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Navigante, Mariafragolina e il sentiero per Gaia

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Quando il mondo sbiadisce e la forza vitale di Gaia si affievolisce, la giovane e sensibile Mariafragolina sente un richiamo. Non tutto è perduto. Al suo fianco c’è Navigante, enigmatico custode di antichi saperi, pronto a guidarla lungo il leggendario e quasi dimenticato Sentiero per Gaia. Insieme, intraprendono un viaggio epico tra boschi incantati, fiumi sofferenti e montagne silenziose, affrontando creature d’ombra e riscoprendo la meraviglia. Ogni prova è una lezione, ogni incontro un passo verso la guarigione della Terra e la scoperta della forza interiore. Mariafragolina imparerà il linguaggio segreto della natura, il potere dell’empatia e il coraggio di portare la speranza. “Navigante, Mariafragolina e il Sentiero per Gaia” è un’avventura che scalda il cuore e nutre l’anima. Un invito a riscoprire il legame profondo che ci unisce al pianeta e a credere nella magia di un mondo in cui l’armonia è ancora possibile.

Perché ho scritto questo libro?

Ho scritto “Navigante, Mariafragolina e il Sentiero per Gaia” per un profondo desiderio di riconnessione. In un tempo che spesso dimentica l’ascolto della Terra, ho voluto tessere una storia che parlasse al cuore, ricordandoci la saggezza antica della Natura e la forza della speranza. È un invito a ritrovare la meraviglia nei legami autentici, con noi stessi, con gli altri e con il mondo che ci nutre. Un piccolo seme di luce per un futuro più armonioso e consapevole, ispirato dalle mie radici.

ANTEPRIMA NON EDITATA

 

PROLOGO DI UN MONDO CHE SI AMMALÒ

C’è stato un tempo, non così lontano, che l’inverno dimenticò come si fa l’inverno. Fu l’anno 2020, un anno nato storto, che iniziò con un tepore malato e innaturale in quelle terre abituate al morso del gelo, alle montagne incappucciate di neve spessa come una coperta antica, al sibilo del vento che urlava la sua fame tra le valli. In quell’anno, il silenzio bianco della neve non arrivò, e senza la neve che seppellisce il mondo e lo costringe al riposo, le scuole non chiusero. Non per il solito, atteso motivo, almeno.

La notizia, quella vera, quella che cambiò tutto, arrivò come un malanno sottile. Non una festa, non una liberazione. Iniziò come un sussurro tra gli adulti, un’ombra sui loro volti che i bambini, all’inizio, scambiarono per noia. Poi divenne preoccupazione, una ruga profonda sulla fronte dei padri, un sospiro strozzato nel petto delle madri. Infine, divenne ordine. Un ordine strano, incomprensibile. “Scuole chiuse. In tutta Italia.”

Per un giorno, forse due, fu gioia scomposta. Urla nelle case, salti sui divani. Vacanze! Vacanze inattese, fuori stagione. Ma era una gioia fragile, una bolla sottile sulla superficie di qualcosa di cupo. I bambini, protetti da quell’egoismo benedetto che li isola dai mali troppo grandi, non vedevano, o non volevano vedere, la paura che strisciava negli occhi dei grandi. La paura di qualcosa che non si vedeva, non si toccava, ma che arrivava da lontano, dalla Cina, dicevano, portata dal respiro invisibile del mondo. Un virus. Una parola nuova e affilata. Pandemia. Un’altra parola, ancora più pesante.

Dicevano fosse figlio dei pipistrelli, quella creatura notturna che porta con sé l’eco di vecchie paure. E mentre il mondo fuori rallentava fino a fermarsi, le strade svuotate, le piazze mute, le case divennero piccole prigioni tiepide. La noia, quella vera, quella che non è solo assenza di cose da fare ma presenza di un vuoto pesante, iniziò a premere dall’interno.

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Giulia e Marco, amici da sempre, vicini di casa da sempre, uniti da quella fratellanza che non ha bisogno di sangue ma solo di pomeriggi condivisi e segreti sussurrati, si ritrovarono confinati in quella nuova, strana realtà. Abitavano nello stesso piccolo condominio, in quel paesino che ora sembrava sospeso in un tempo irreale.

Certo, c’erano i compiti online, uno schermo freddo che sostituiva il calore confuso della classe. Giulia aveva i suoi colori, la pasta di sale, mondi che poteva creare con le mani, ma anche la fantasia più accesa si smorzava contro i muri della stessa stanza, giorno dopo giorno. Marco aveva il suo skateboard, compagno silenzioso che ora poteva usare solo sul piccolo terrazzo o, con il permesso ottenuto a fatica, nella mansarda di Giulia. Lui, che viveva di aria aperta, di corse in montagna, del canto degli uccelli, sentiva la mancanza del mondo come una fame fisica. Mancavano le lezioni di musica, il pallone che rotola sull’erba umida, i passi incerti sul palco del corso di teatro, l’odore della palestra. Mancava persino la scuola.

Sì, la scuola. Quel miscuglio inconfondibile di odori: carta nuova e carta vecchia, panini al prosciutto e mortadella dimenticati negli zaini, polvere di gesso, tempera versata, sudore di bambini nelle scarpe da ginnastica dopo l’ora di motoria. Giulia diceva, a volte, chiudendo gli occhi: “Sento odore di maestra…”.

A Marco, dieci anni appena compiuti, i capelli sempre in disordine come i suoi pensieri e un sorriso che a volte inciampava nell’incertezza, mancava la routine. Quella corsa affannata del mattino, il “muoviti che è tardi”, il peso dello zaino, persino la noia di certe lezioni. Mancava la vita, quella vera, disordinata e viva. E ogni giorno, la televisione contava numeri che non sembravano veri, numeri di persone che si ammalavano, che morivano. Il mondo era malato, e la loro infanzia, d’un tratto, sembrava essersi rimpicciolita.

La loro unica, vera risorsa era diventata la mansarda di Giulia. Un sottotetto pieno di cose accatastate, di luce polverosa che filtrava dall’abbaino, un rifugio un po’ disordinato che chiamavano “il luogo del cuore”. Lì Giulia poteva sognare davanti a vecchi film, strimpellare melodie incerte sulla tastiera, travestirsi con improbabili sciarpe della madre. Lì Marco poteva far scorrere le ruote dello skate sul pavimento di legno liscio, avanti e indietro, come un animale in gabbia.

Ma nella mansarda c’era anche una porta sempre chiusa. Lo studio del papà di Giulia. Un luogo proibito, severamente proibito. E dentro quello studio, in un angolo che sembrava dimenticato dal tempo, c’era lui. Il baule.

Un vecchio baule di legno scuro, sbiadito, con le borchie arrugginite e la forma curva e misteriosa delle cose antiche. Apparteneva alla bisnonna Agata, una figura quasi mitologica, vissuta in un tempo lontanissimo. Quel baule era il mistero più grande della mansarda, sigillato da un lucchetto ostinato e da un divieto ancora più ostinato: “Non apritelo. Mai.”

Quante volte i loro sguardi si erano posati su quel custode silenzioso di segreti. Cosa nascondeva? Tesori? Fantasmi? Ricordi troppo pesanti? La tentazione era un prurito sotto la pelle, un sussurro nei pomeriggi più lenti. Ma la paura del rimprovero, e forse un rispetto inconscio per quel divieto così assoluto, li aveva sempre fermati.

Ora, però, era diverso. I giorni si erano allungati a dismisura, gonfi di un tempo vuoto. La noia non era più un fastidio passeggero, ma una nebbia densa che soffocava ogni gioco, ogni fantasia. E il baule, laggiù nell’angolo proibito, sembrava pulsare di una luce propria, chiamarli con un canto muto, irresistibile.

Sgattaiolarono oltre la soglia dello studio. In punta di piedi, trattenendo il respiro. Il cuore di Giulia batteva così forte da farle male alle costole. Quello di Marco galoppava come se stesse correndo una gara. Era il battito della disobbedienza, dell’avventura cercata per disperazione.

AVVENTURA PRIMA DEL GUARDIANO ALATO E DEL RE DEI SOTTERRANEI (Dove si aprono bauli proibiti e si incontrano strani re)

Il glicine quell’anno fiorì con una prepotenza inaudita. Era un vecchio glicine bianco, nodoso e tenace, che ogni primavera tentava di entrare in casa arrampicandosi sulle persiane, infilando i suoi grappoli profumati nelle fessure. Di solito il papà di Giulia lo potava senza pietà, ma quell’anno aveva sospirato: “Lasciamolo stare. Di bellezza non ce n’è mai abbastanza, in questo periodo”. E così i fiori erano entrati, cascate bianche e profumate nel salone della mansarda.

Fu proprio nel pomeriggio in cui il glicine sembrò esplodere in tutta la sua fragile bellezza che i due ragazzi forzarono il vecchio lucchetto. Cedette con un lamento metallico, come un sospiro trattenuto troppo a lungo.

Dentro, l’odore del tempo. Vecchie fotografie dai bordi seghettati, uomini e donne sconosciuti con occhi seri. Tovaglie ingiallite, rammendate con pazienza antica, orlate di pizzi che sembravano ragnatele di zucchero. Un paio di orecchini un po’ anneriti. Uno specchietto dal vetro maculato. Una boccetta di profumo vuota, che odorava ancora vagamente di lavanda e polvere. Un orologio da tasca fermo su un’ora impossibile. Un fazzoletto di lino con un monogramma illeggibile. Una piccola madonna di terracotta, goffa, quasi infantile. Un bambinello dalle guance troppo rosse. Un ventaglio di piume stinte. Una bottiglia di vetro blu scuro, sigillata da un tappo di sughero. Frammenti di vite passate, silenziose e immobili. Una lettera d’amore, la carta sottile come pelle, l’inchiostro sbiadito quasi illeggibile.

Il baule non conteneva tesori scintillanti, ma qualcosa di più prezioso e fragile: il peso immobile del passato.

“Guarda questo! Cos’è?” chiese Marco, tirando fuori la bottiglia blu. “Fai vedere! Aspetta, c’ero prima io!” protestò Giulia, cercando di sbirciare oltre la sua spalla. “Non spingere, sei pesante!” “Mi hai urtato tu per primo!”

Nella piccola contesa, la bottiglia sfuggì di mano a Marco. Cadde sul fondo del baule con un tonfo sordo, ma non si ruppe. Invece, il tappo di sughero saltò via, come spinto da una forza interna.

Non ci fu un suono, non subito. Solo un silenzio improvviso, più profondo di quello fuori. Poi, un fruscio leggerissimo, come di ali immense che si dispiegano nell’aria ferma della stanza. Fu l’ultimo suono del loro mondo che udirono.

Non caddero. Furono tirati. Risucchiati verso il basso, nel buio profondo del baule, che non era più un baule ma un abisso. Non fu una caduta violenta, ma uno scivolare vertiginoso in un nulla denso, freddo, privo di luce e di suono. Il tempo si sgretolò. Lo spazio si contorse. Poi, solo il nero. Un nero assoluto, pesante come terra bagnata.

E nel nero, una voce. Profonda, risonante come il tuono lontano, ma calma. Una voce che sembrava fatta di notte e di alberi antichi. “Perdonate la mia rudezza, piccoli caduti dal cielo. Ma il tempo stringe, e il vostro mondo non poteva più trattenervi.”

Una forma emerse lentamente dall’oscurità, come se la notte stessa stesse prendendo consistenza. Non era un uomo. Era un uccello. Enorme. Un Gufo Reale, grande come un bambino, le piume screziate di bruno, nero e bianco, come corteccia d’albero illuminata dalla luna. Sulla testa, due ciuffi di piume simili a corna gli davano un’aria severa. Ma gli occhi… due dischi d’ambra liquida, vasti e profondi, che non sembravano vedere solo i loro corpi tremanti, ma scavare dentro, fino all’anima. Indossava, cosa assurda e meravigliosa, un paio di occhialini a mezzaluna posati sul becco adunco, che si sistemò con un movimento quasi umano di un’ala. Nonostante la mole e l’aspetto formidabile, quello sguardo non incuteva terrore, ma una strana, antica calma.

“Chi… chi sei?” balbettarono insieme, le voci sottili nel silenzio innaturale.

“Il mio nome è Sir Grimdrur Owl,” gracchiò il gufo, la voce come pietre che rotolano. “Ultimo discendente dei Guardiani del Confine. Custode delle storie dimenticate.” Allungò un’ala, vasta e potente. “Benvenuti, anche se il benvenuto è amaro.”

Giulia strinse le braccia attorno a sé. “Un gufo… parli?” Mormorò, più a se stessa che all’essere incredibile che aveva davanti.

Il gufo inclinò la testa, e un lampo, non di rabbia, ma forse di stanchezza, passò nei suoi occhi dorati. “Tutti parlano, piccola d’uomo. Siete voi che spesso non ascoltate. Ma ora non importa. Vi ho condotti qui, nel Regno di Trunk, il cuore nascosto del vostro stesso baule. Un luogo tra i luoghi. Una soglia.” Fece una pausa, come se le parole gli costassero fatica. “Avete una missione.”

“Una missione?” L’ombra della paura negli occhi di Marco fu sostituita da una scintilla. Era la scintilla dell’avventura, quella che leggeva nei libri e che ora, incredibilmente, lo stava toccando. “Forte!”

“No!” protestò Giulia, e la sua voce tremò un po’. “Io non voglio missioni! Io voglio la mia mamma, la mia camera, i miei pennarelli! Cos’è questo posto? Riportaci indietro!”

“Silenzio!” La voce del gufo si fece più tagliente, vibrante di urgenza. “Non c’è più un ‘indietro’ facile per voi, ora. E il tempo è nemico. Avete un compito. Grave. Necessario.”

“Che compito?” chiesero, la paura che tornava a ghermirli.

“Salvare Gaia,” disse il gufo, con una semplicità terribile. E prima che potessero fare altre domande, con un fruscio potente che sollevò polvere invisibile, svanì. Non volò via. Semplicemente, non c’era più.

Rimasero soli. In un luogo che non era più il nero assoluto, ma una sorta di penombra umida. Sembrava un bosco, o forse solo una radura circondata da alberi altissimi le cui cime si perdevano nel buio. L’aria sapeva di terra bagnata, di muschio e di qualcosa di dolce e sconosciuto. Era scesa la sera, o forse era sempre sera, lì. Un freddo sottile iniziò a penetrarli.

“Marco, ho freddo,” sussurrò Giulia. “E ho fame. E paura. Voglio andare a casa.” La sua voce era un filo sottile.

Marco sentiva le stesse cose. Il freddo nelle ossa, lo stomaco vuoto, e una paura grande, fredda, che gli serrava la gola. Ma era un maschio, e davanti a Giulia non poteva cedere. Si raddrizzò. “Hai sentito? Dobbiamo salvare Gaia! Chiunque sia! È… è il nostro destino! Non fare la femminuccia!” Ma la sua voce non era così ferma come avrebbe voluto.

Proprio mentre parlava, un rumore iniziò a crescere intorno a loro. Un fruscio leggero, insistente, che sembrava venire da ogni direzione. Dall’erba alta, dai rami bassi, dalla terra stessa. E poi, come se qualcuno avesse gettato una manciata di stelle nell’aria, il buio si accese. Migliaia, milioni di piccole luci verdastre, danzanti, intermittenti. Lucciole. Ma erano troppe, troppo luminose. Creavano una sorta di crepuscolo vibrante.

“Vi stavamo aspettando, figli di un altro mondo.”

La voce era vicina, squittente ma stranamente solenne. Dalle ombre ai margini della radura illuminata dalle lucciole, avanzò una figura. Era piccola, non più alta del ginocchio di Marco, ma camminava eretta con una dignità regale. Indossava una sorta di tunica di velluto scuro, ricamata con fili che brillavano come argento. Aveva un muso appuntito, lunghi baffi frementi e occhietti neri, intelligenti e penetranti come schegge di ossidiana. Era un topo.

“Salute a voi,” disse il topo, fermandosi davanti a loro e facendo un piccolo inchino. “Io sono Mus Ratmorn. Re di questo frammento di mondo. Signore dei Topi di Sottosoglia. Guardiano del Passaggio.”

Marco e Giulia si guardarono, sbalorditi. Un gufo parlante, e ora un topo re? Ma prima che potessero dire qualcosa, il Re Topo fece un gesto con una zampina. La nebbia luminosa delle lucciole sembrò intensificarsi, e dietro di lui, emersero altre figure. Decine, centinaia di topi. Topi in piccole armature che scintillavano, topi con minuscoli rotoli di pergamena, topi con cappucci e bisacce, topi con lunghi bastoni. Un intero popolo di roditori li osservava in silenzio, con un’attesa palpabile.

“Sir Grimdrur vi ha parlato della missione,” continuò Re Mus, la sua vocina sorprendentemente chiara e forte. “Ma forse non vi ha detto tutto. Il pericolo è grande, e antico.” Fece un sospiro, che mosse i suoi lunghi baffi. “I nostri mondi, nascosti nelle pieghe del vostro, sono parte di qualcosa di più vasto. Gaia. Non un pianeta, come forse pensate. Gaia è… era… una costellazione di mondi vivi, la Galassia delle Stelle Ridenti la chiamavano i primi poeti. Mondi legati da fili di luce, dove regnavano la gioia, la condivisione, l’armonia.”

Un’ombra passò sui suoi occhietti brillanti. “Ma un’Oscurità è giunta. Asgard Black Hole, il Divoratore di Luce, un vuoto affamato nel cuore del cosmo. Egli odia la luce, odia la gioia. E ha creato un veleno. Lo Slumberot.” La parola suonò sinistra nel silenzio della radura. “Un’essenza impalpabile, un morbo dell’anima. Non uccide il corpo, ma spegne lo spirito. Si insinua come nebbia fredda, ruba i sorrisi, appesantisce i cuori, lascia dietro di sé solo apatia, indifferenza, un sonno pesante dell’anima.”

Il Re si avvicinò ancora. “Lo Slumberot si sta diffondendo. Ha già raggiunto molti mondi di Gaia. Se dovesse attecchire anche qui, nel cuore dei regni nascosti, la nostra luce si spegnerebbe per sempre. E forse,” aggiunse, guardandoli con intensità, “anche la malattia che affligge il vostro mondo è un’eco lontana, un riflesso distorto di questo male più grande.”

“Ma le antiche profezie parlavano di voi,” riprese, con un filo di speranza nella voce. “Due giovani da Oltreconfine. Cuori non ancora toccati dall’ombra, abbastanza puri e forti da resistere allo Slumberot. Eroi in grado di ritrovare la via per Gaia e riaccendere la sua luce.” Abbassò lo sguardo su di loro. “Giulia. Marco. Voi siete la nostra unica speranza.”

La missione. Salvare Gaia. Sembrava un compito per giganti, per eroi leggendari. Non per due bambini spaventati e affamati, persi in un mondo di topi parlanti.

“Ma… come possiamo?” chiese Giulia, la voce rotta. “Siamo solo… bambini.”

Marco si fece avanti, cercando di sembrare coraggioso. “Sì, Maestà. Con tutto il rispetto… ma come potremmo noi…? E poi, Giulia è… beh, è una femmina.” Arrossì subito dopo averlo detto, sentendo lo sguardo di fuoco di Giulia su di sé.

Re Mus Ratmorn ebbe un piccolo fremito dei baffi, che forse era un sorriso. “È proprio la vostra piccolezza, la vostra apparente fragilità, che vi rende potenti,” disse con calma. “Voi venite da un mondo che Asgard non conosce, non comprende. Lo Slumberot non ha ancora potere sulla vostra essenza. La vostra mente è libera, il vostro cuore, seppur spaventato, è ancora capace di quella luce pura che Asgard teme più di ogni altra cosa: la speranza, l’affetto, il coraggio nato non dalla forza, ma dalla necessità.”

Poi il suo volto si fece serio. “Ma non crediate sia facile. Asgard ha un servo potente. Rasputin. Un mutaforma, un ingannatore. Spesso prende le sembianze di un pipistrello, creatura della notte e del dubbio. Si insinua, sussurra veleni, corrompe. State attenti. Il male ha molte maschere.”

Un brivido freddo percorse Giulia. “Pipistrelli…” mormorò. “Anche da noi… dicono che siano stati loro a portare il virus…”

“Forse,” disse Re Mus con voce grave, “le storie, anche quelle più strane, hanno radici profonde che attraversano i mondi. Ma ora non c’è tempo per i forse. Dovete agire.” Si raddrizzò sulla sua piccola statura. “Avvicinatevi. Ricevete la mia benedizione. E nuovi nomi, per questo nuovo cammino.”

Esitanti, i due ragazzi si inginocchiarono sulla terra umida. Il Re Topo posò una zampina sulla testa di entrambi. Una sensazione strana, non calda né fredda, ma come un formicolio interno, li percorse.

“Tu,” disse guardando Marco, “che nel tuo mondo cavalchi il legno che scorre, qui sarai Navigante. Perché dovrai navigare sentieri incerti e correnti pericolose.”

Poi si volse a Giulia. “E tu, piccola dal cuore tenace e dalle guance che arrossiscono come frutti di bosco, sarai Mariafragolina. Perché anche nella paura, la tua vitalità è un seme di speranza.”

Navigante. Mariafragolina. I nomi suonavano strani, ma in qualche modo giusti.

“Ora ascoltate,” disse Re Mus. “Gaia è sostenuta da quattro elementi primordiali: il Soffio Vitale di Aer, le Acque Pure di Aqua, la Roccia Madre di Terra e il Fuoco Sacro di Ignis. Rasputin cerca di corromperli, di piegarli al volere oscuro di Asgard. Dovete raggiungerli prima di lui. Proteggerli. Solo così potrete trovare la strada per Gaia, nascosta nel Necrocosmo, la regione delle stelle morte, e liberarla. E forse, così facendo, curerete anche le ferite del vostro mondo.”

Fece un altro gesto. Dal buio del bosco, leggera come un respiro, fluttuò fino ai loro piedi una foglia. Era di un verde intenso, quasi luminoso, dalla forma simile a quella della melissa, ma più grande, e emanava un profumo fresco, agrumato e selvatico. “La Cedronella,” sussurrò il Re. “Vi proteggerà dagli inganni minori e vi guiderà dove la ragione si perde.”

Nello stesso istante, dall’alto, silenziosa come neve, cadde una piuma. Morbida, screziata di marrone e crema. Si posò accanto alla foglia.

Nessuno parlò, ma entrambi sentirono, non con le orecchie ma dentro di sé, l’eco della voce profonda del Gufo: “Dove cade una mia piuma, lì è il mio sguardo. Dove il vento la muove, lì è il mio pensiero. Non sarete soli.”

Poi, solo il fruscio delle lucciole e il silenzio carico di attesa del popolo dei topi. La missione era iniziata. Erano Navigante e Mariafragolina. Ed erano terribilmente, profondamente spaventati.

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Annalisa Bavusi
Annalisa Bavusi, nata a Potenza nel 1972, è una professionista della comunicazione e del counseling relazionale, profondamente legata alle sue radici lucane. Con una formazione umanistica e una laurea in Scienze della Comunicazione, si dedica a potenziare l'espressione e l'inclusione.

Opera come arteterapeuta, pedagogista teatrale, assistente alla comunicazione per persone con disabilità, tutor DSA e tecnico ABA, utilizzando un approccio multidisciplinare per favorire la crescita individuale e le abilità comunicative in diverse fasce d'età e contesti. La scrittura è una delle sue forme di comunicazione privilegiate.
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