lampione vicino forniva la luce necessaria.

Dopo poco mi ero appisolato e un rumore improvviso, forse la marmitta irregolare di uno scooter, mi aveva fatto sobbalzare, vidi l’ora tarda ed andai a letto.

Mi spogliai in gabinetto senza accendere la luce e, dopo aver lavato i denti ed aver orinato, in mutande, mi recai nel mio letto ad una piazza e mezza.

Non presi sonno immediatamente, mi rigirai più volte e, forse verso l’una e trenta, finalmente, riuscii ad addormentarmi.

Circa alle cinque di mattina mi svegliai in un bagno di sudore, un incubo o qualcosa di simile aveva turbato il mio sonno; delle immagini fugaci, un viso di donna piangente, un campo di mais illuminato dalla luna, sangue e pochi altri particolari che dopo alcuni attimi erano svaniti, come cancellati.

Andai in gabinetto a bere ed a sciacquarmi il viso, forse non avevo digerito bene, forse il caldo mi stava tirando dei brutti scherzi.

Mi asciugai il viso ed il collo sudato.

Tornai a letto cercando di rilassarmi per trovare nuovamente il sonno, avevo ancora circa due ore e mezza prima del suono inesorabile della sveglia.

Un chiarore azzurrognolo contrastava con la debole luce giallastra dei lampioni stradali, rumori abituali ed ovattati provenienti dall’esterno che preannunciavano il risveglio della città.

Una leggera brezza prese a muovere l’aria stantia del mio appartamento, quella piacevole sensazione aiutò a ritrovare il torpore che precede il sonno.

Ero ormai sull’orlo dell’assopimento quando dei lunghi singhiozzi tagliarono il silenzio, sembrava una voce femminile.

Rimasi in ascolto pensando al guaito di un cane, poi quel verso straziante si ripeté, era proprio una voce umana!

Balzai giù dal letto ed andai sul poggiolo così come mi trovavo, mi guardai intorno: la strada era deserta, restai in ascolto per alcuni minuti ma quel suono non si fece più udire.

Forse la mia immaginazione mi stava tirando dei brutti scherzi, tornai in camera con i sensi tesi.

Un pesante silenzio aleggiava, tornai a coricarmi ma il sonno era definitivamente svanito.

Rimasi disteso osservando come la luce aumentava d’intensità, guardai la sveglia che avevo sul comodino, i led rossi dicevano che erano le sei meno un quarto.

Mi rigirai più volte e alle sei e dieci decisi che non valeva la pena rotolarsi nel letto a sudare.

Andai in bagno, chiusi la finestra, mi sfilai le mutande ed entrai in doccia; mi lavai distrattamente con l’acqua appena tiepida, quel lamento e le poche immagini del mio sogno mi avevano lasciato addosso una sensazione  di angoscia.

Non saprei dire il motivo del mio turbamento ma qualcosa di sgradevole aveva toccato la mia coscienza.

Uscii dalla doccia e mi asciugai approssimativamente con un asciugamano pulito, anche se non completamente asciutto, infilai le ciabatte e mi drappeggiai il telo sui fianchi.

Aprii nuovamente la finestra e mi piazzai di fronte al lavabo per lavarmi i denti e farmi la barba.

Con queste operazioni spesi del tempo ed arrivarono le sei e quarantacinque.

Andai in camera verso la sedia dove appoggiavo i miei vestiti; intanto la luce del sole entrava dalla finestra spalancata ed  inondava ogni superficie dando una sfumatura dorata ai miei modesti arredi.

Per prima cosa infilai i pantaloni azzurri con un filetto cremisi della mia divisa, mi sedetti sul letto sfatto ed infilai dei calzini blu scuro, poi presi la polo blu della nuova divisa estiva con quella ridicola scritta sulla schiena, la indossai e la rincalzai dentro i pantaloni, mi alzai e allacciai la cintura.

Ritornai in bagno per spazzolarmi i capelli anche se corti, ci tenevo ad un certo decoro.

Andai di nuovo in camera e presi dal comodino il cinturone d’ordinanza con la fondina e la pistola e tutti gli annessi.

Vicino alla porta tenevo una scarpiera con sopra uno specchio quadrato ed un attaccapanni a muro, riposi le ciabatte e misi gli scarponcini d’ordinanza, mi allacciai il cinturone e presi il nuovo berretto blu con visiera (tipo baseball).

Ero pronto alle sette, avrei fatto in tempo ad andare al baretto in fondo all’isolato e fare una ricca colazione.

Chiusi solo la porta del balcone dopo aver preso la mia bicicletta, uscii e diedi una mandata con le chiavi al portoncino blindato, poi presi la bici e mi infilai il telaio sulla spalla e così scesi le scale.

Non incontrai nessuno finché non uscii dall’atrio condominiale, qui mi venne incontro la signora Giovanna con una borsa piena di pomodori.

«Buongiorno signor Angelo, va già al lavoro?»

«Buongiorno, quante volte le devo dire di chiamarmi  Gegè.»

«Ma il nome Angelo è molto bello, e s’addice ad un tutore dell’ordine, per di più un commissario.»

«Non sono commissario, sono un semplice vice ispettore,  e poi Angelo Scuro le pare un nome adatto a chi fa il mio lavoro? Pensi quante prese in giro mi sono dovuto sorbire; comunque adesso vado al bar a fare colazione e poi con calma andrò in Questura.»

«Le terrei volentieri compagnia, ma proprio oggi mi sono messa in testa di preparare la salsa e i barattoli per la scorta invernale, mi aspetta una giornata davanti i fornelli, adesso vado, arrivederci.»

«Aspetti, volevo chiederle se questa mattina presto ha sentito versi strani?»

«Che tipo di versi, forse i gemiti della signorina Luisa, la mia vicina, che ogni notte fa le maratone col suo moroso?»

«No, no, era come un pianto disperato.»

«Ma a che ora?»

«Saranno state circa le cinque…»

«No, a quell’ora  ero già sveglia per arrivare tra i primi al Mercato Ortofrutticolo ed accaparrarmi i pomodori migliori, non ho sentito niente del genere, non si sarà confuso col bastardino del quinto piano? Ogni tanto guaisce…»

«No, non era lui, comunque grazie e di nuovo arrivederci»

«La verrò a trovare appena finito con le mie conserve così gliene lascio un paio, buona giornata.»

La osservai mentre entrava, l’abito corto mostrava belle gambe affusolate ed un lato B di tutto rispetto.

Mandai un sospiro ed inforcai la bici.

Con poche pedalate arrivai al bar, era situato al piano terra dell’ultimo edificio dell’isolato, in zona angolare, così aveva due vetrinette sulle due strade adiacenti, di fianco c’era una tabaccheria e dal lato opposto un piccolo supermercato.

Si trattava di un locale piccolo ma ben organizzato, con arredi nuovi ed accoglienti, aveva aperto da poco.

Legai la bici con la catena ad un segnale che era lì vicino ed entrai.

L’interno era piacevolmente fresco grazie ad un efficiente climatizzatore posizionato sulla parete dove vi era anche la toilette; dei tre tavolini uno era occupato da un signore anziano che beveva un caffè e leggeva un giornale.

Andai al banco dove fui accolto dal bel sorriso della giovane che gestiva il locale.

«Buongiorno, cosa posso prepararle?»

«Buongiorno, un cappuccino al ginseng e una brioche con marmellata di mirtillo.»

La barista prese la brioche con delle pinze e la mise su un piattino porgendomela.

«Preferisce sedersi? Gliela porto al tavolo.»

L’offerta mi piacque, così mi diressi al tavolino e mi sedetti di fronte all’anziano che alzò la testa dal giornale e mi guardò con una strana espressione sul viso.

Strinse gli occhi osservandomi da sopra gli occhiali e aggrottò le folte sopracciglia, sembrava cercasse qualcosa sul mio viso.

Ad interrompere l’imbarazzante momento arrivò la barista con la colazione che avevo ordinato, prese dal vassoio e mise sul tavolino piattini, tazza, zucchero ed un cioccolatino.

La ringraziai e la pagai.

Mentre mi accingevo a zuccherare il cappuccino notai ancora l’imbarazzante interessamento del vecchio, spesso la divisa attirava gli sguardi dei curiosi, ma nei suoi occhi vi era qualcosa di diverso.

«Lei è un tutore dell’ordine dunque, ma di che ordine lei si occupa?» così mi apostrofò l’attempato personaggio.

«Strana domanda, soprattutto da un perfetto sconosciuto, cosa vuole che le risponda, lavoro in Questura e tanto basta» risposi infastidito iniziando a mangiare la mia brioche.

«Mi scusi non volevo aprire una polemica, mi chiamo Nereo, volevo solo sapere che mansioni ha nella Polizia di stato.»

Assaggiai il cappuccino, era delizioso, niente a che vedere con quello delle macchinette o la ciofeca che facevo io, quella gradevole sensazione mi convinse a rispondere a quella inopportuna domanda.

«Lavoro nell’ufficio che rilascia il porto d’armi e raccoglie le denunce di possesso d’arma, gestiamo gli archivi e controlliamo i commercianti, gli armaioli  e quanti detengono armi a vario titolo.»

«Insomma fa il passacarte, non lavora nei servizi attivi anticrimine» concluse con un’espressione delusa.

«Lo sa che quanto ha detto potrebbe suonare come un insulto?» risposi piccato e pronto ad alzarmi, avendo ormai finito il cappuccino e ficcandomi in bocca quello che restava della brioche.

«Da quando la Polizia non ha più le stellette e si veste in quel modo ha perso smalto, molto meglio i Carabinieri.»

Quell’ultimo commento mi aveva molto irritato, mi alzai e andai al suo tavolino.

«Lei non ha idea del lavoro che dobbiamo svolgere, di tutte le leggi e regolamenti da far osservare, di tutte le incombenze che caricano sulle nostre spalle, non c’è solamente il servizio anticrimine, ve ne sono molti altri, ognuno con pari dignità e con risorse sempre più scarse. Lo sa che a volte facciamo turni di dieci ore senza alcun riconoscimento economico?»

«Porti pazienza, sono solo un vecchio nostalgico, avevo visto in lei una luce particolare e mi ero illuso di aver trovato finalmente chi potesse proseguire il mio compito.»

«Compito? Cosa intende dire? Di che compito parla?»

«Lasci perdere, parole di un vecchio sciocco, piuttosto, spero di rincontrarla in questo bar e per scusarmi le offrirò la colazione.» ciò detto mi tese la mano, rimasi per un attimo costernato, afferrai la sua mano e ricambiai il saluto, mi accorsi anche, osservando l’orologio posto sopra la porta della toilette, che erano già le sette e mezza, dovevo sbrigarmi.

All’uscita incrociai lo sguardo perplesso della barista e la salutai con un gesto della mano.

Appena fuori liberai la bicicletta e, montato in sella, mi diedi da fare con i pedali.

Presi delle stradine interne sino alla porta nelle antiche mura cittadine, poi, passato lo slargo dinanzi la porta, imboccai una comoda pista ciclabile che costeggiava una circonvallazione molto trafficata, in fondo ad essa attraversai agevolato da un semaforo, passai a fianco del grande cimitero cittadino e presi la strada che portava al passo carraio posto dietro la Questura, qui il piantone, riconosciutomi, aprì il cancello automatico.

Entrai, zigzagai  tra le volanti ed andai a mettere la bici vicino l’ingresso di servizio.

Qui incontrai alcuni agenti e graduati di servizio sulle volanti, che si dirigevano alle rispettive auto per il consueto pattugliamento, e con cui scambiai un saluto frettoloso.

Presi le scale, il corridoio e sbucai nel grande atrio, mancavano pochi minuti alle otto all’orologio elettronico posto sulla parete di fronte l’ingresso principale.

Tra poco avrebbero aperto il cancello esterno e il grande portone dell’accesso principale per il pubblico, già all’esterno s’intravedeva una lunga fila di persone, buona parte stranieri ed extracomunitari venuti a sbrigare le pratiche collegate al permesso di soggiorno.

Prima dell’apertura vennero attivati i grossi tabelloni con la numerazione per accedere ai vari servizi situati a lato del salone e forniti di sportelli per il pubblico; salutai distrattamente alcuni colleghi che stavano prendendo posto e mi diressi verso il mio ufficio a cui si arrivava tramite un altro corridoio.

Di fianco la porta vi era una targa con scritto: UFFICIO 22 Porto d’armi e Denunce di possesso; sotto era stato appeso un foglio con scritto: ATTENDERE IL PROPRIO TURNO E BUSSARE PRIMA DI ENTRARE, poi più in piccolo: le varie modulistiche sono a disposizione nell’apposito raccoglitore situato nell’atrio.

Entrai senza bussare, i miei due colleghi erano già seduti al proprio posto, ci salutammo senza entusiasmo; il nostro piccolo ufficio era composto da quella stanza con le due scrivanie e varie scaffalature colme di faldoni, una fotocopiatrice e un computer collegato ad intranet, la mia stanza era confinante e collegata a quella ed era molto simile: scrivania, il computer, telefono, scaffali colmi di pratiche.

Mi sedetti sulla poltroncina girevole ed accesi  il computer, iniziava la noiosa giornata; i colleghi con cui ci eravamo scambiati quei fiacchi saluti erano due assistenti ormai vicini alla pensione, erano anni che erano stati tolti dal servizio attivo e scaldavano le loro sedie  tirando avanti la giornata e facendo pesare la burocrazia sull’ignara utenza.

Avevo provato più volte a rendere il nostro compito più snello ed in linea con i tempi, ma quei due ruderi erano refrattari a qualsiasi innovazione e contavano i giorni che li separavano dalla quiescenza.

Avevo tentato anche di farmeli amici ma nella loro testa c’erano solo problemi  di prostata, mogli esigenti e figli sempre alle prese con oberanti problemi economici, uno di loro era anche diventato nonno recentemente.

Insomma tutti argomenti e realtà molto lontani dal mio modo di vivere; da tempo avevo rinunciato alle mie velleità ed il nostro rapporto si risolveva solo tra le quattro mura del n ostro ufficio.

Alle otto in punto qualcuno bussò alla porta, già partiva il trantran quotidiano, mi estraniai lavorando al computer su alcune pratiche da evadere.

Senza accorgermene le pratiche mi portarono via un paio d’ore, stavo per alzarmi quando suonò il mio telefono, era una chiamata interna.

Risposi.

«Vice-ispettore Scuro? È atteso dal Primo Dirigente Roberti al secondo piano ufficio 207.»

«Devo portare qualche pratica particolare?»

«Perché fa questa domanda? Non mi pare di averle chiesto nulla, si sbrighi.»

La comunicazione venne interrotta, quella laconica richiesta mi aveva messo in agitazione.

Informai i miei colleghi della cosa ed uscii; per non incrociare il pubblico che ingombrava l’atrio presi la scala di sicurezza raggiungibile dopo un percorso tortuoso tra il retro dei front offices.

Salii al secondo piano, trovai l’ufficio indicato a metà di un corridoio ampio e dotato di passatoia cremisi.

Bussai.

«Avanti!» mi rispose una voce femminile; entrai in un ambiente ampio, vi era una parete vetrata con vista sul centro storico ed era dotato di un impianto di climatizzazione.

L’arredamento era costituito da mobili in legno, una libreria piena di tomi con le rilegature in pelle, un armadio, un attaccapanni, una grande scrivania con due computer, uno fisso ed un portatile, delle poltroncine, un bel ficus, due calle; seduta su un poltrona girevole il Primo Dirigente Roberti.

«Buongiorno» bisbigliai sicuro di non essere udito.

Era al telefono ed era una bella signora in divisa con tanto di giacca e cravatta, parlava con qualche pezzo grosso e mi fece cenno di accomodarmi.

Mi sedetti ed intanto mi guardai attorno, sulla parete laterale vi era una grande planimetria della città, di fianco, appesi in bella mostra almeno una quindicina di calendari della nostra arma ordinati dal duemila in poi, sulla scrivania varie cartelle aperte ed alcune fotografie incorniciate, osservai la mia interlocutrice,  non dimostrava più di quarant’anni ma sapevo che ne doveva avere almeno una cinquantina, aveva i capelli biondi raccolti a chignon e mentre parlava gesticolava.

La telefonata durò ancora qualche minuto poi repentinamente congedò il suo interlocutore e mise giù la cornetta.

«Mi scusi ma devo fumare subito una sigaretta, ne vuole una?» mi porse un pacchetto che rifiutai con garbo.

L’accese e tirò alcune poderose boccate riempiendo di fumo l’angolo dove erano i vasi e le piante.

«L’ho fatta chiamare perché ho esaminato attentamente il suo fascicolo personale» mi guardò intensamente: «qui risulta che lei a diciannove anni ha superato le prove del concorso di ammissione ed è entrato nel corpo frequentando la Scuola superiore di Polizia e conseguendo la qualifica di vice commissario, mi sono fatta mandare anche i dati sul suo rendimento ed è risultato il migliore del suo corso.»

Mi fissò per vedere che effetto avevano fatto le sue parole, rimasi impassibile.

«La sua prima assegnazione è durata due anni ed ha ottenuto ottime valutazioni passando a commissario a soli venticinque anni, poi è successo il patatrac.»

Ancora una volta mi squadrò, questa volta non riuscii a star fermo e cambiai posizione sulla poltroncina.

«Nel luglio del 2001 partecipava coi Reparti mobili all’attività  di controllo in occasione del vertice del G8, in seguito a scontri e violenze venne indagato dalla Procura che emise vari avvisi di garanzia,  ho letto gli atti processuali che la riguardano, lei è stato l’unico ad ammettere il ruolo avuto negli incidenti. Per questo motivo venne sospeso, i suoi colleghi invece se la sono cavata grazie a depistaggi, omissioni dei fatti e sono stati assolti per l’impossibilità d’individuare i diretti responsabili delle violenze o per l’intervenuta prescrizione dei reati.»

La interruppi:  «Nel paese dei furbi essere onesti e sinceri porta alla disgrazia.»

«Lei è stato ingenuo! Con la sua ammissione dei fatti ha creato un varco in cui certi politici e certa stampa si sarebbero buttati a capofitto per screditare tutta la Polizia! Una vera manna. Per fortuna i suoi superiori sono riusciti ad arginare il fenomeno.»

Feci una smorfia di disgusto.

«Comunque leggo qui che dopo sei mesi di sospensione venne esortato a congedarsi per non creare imbarazzo, cosa che non fece e che patteggiò con i suoi superiori la sua permanenza nel servizio, così accettò, costituendo un precedente unico nel nostro ordinamento, di passare dal ruolo direttivo al ruolo ispettivo col grado che ancora porta, quindi da circa undici anni è vice ispettore e da tre è presso questa Questura con mansioni impiegatizie.»

«Detta così sembra che abbia agito da irresponsabile, invece io ho solo eseguito gli ordini che ci erano stati impartiti e ho detto la verità di fronte al giudice, sono stati gli altri a isolarmi inventando e costruendo circostanze non vere, abbandonandomi ad un linciaggio morale che mi ha fatto il vuoto intorno. Il mio povero papà è stato così male che alla fine è morto di crepacuore.» non mi ero accorto di aver alzato la voce e l’espressione della mia interlocutrice tradiva un forte imbarazzo.

«Avrebbero voluto che me ne andassi e forse sarebbe stato meglio per tutti, ma oggi sono contento di non avergliela data vinta nonostante le minacce e le intimidazioni!»

«Ecco perché ha chiesto spesso trasferimenti, vedo che non si è fermato nello stesso posto per più di un anno, qui da noi però deve trovarsi bene vista la sua lunga permanenza.»

Quest’ultima frase sembrava detta proprio per chiudere quella penosa trattazione.

Attendeva una risposta o un commento da parte mia, la accontentai.

«Qui almeno i miei colleghi mi lasciano in pace e ho trovato un posto in cui mi piacerebbe restare.»

«Bene! Sono contenta di sentirglielo dire, ritengo però che le sue capacità siano sprecate per cui vorrei proporle un accordo…»

La vidi esitare, come se quello che stava per dirmi fosse una proposta oscena. «… lei sa molto bene che con gli ultimi tagli il nostro budget si è ridotto come anche il ricambio ed il reclutamento di nuovi agenti; un talento come il suo è sprecato all’ufficio porto d’armi, per cui le proporrei di tornare al servizio attivo, cosa ne pensa?»

«Sono molto onorato del suo interessamento, la sua proposta è molto lusinghiera, ma gli altri colleghi come la prenderanno, mi troverò ancora al centro di pettegolezzi o maldicenze?»

«Mi faccio garante per lei e, nel caso dovessero manifestarsi episodi di mobbing o di intolleranza, me li riferirà e ci penserò io a sistemare le cose. Cosa mi dice?»

«Innanzi tutto la ringrazio della fiducia, poi le dico che accetto, quando si comincia?»

«Domani si presenterà dal Commissario Capo Cruciani, che ho già informato, e per dimostrarle la mia determinazione le partecipo che ho inoltrato la pratica di sua promozione ad ispettore.»

Quest’ultima frase diede una scossa al mio umore facendolo virare verso l’euforico.

Salutai rispettosamente e lasciai quell’ufficio chiudendomi silenziosamente la porta alle spalle.

2

La giornata passò quasi senza che me ne accorgessi e alle diciassette lasciai l’edificio della Questura, ripresi la mia bicicletta e pedalai senza fretta verso casa.

Di solito il rientro rappresentava per me il sollievo di una giornata di lavoro trascorsa, questa volta vi era l’eccitazione per un cambiamento imminente, la sensazione di una svolta significativa.

Arrivai dinanzi il portone del condominio senza quasi essermi accorto della strada percorsa, mi caricai in spalla la bici e salii le scale sino alla mia porta.

Qui un’altra sorpresa: una borsa di stoffa appesa al pomolo della porta.

Posai la bici e presi la borsa, all’interno vi erano quattro barattoli di salsa di pomodoro ancora tiepidi.

Aprii la porta ed entrai, misi sul terrazzino la bici e posai la borsa sul tavolo vicino alla zona cucina.

Avrei dovuto ringraziare la signora Giovanna ma prima volevo togliermi la divisa e mettermi in borghese.

Optai per dei comodi pantaloni di lino chiaro ed una camicia leggera con collo alla coreana di colore giallo con delle righe più scure, infine misi dei mocassini di cuoio beige.

Per ultimo mi ravviai i capelli e misi del profumo sul collo.

Mi rimirai allo specchio, l’immagine che vidi era gradevole, aprii la porta e salii al piano superiore.

Suonai al campanello dove vi era la targhetta “G. Pellizzari”, sentii un ciabattare e poi la porta si aprì.

«Buona sera, mi scusi, la disturbo?»

La signora Giovanna era in reggiseno e pantaloncini: «Buona sera, scusi l’abbigliamento ma stavo facendo un po’ di ciclette, ha bisogno?…»

«Venivo a dirle che ho trovato la salsa e a ringraziarla della sua gentilezza…» la guardai, era rossa in viso e un velo di sudore le faceva luccicare i seni, i capelli castani erano raccolti da una fascetta, era molto attraente.

«… per ricambiare la sua cortesia vorrei invitarla a cena» quest’ultima frase mi uscì quasi con voce strozzata, lei si accorse del mio imbarazzo e fece un sorriso.

«Ma non stia sulla porta, vuole entrare a bere qualcosa?»

Entrai, mi fece accomodare in cucina vicino al tavolo, aprì il frigorifero, «Posso offrirle un succo, della Cola o un’aranciata, cosa preferisce?»

«Preferirei della semplice acqua fresca.»

Prese un bicchiere, lo riempì di acqua  da frigo e me lo porse.

«Il suo invito mi coglie impreparata ma sarò ben lieta di accettarlo, mi dia una mezz’oretta, faccio una doccia mi vesto ed andiamo.»

Si allontanò e sparì dietro una porta, il suo appartamento era più grande del mio, vi si accedeva tramite un piccolo ingresso, sulla sinistra vi era il soggiorno e la grande cucina in cui sorseggiavo la mia acqua, un’altra porta conduceva nella zona notte dove dovevano trovarsi le camere ed il bagno; era arredato tutto con bei mobili moderni, intravidi la ciclette posta su un tappeto in soggiorno.

Sentivo lo scroscio della doccia e per un attimo immaginai il bel corpo nudo di Giovanna accarezzato dai getti tiepidi, mi riscossi, mi alzai e passeggiai per la cucina, andai alla porta del poggiolo che era socchiusa ed uscii, la tenda era abbassata ed era piacevole stare affacciati all’ombra.

Dopo qualche minuto mi sentii chiamare da dentro.

Entrai e nuovamente la voce della signora Giovanna mi chiamò, sembrava venire dalla zona notte, con esitazione entrai, il bagno era aperto e nell’aria aleggiava il gradevole profumo del sapone usato.

«Venga, non sia timido, sono in camera.»

Scostai la porta e la vidi vicino all’armadio avvolta in un telo di spugna bianco che lasciava scoperto molto del suo bel corpo.

«Mi consigli, preferisce un abito lungo o un vestito più sportivo.»

«Meglio un abito sportivo, io non sono vestito di conseguenza, pensavo di andare in un ristorantino dove si potesse mangiare bene e non spendere un patrimonio .»

Frugò nell’armadio e tirò fuori due abitini corti, uno era di un bel colore turchese con spalline realizzate con una catenella dorata, l’altro era formato da una gonna corta rossa ed una canotta di seta color crema.

«Quale dei due?»

Indicai quello turchese.

«Ottima scelta! È uno dei miei preferiti e da un bel pezzo non c’è stata occasione d’indossarlo. Adesso le chiedo di tornare in cucina e lasciarmi preparare, non ci metterò molto.»

Riluttante me ne andai e tornai sul poggiolo.

L’attesa non fu lunga, dopo una quindicina di minuti me la vidi comparire sulla porta della cucina.

Era bellissima.

Quel vestito nella sua semplicità metteva in risalto il suo incarnato e dava agli occhi grigi (non li avevo mai notati) una sfumatura azzurra particolare.

I capelli corti, di un castano rossiccio, erano stati spazzolati ed acconciati con del gel.

Il viso era ben truccato con labbra rosse di un colore che definirei maldestramente carminio; al collo una collana d’oro con un pendaglio costituito da una grossa perla a forma di goccia che le scendeva tra i seni e orecchini con perle più piccole simili a quella del pendaglio.

Ai piedi dei sandali dorati con tacco alto.

Le avevo sempre attribuito un’età compresa tra i quaranta e i quarantacinque anni ma vedendola così in tiro non le avrei dato più di trent’anni.

«La smetta di guardarmi così, mi mette in imbarazzo!»

«Piuttosto ha già pensato a come andremo in centro se lei non ha l’auto?»

«Volevo chiamare un taxi…»

«Non sia ridicolo! Un taxi…» lo disse alzando gli occhi al cielo.

«Ho la mia auto parcheggiata qui sotto.»

Scendemmo dopo che ebbe preso un borsetta dorata e dopo aver chiuso con due mandate il portoncino.

Aveva una Mito metallizzata, la aprì con il telecomando, entrammo e partimmo alla volta del Centro storico.

Feci fatica a non fissarle le gambe abbondantemente scoperte  mentre guidava.

In dieci minuti arrivammo e lasciammo l’auto presso un parcheggio sotterraneo a pagamento situato in zona centralissima.

Uscimmo dal parcheggio e ci dirigemmo verso la passeggiata principale.

Durante il tragitto mi prese sotto braccio e parlò solo lei.

Mi raccontò che si era sposata giovanissima, lei proveniva da una famiglia modesta, mentre i genitori del marito erano  benestanti, anzi di più; che il marito aveva uno studio da commercialista, del terribile incidente occorsogli durante una trasferta di lavoro poco dopo che si erano sposati, dello strazio della sua agonia e del dolore in seguito alla sua morte.

Continuò riferendomi la cospicua somma avuta dall’assicurazione e del rompersi dei rapporti con i suoceri, di come aveva investito quel gruzzolo in appartamenti che le permettevano di vivere agiatamente senza lavorare.

Non avendo l’intenzione di arrestare quel fiume di parole le feci notare che eravamo arrivati.

Avevo scelto un piccolo ristorante in una traversa laterale che aveva un giardino interno.

Entrammo e ci fecero accomodare ad un tavolo per due nel giardino vicino ad una fontana e ad un gelsomino rampicante che profumava l’aria con il suo aroma intenso.

Il posto era romantico ed intanto erano arrivate le sette.

Ordinammo un aperitivo, io presi uno sprizzato mentre Giovanna un Prosecco.

Mentre sorseggiavamo le nostre bevande lei mi prese la mano: «Vorrei che mi dessi del tu e mi chiamassi Giò.»

«Lo stesso vale per te, chiamami Gegè» risposi leggermente in imbarazzo.

Finito l’aperitivo ordinammo, prendemmo piatti leggeri a base di pesce e da bere dell’acqua minerale ed un litro di vino bianco.

Durante la cena parlammo di cose futili e sentii spesso le sue gambe strusciarsi contro le mie, lei portava frequentemente il bicchiere di vino tra le sue labbra rosse e più beveva più i suoi discorsi diventavano languidi, ordinò un’altra bottiglia che bevve praticamente da sola.

Prendemmo anche un dessert: per me una crema catalana e per lei un semifreddo, alla fine presi un caffè e lei un generoso bicchierino di limoncello.

Chiesi il conto e pagai, era la prima volta dopo molto tempo che passavo una serata così bella in compagnia di una donna.

Nel frattempo erano diventate le nove e trenta ed ormai il sole era tramontato, le luci del centro mettevano in risalto le vetrine  ancora frequentate, era presto, decidemmo di fare una passeggiata prima di tornare all’auto.

Dopo i primi passi mi accorsi che Giò traballava leggermente, forse per effetto di quanto aveva bevuto.

In compenso mi stava così attaccata che potevo sentire le sue forme aderire alle mie.

Non facemmo molta strada e quando costeggiammo un parco andammo a sederci su una panchina poco illuminata dai lampioncini.

Qui Giò mi mise le braccia al collo e mi ringraziò della bella serata, i nostri visi erano ormai vicinissimi, ricambiai il suo abbraccio e la baciai in punta di labbra a cui lei rispose calorosamente con un bacio alla francese dal sapore vagamente alcolico.

Ci stringemmo e ci baciammo ancora con più impeto.

Restammo così per almeno una mezz’oretta, poi, di comune accordo, ci alzammo per dirigerci al parcheggio.

Convenimmo che era “leggermente” brilla ed avrei guidato io la sua auto, lei rimase stupita perché pensava non avessi la patente, la mia era una scelta per risparmiare, solo di bollo ed assicurazione se ne andavano oltre mille euro l’anno, figurarsi aggiungendo consumi e manutenzione, non potevo permettermelo.

Arrivammo a casa che erano le dieci, mi feci dare le chiavi della sua autorimessa e le parcheggiai l’auto, l’aiutai a scendere e, sorreggendola, entrammo dalle cantine e prendemmo l’ascensore.

Arrivammo al terzo piano e aprii la sua porta di casa con le sue chiavi, accesi la luce dell’ingresso.

Giò era fatta, socchiudeva spesso gli occhi e la sua andatura era traballante, l’accompagnai in camera da letto senza accendere la luce, lei si buttò così com’era sul letto.

Mi avvicinai e le tolsi i sandali, misi la borsa, che era caduta, sul comodino e feci per andarmene, con voce piagnucolosa invocò il mio nome.

Tornai indietro e mi sedetti sul letto vicino a lei.

«Non andartene, mi sento tanto male, scusami….»

«Forse è meglio se ti alzi e vai in bagno a metterti qualcosa di più comodo.»

Lei assentì, l’aiutai ma non feci in tempo a impedire che vomitasse sul tappeto ai piedi del letto.

Dopo quel conato riuscii a trascinarla in bagno e ad aprire la tazza del gabinetto, lei si inginocchiò e, abbracciando la tazza diede libero sfogo alla nausea.

Vomitò tutta la cena e gli alcolici ingeriti, quando finirono i conati era distrutta, senza forze.

Si lasciò spogliare (in pratica tolto il vestito turchese rimase con dei microscopici slip in tinta), lavare il viso con acqua fresca ed infilare una t-shirt che usava come camicia da notte, poi, quasi trascinandola di peso l’adagiai sul letto da cui avevo tolto il copriletto.

Presi il tappeto, lo misi nella vasca e lo sciacquai con acqua tiepida, poi lo strofinai con del sapone per lavatrice, alla fine tornò pulito e lo lasciai appeso al box della doccia a sgocciolare.

Mi sentii  chiamare nuovamente.

Spensi la luce del bagno ed andai da lei.

«Come va?» le chiesi nella penombra della camera.

«Ti prego, non pensare male di me, sono passati parecchi anni da che non uscivo con un uomo…»

«Forse avresti dovuto moderarti nel bere.»

«Hai ragione, ma avevo voglia di festeggiare…» mi prese le mani ed aggiunse: «Ti ringrazio della tua pazienza, adesso mi sento meglio anche se sono tanto fiacca, scusami se ho rovinato la serata.»

Le sorrisi e mi chinai per darle un bacio casto sulla guancia.

«Non andartene, resta a farmi compagnia…»

Risposi con un cenno di assenso, mi tolsi le scarpe, i pantaloni e la camicia che posai ben piegati sulla sedia vicino al letto, infine rimasto in mutande mi sdraiai al suo fianco, la sentii respirare rumorosamente, era crollata.

Rimasi sveglio a rimuginare sulla serata e a quello che mi aspettava l’indomani mattina, poi il torpore ebbe la meglio e mi addormentai.

La luce che filtrava dalla finestra mi svegliò, Giò era al mio fianco con la maglietta arrotolata sulla pancia, russava rumorosamente, guardai l’ora della radio-sveglia dalla sua parte, erano le circa le sei e mezza.

Decisi di alzarmi facendo il possibile per non svegliarla, andai in bagno a vestirmi e poi sgattaiolai silenziosamente fuori dalla camera e dal suo appartamento.

Scesi di sotto e tornai nel mio alloggio, qui potei fare una doccia, lavarmi i denti, radermi e prepararmi per la giornata che mi attendeva, ero piuttosto agitato, optai per una colazione leggera a base di un succo di pera, che aprii al  momento, e di una fetta biscottata con del burro e poco poco di miele.

Tra una cosa e l’altra erano diventate le sette e venticinque, riandai col pensiero alla serata trascorsa con Giò, forse stava iniziando una storia con lei.

Quei baci febbrili erano stati l’unico nostro momento d’intimità, probabilmente il futuro ci riservava qualcosa di più.

Cercai di non pensarci e di prepararmi, presi la bici, me la misi in spalla e scesi le scale, una volta fuori l’inforcai pedalando con vigore.

3

Arrivai in questura alla solita ora, le otto meno dieci, entrai facendo il solito percorso, però stavolta salii al primo piano verso l’ufficio del Commissario Capo Cruciani.

Qui vi era un certo via vai di agenti e graduati a cui chiesi e che mi indicarono il giusto corridoio.

Sulla porta del suo ufficio oltre alla targhetta con il suo nome e grado vi era una scritta a caratteri in rilievo di ottone:  Direzione centrale anticrimine (DAC).

Bussai e, dopo avere ottenuto il permesso, entrai.

Era in corso una riunione a cui partecipavano una mezza dozzina di persone in borghese, mi guardai attorno, l’ufficio era molto diverso da quello del Primo Dirigente, mobili vecchi e disordine con carte e foto su ogni superficie utile.

«Lei deve essere il vice ispettore Scuro, la dottoressa Roberti mi ha annunciato il suo arrivo.»

Un signore di piccola statura, stempiato e con un pizzetto grigio si staccò dal gruppo: «Sono il Commissario Capo Giuseppe Cruciani, piacere.»

Mi allungò la mano che strinsi, in contrasto con la sua piccola statura la sua stretta era ferrea.

«Le presento il Commissario Marco Hofer, sarà alle sue dipendenze.» con quelle poche parole il mio ruolo era cambiato come anche la mia esistenza; senza darmi tempo di dire nulla si rivolse agli altri presenti: «La riunione è conclusa, potete tornare alle vostre incombenze.»

Il Commissario Hofer era un uomo alto e segaligno, capelli biondastri, occhi chiari, naso adunco e folti baffi quasi rossi mi fece cenno di seguirlo.

Non sapevo se i miei colleghi dell’ufficio fossero stati avvisati del mio trasferimento, il commissario, come se avesse letto i miei pensieri disse: «Abbiamo già avvertito l’ufficio porto d’armi, non ci risulta vi fossero suoi effetti personali per cui il passaggio al nuovo incarico è effettivo da subito.»

Mi guidò sino ad un ufficio posto in fondo al corridoio, era uno stanzone grande con quattro scrivanie, vari armadi metallici ed una obsoleta macchina da scrivere elettrica, al suo interno  vi erano due agenti in divisa, uno era assistente capo, ed un altro in borghese.

«Signori vi presento il vice ispettore Angelo Scuro detto Gegè, non chiamatelo mai per nome se non volete farlo arrabbiare…»

«Da oggi in poi farà parte della nostra squadra. Adesso tocca a voi presentarvi…» fece cenno a quello in borghese che era vestito con una Lacoste nera ed un paio di Jeans, alla cintura aveva un fodero in cuoio con una Glock 17 ed il distintivo, era scarmigliato e portava una folta barba scura.

«Sono il Sovrintendente Danilo Moretti.»

Poi l’assistente capo: «Mi chiamo Franco Rinaldi…», infine l’agente: «Sono Simone Inzerillo.»

«Ok, spero lavorerete bene insieme, purtroppo non abbiamo il tempo di socializzare, questa mattina presto è arrivata una segnalazione circa il ritrovamento di ossa in una località di campagna, a sud, contrada Falezza, andiamo a dare un’occhiata, spesso le ossa di animali grossi vengono scambiate per umane; voi tre prendete una volante, mentre Gegè viene con me. Andiamo»

Rapidamente lasciammo l’ufficio e scendemmo le scale sino al piano autorimessa.

I due graduati in divisa e Moretti presero una Punto con le insegne del 113 mentre io e il Commissario Hofer prendemmo una Golf bianca che poi seppi essere di proprietà del commissario stesso.

Ci allontanammo dalla Questura seguiti dalla volante, e dopo varie viuzze e strade di collegamento imboccammo la Tangenziale Sud che ci portò rapidamente in campagna.

Uscimmo dopo l’aeroporto, attraversammo alcuni paesini e velocemente arrivammo ad un bivio, un laconico cartello indicava “Falezza”.

Seguimmo l’indicazione e dopo pochi chilometri notammo sulla sinistra un piccolo gruppo di persone che gesticolava.

Rallentammo.

Il commissario fermò l’auto e abbassò il finestrino.

«Siete voi che ci avete chiamato?» chiese all’indirizzo del gruppetto, uno in abiti da lavoro si fece avanti: «Finalmente, sono ore che aspettiamo, ci hanno detto che avrebbero mandato subito qualcuno.»

Scendemmo, il commissario si avvicinò: «È lei che ha chiamato la centrale?»

«No, è stato mio padre, è lui che ha visto per primo le ossa.» disse indicando un anziano con un cappello di paglia alla cow-boy.

Intanto dall’auto di servizio erano scesi anche gli altri.

«Si avvicini, dia le sue generalità e dica cosa è accaduto.» intimò il commissario all’anziano, che prontamente obbedì.

«Sono Albino Falezza, abito nel podere Falezza qui in fondo a questa strada vicinale, stamattina presto ho preso il trattore con l’aratro per dissodare un terreno che abbiamo comprato di fianco al nostro podere, era un terreno che avevamo già adocchiato da anni, incolto da almeno dieci anni, un lavoraccio, pieno di sterpi con rami grossi così…»

Il commissario spazientito sbottò: «Per piacere Albino, arrivi al punto non abbiamo tutto il giorno!»

«Insomma, dopo averlo ripulito dalla sterpaglia abbiamo cominciato a dissodarlo ed allora mi sono accorto di quelle ossa mischiate alla terra, subito sembravano dei rami ma invece erano ossa umane!»

Intervenne Moretti: «Se sono ossa umane lo stabiliremo noi!»

Il commissario aggiunse: «Non perdiamo altro tempo ci conduca sul luogo del ritrovamento.»

«C’è parecchia strada da fare a piedi, il campo dista circa un chilometro e dobbiamo usare le capezzagne.»

«Non si preoccupi» poi rivolto a Inzerillo e Rinaldi «Voi restate qui e se ci fosse bisogno di qualcosa chiamo col cellulare.»

La strada fu più impegnativa del previsto, il sole cominciava a scaldare e fatto il primo centinaio di metri eravamo tutti sudati; la capezzagna procedeva seguendo la forma dei campi coltivati a mais ed il terreno smosso era fangoso a causa degli innaffiamenti recenti.

Finalmente sbucammo in una zona ombreggiata da alcuni grandi pioppi, il vecchio Falezza li indicò e ci disse: «Qui terminava la nostra proprietà, oltre i pioppi iniziava quella dei Cobelli, il campo è proprio più avanti, tra poco vedremo anche il trattore e lì ci sono le ossa.»

«Faccia strada» gli disse il commissario.

In fila indiana lo seguimmo, sorpassammo i pioppi, costeggiammo una canaletta per l’irrigazione in disuso, ed infine quasi in mezzo ad un campo parzialmente arato vedemmo il trattore.

Ci avvicinammo al trattore, dalla parte dell’aratro, formato da sei lame che entravano nel terreno per circa un metro, tra le zolle di quel terreno che sembrava duro come il cemento, si vedevano quelli che effettivamente sembravano dei bastoni, sia per colore, sia per forma; ma quello che ci fece trasalire fu una zolla rivoltata da cui si affacciava un cranio scuro con i denti candidi in un orrido sorriso.

Non vi era ombra di dubbio: erano resti umani.

Il commissario prese il cellulare e chiamò: «Inzerillo, per favore fai un salto qui e porta il nastro per circoscrivere la zona.»

Poi si rivolse al vecchio ed alle altre persone che ci avevano seguito: «Per favore non toccate nulla, adesso chiamerò la Scientifica e segneremo l’area» spiegò rivolto alle facce attonite di quella gente.

«Al momento vi ringraziamo, vi prego di allontanarvi e di farci fare il nostro lavoro.»

Dopo poco arrivò  Inzerillo con il nastro e circoscrivemmo l’area servendoci anche di rami presi dalla catasta di sterpi che si trovava a bordo campo.

Il commissario intanto aveva chiamato la scientifica, la Procura ed il medico legale.

Mentre aspettavamo stoicamente in quella calura, un fuoristrada sbucò da una capezzagna e si venne a fermare vicino a noi, ne scese un giovane armato di telecamera che si fece incontro al commissario.

«Fermo, rischia di cancellare tracce importanti, non abbiamo tempo per dichiarazioni!» Urlò il commissario gesticolando.

«Commissario, siamo qui per informare, non facciamo come al solito che le notizie le date solo alla RAI!» Rispose di rimando il cronista.

«Dovrà aspettare l’arrivo del Procuratore per una dichiarazione ufficiale.»

Intanto il cronista filmava quello che poteva, cioè noi ed i nastri che avevamo posato.

Nel frattempo arrivò un altro fuoristrada con i contrassegni di una emittente locale, prima che si ripetesse la stessa scena il commissario disse rivolto ad i nuovi arrivati: «Non oltrepassate le demarcazioni e lasciateci lavorare, se me ne date l’occasione vi faccio sgomberare!»

I nuovi arrivati si misero a confabulare con il primo cronista.

Circa una mezz’oretta dopo arrivò una Jeep con i colori ed i contrassegni della polizia ed un furgone scuro con una scritta sulla fiancata: POLIZIA MORTUARIA.

Entrambi arrivarono traballando e slittando su quel terreno adatto soprattutto ai trattori.

La Jeep trasportava tre colleghi della scientifica ed il furgone il medico legale e due aiutanti necrofori.

Il commissario, quasi fosse il padrone di casa, guidò il nutrito gruppo oltre i pioppi, il nostro compito fu di impedire ai giornalisti di seguirli.

Passati pochi minuti arrivò un trattore da cui scese un signore vestito, nonostante il caldo, con giacca e cravatta, il quale ringraziò e congedò l’autista del mezzo.

Con laboriose manovre e producendo con lo scappamento parecchio fumo, il trattore si voltò e sparì tra le piante di mais alte quasi due metri.

Quel signore distinto si avvicinò, si presentò e chiese: «Sono il Sostituto Procuratore, sono già arrivati gli altri?»

«Se per altri intende il medico legale e la scientifica, sì, sono già sul posto, oltre quegli alberi.» risposi indicando i pioppi.

«Potrebbe accompagnarmi?»

«Certamente dottore, mi segua.»

Lo accompagnai, lo spettacolo che si presentò ai nostri occhi fu meno terribile della prima volta, era stato steso un telo di plastica ed i colleghi della scientifica vi avevano adagiato le ossa emerse e ripulite grossolanamente; uno di loro stava documentando fotograficamente il sito, un altro, con le mani protette da guanti di lattice, con una spazzola stava liberandole dal terriccio, il terzo con una paletta  smuoveva il terreno all’interno di un reticolo simile a quello usato dagli archeologi.

Il medico legale stava esaminando le ossa sul telo.

All’arrivo del Sostituto Procuratore tutti si fermarono ed il medico legale accompagnato dal commissario si avvicinarono.

«Buongiorno commissario Hofer, buongiorno dottor Petrucci, cosa abbiamo qui?»

Il medico legale gli strinse la mano: «Ancora è presto per trarre qualsiasi conclusione, una cosa è certa, in questo posto sono stati seppelliti più corpi…»

Il Sostituto Procuratore aggrottò le sopracciglia: «Ne è certo, non potrebbe essersi sbagliato?»

Senza dire nulla il medico indicò le ossa: «Quello è un bacino forse tagliato dalla lama dell’aratro, il pezzo a fianco però non è dello stesso bacino, osservi quelle ossa piccole, sono le ossa della mano ci sono parecchie ossa metacarpali ma fin’ora ne sono state rinvenute tre relative al pollice» il medico si avvicinò a delle ossa piatte di forma triangolare: «Guardi, queste sono scapole, dovrebbe notare anche lei cosa non va!»

Il Sostituto Procuratore esclamò: «Sono circa uguali, non sono speculari!»

«Esatto! Provengono tutte e due da una spalla destra» disse il medico quasi contento della risposta «Qui ci toccherà un lungo lavoro di ricerca, per non parlare poi dell’indagine ricostruttiva.»

Intervenne il commissario: «Occorrerà potenziare le forze in campo e l’impiego di cani molecolari, temo che questo luogo ci riservi brutte sorprese.»

«Fate quanto necessario, vi autorizzo a procedere. Tenetemi informato…» disse il Sostituto Procuratore accingendosi a ritornare sui suoi passi e facendomi cenno di seguirlo, ma improvvisamente si voltò «Mi raccomando non comunicate nulla alla stampa, state sul vago, dobbiamo essere sicuri di quello che diremo e dobbiamo concordarlo.»

Stavolta si allontanò di buon passo.

Lo accompagnai sino alla strada dove, oltre alle nostre auto, era parcheggiata una Audi scura, il Sostituto Procuratore vi salì e partì senza degnare nessuno di un saluto.

Restammo sul posto tutta la giornata.

Giunsero rinforzi per la scientifica ed intravidi un bel cagnone che guardava dal finestrino del camioncino che li trasportava, forse un cane molecolare per la ricerca dei resti; già verso l’una i cronisti se ne andarono delusi, poco dopo andò via anche il medico legale con il proprio seguito.

Noi ci demmo il cambio; avevamo scovato a poca distanza, sulla provinciale, un’osteria dove si poteva mangiare così ci organizzammo andando a coppie con l’auto di servizio, io andai con il commissario.

Verso tardo pomeriggio tornò il medico legale con lo stesso mezzo della mattinata e con i soliti necrofori.

Erano ormai le sette di sera, eravamo lì da circa nove ore!

Alle sette e dieci arrivò il furgone con il medico legale che laconicamente, dal finestrino abbassato disse al commissario: «Il lavoro di ricerca è concluso, il furgone è pieno, le farò sapere cosa abbiamo trovato, a risentirci.»

Io ed il commissario ci dirigemmo verso il luogo del ritrovamento, il terreno era stato completamente smosso, gli scavi effettuati si allungavano per una decina di metri quasi fosse stata scavata una trincea, la terra era accumulata sul lato lungo di quella buca.

I colleghi della scientifica stavano riponendo nei loro automezzi il materiale usato, alcuni si stavano togliendo le tute bianche ed i guanti.

Il commissario si avvicinò a quello che doveva essere il capo, stava fumando una sigaretta seduto sul bordo del camioncino, ai suoi piedi il cane accucciato.

«Come è andata? Cosa avete trovato?» chiese il commissario.

«Mai visto una schifezza del genere, sicuramente una mezza dozzina di corpi» rispose con una smorfia di disgusto «tutti sono stati smembrati, ossa troncate, e gli ultimi resti rinvenuti recavano ancora tracce di tessuto, una testa addirittura conservava ancora le fattezze del viso, un vero orrore…» intanto fece cenno al cane di salire «chissà da quanto questo luogo è stato usato come cimitero; la giornata è finita, ce ne andiamo, a presto commissario Hofer.»

Il commissario rispose con un cenno.

Dopo aver caricato le loro ultime cose i due mezzi della scientifica si avviarono verso la provinciale.

Demmo un’ultima occhiata ai luoghi ancora recintati dal  nastro e tornammo alle nostre auto.

Chiamammo al cellulare il Falezza raccomandandogli di non rimuovere i segni che avevamo lasciato, il trattore era già stato sgombrato in mattinata, e di non continuare ad arare il campo sino a nuovo ordine.

Sentimmo un brontolio provenire dall’altoparlante del cellulare ma il commissario gli diede una brusca rispostaccia.

Montammo nelle rispettive auto e tornammo in Questura, quando finalmente completammo le noiose incombenze burocratiche (rapporti e altri riscontri di rito) erano già le otto e un quarto e cominciava ad imbrunire.

Presi la mia bicicletta e, mentre stavo per uscire dal cancello, mi si accostò la Golf del commissario: «Come inizio, oggi è stata una giornata bella tosta, mah! Speriamo di capire qualcosa di quel macello… Gegè ti saluto, domani vieni pure in borghese, ciao!»

Ricambiai il saluto e mi avviai verso casa.

Il sole era calato quando arrivai davanti il portone di casa, come sempre mi caricai la bici e salii.

Quando fui davanti il mio portoncino notai un foglietto piegato in due ed infilato tra la porta ed il battente.

Lo presi, lo aprii, c’era scritto solo: TI ASPETTO DI SOPRA, era firmato Giò.

Entrai in casa, misi la bici sul balcone, mi tolsi il cinturone ed il berretto, infine uscii e chiusi il portoncino; feci i gradini due a due e bussai alla porta di lei.

Mi aprì quasi subito, mi prese la mano e mi fece entrare, poi, una volta chiusa la porta mi abbracciò e mi baciò con trasporto.

«Sono scesa verso l’ora in cui rientri ma non ti ho trovato, così ti ho lasciato un biglietto» mi sussurrò all’orecchio «Poco fa ti ho visto al telegiornale di una rete locale…» riprendemmo a baciarci.

Appena riuscii a staccarmi le dissi: «La giornata è stata molto stancante ma preferirei non parlarne. Tu come stai? Hai passato bene la mattinata?»

«Appena sveglia il tuo posto vuoto mi ha messo tristezza, sapevo che eri andato al lavoro, comunque ho avuto il mal di testa sino all’ora di pranzo, poi piano piano si è attenuato» si avvicinò sino a sfiorarmi, sentivo il suo buon odore «Ho preparato una cenetta leggera a base di insalata alla caprese, ti va? Penso che tu non abbia ancora cenato.»

«Ti ringrazio, ma ho mangiato prima di tornare» mentii, non mi andava di accelerare i nostri rapporti, era ancora presto e dovevo chiarirmi sui nostri sentimenti «poi ho un sacco di lavoro da svolgere e domani mi devo alzare presto.»

«Sei rimasto deluso dal mio comportamento di ieri?» mi chiese con aria contrita, aveva quasi le lacrime agli occhi.

L’abbracciai e la baciai con tenerezza «Nulla di te mi può deludere, è come ti ho detto; comunque vedrai ci saranno sicuramente altre occasioni perché tu mi piaci molto e spiace anche a me di non poter restare.»

Detto questo mi diressi alla porta.

«Angelo!» Mi chiamò prima che varcassi la soglia «Da quando ci siamo conosciuti la mia vita è cambiata, tu sei molto importante per me…» si buttò tra le mie braccia «Ti auguro buon lavoro e buona notte.»

«Anche a te, dormi bene.» La lasciai a fatica, mi ero già pentito di quella banale scusa e scendendo le scale mi diedi più volte dello stupido.

Quando fui dentro casa prima di tutto andai a mettermi comodo togliendomi scarpe e divisa, poi, lavate le mani, mi diressi verso la dispensa e, dopo aver frugato tra i barattoli, trovai una confezione di minestrone alla “boscaiola”, pulii un pentolino e versai il contenuto della scatola.

Misi il tutto sul fornello con una fiamma bassa.

Nel giro di pochi minuti il minestrone era pronto.

Versai il contenuto dall’aspetto poco invitante in un piatto fondo, presi un cucchiaio ed un bicchiere puliti ed apparecchiai la tavola con una piccola tovaglietta.

Presi dal frigo l’acqua fresca e mi accinsi a cenare, poi ripensando a quanto mi aveva detto Giò accesi il televisore selezionando una delle due reti locali.

Mi sedetti e consumai lo squallido pasto, intanto una noiosa pubblicità mi spinse a provare l’altra rete; fui fortunato stavano trasmettendo il telegiornale, lo speaker blaterava parlando della cronaca locale, ad un certo punto diede il comunicato che aspettavo: «Ed infine una notizia freschissima, stamattina, in un campo, in località Falezza, sono stati ritrovati dei resti umani, sentiamo cosa ha da dirci il nostro inviato.» L’immagine passò ad una inquadratura della nostra auto di servizio e poi del commissario Hofer con me vicino e Moretti di sfondo, si vide il commissario gesticolare all’indirizzo della telecamera, intanto una voce fuori campo commentava: «Quando siamo giunti sul posto la Polizia già presiedeva il luogo del ritrovamento ed impediva a tutti di avvicinarsi, ancora non è chiara l’entità del ritrovamento, se si tratta realmente di ossa umane o di resti di animali, noi optiamo di più per la prima ipotesi anche perché la Scientifica è rimasta sul posto fino a tardi ed il riserbo fa pensare a qualcosa di più di qualche vecchio osso. Un vecchio cimitero? Un serial Killer? Vi terremo informati.»

Intanto avevo finito e così mi alzai per spegnere il televisore ed andare al frigo per vedere cosa avrei potuto mangiare ancora, c’era un pezzetto di Emmenthal che portai a tavola e sbocconcellai con del pane raffermo. Lavai e mangiai un paio di albicocche. Sparecchiai, la mia cena era finita, pensai ancora alle parole di Giò e così mi venne il magone, avrei potuto stare con lei e forse la serata avrebbe preso un’altra piega. Dovevo tener duro, se il nostro rapporto era destinato a crescere c’erano delle cose da chiarire, cosa sapevo di Giò e lei cosa sapeva di me? Alla fine pensai di aver fatto bene e comunque se doveva nascere una vera storia d’amore il tempo avrebbe sistemato tutto, come dice il detto “Se son rose fioriranno”.

Con questo pensiero consolatorio spensi le luci, mi recai in bagno per le abluzioni serali,  guardai l’ora: erano le nove e quarantacinque, era presto per andare a dormire. Mi sdraiai sul letto ascoltando musica con la cuffia. Il sonno arrivò presto.

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Claudio Simonetti
Diplomato al Liceo Artistico di Verona, laureato in architettura a Venezia, dapprima aiuto scenografo presso l'Ente Lirico Arena di Verona, poi insegnante di ruolo nella scuola secondaria; gran sognatore e promotore di imprese al limite delle proprie forze, dedica molto del suo tempo libero alla pittura e al disegno, in gioventù ha collaborato nell'ambito dei comics, in età matura ha fatto mostre e si è appassionato alla ricostruzione storica. Ha esordito nell'ambito dell'editoria pubblicando due romanzi di fantascienza.
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