La signora incede con passo marziale e fare altezzoso, ha un abito elegante e attillato che non la stringe a salsicciotto come spesso capita di vedere. Porta una borsa firmata ed è carica di gioielli (o di paccottiglia? Chi lo sa …): anelli, braccialetti, collane, spille, le manca la corona (ma forse la tiene nella borsa) e un paggio che le tenga lo strascico.
Siamo in fila da un po’ di tempo. Il check-in all’aeroporto di Atene per la nostra coincidenza è intasato e la coda è ferma, non si sa perché. Il tempo per l’imbarco sull’aereo diretto a Creta scorre inesorabilmente.
Lei ci passa accanto senza degnarci di uno sguardo, salta tutta la fila e va direttamente al banco del check-in dove una signorina in difficoltà balbetta scuse in qua e in là mentre tergiversa al telefono. La regina non pone tempo in mezzo e comincia ad apostrofarla.
Naturalmente non si capisce niente: si suppone, dai toni e dai gesti, che stia protestando e pretendendo che la sua regalità venga ripagata con un servizio impeccabile e con aerei che partono in orario (e quando mai ad Atene?). Ci sta un buon quarto d’ora e ad un tratto smette di parlare e resta lì, impalata davanti al bancone con aria evidentemente seccata.
Comincia a salire l’inquietudine e la rabbia, dagli altoparlanti non arrivano notizie, i pannelli delle partenze sono muti riguardo al nostro volo e mi accorgo di stringere un po’ troppo la maniglia della nostra valigia a scacchi rossi e neri (sembra ricavata da un kilt un po’ vistoso appartenente ad un Clan delle Highland, speriamo che nella fila non ci sia qualcuno di Ullapol o Inverness, se no ci attacca bottone).
Finalmente chi è più avanti nella fila estorce un indizio: pare che il volo sia stato cancellato.
“Cancellatooooo???”
“Potrete partire domattina. Se dovete andare in albergo vi verrà rimborsata la spesa.” Questa frase lo dice in un corretto inglese la signorina, evidentemente imbarazzata.
“Come, in albergo?” dico io “ma dove? Quale? Quando?” mentre mi si stanno raddrizzando i riccioli sulla nuca.
Inevitabili mormorii cominciano a serpeggiare lungo la chilometrica coda. Gli aspiranti viaggiatori cominciano ad agitarsi e noi non siamo da meno. A Creta dobbiamo prendere un autobus per il campeggio: dobbiamo? Meglio dire dovremmo o avremmo dovuto o coniugare il verbo dovere con l’ansia e la preoccupazione di veder svanire un pezzo di vacanza in un “dovrebbimo” da quattro in pagella che però rende l’idea.
Ma forse è meglio fare un passo indietro.
…
“Una mia collega è stata a Paleochora: è stata benissimo, in un campeggio sul mare.” Lo dice Alessandra ed ha gli occhi brillanti e spalancati dalla prospettiva di tornare a Creta.
“Perché no?” rispondo io felice per la meta della nostra vacanza. “Chissà com’è in piena estate.”
Infatti è luglio e a Firenze si bolle come al solito.
Abbiamo fatto il nostro programma: Roma Fiumicino – cambio ad Atene e poi Iraklion tutto in aereo, poi in pullman fino alla nostra meta.
Al campeggio troveremo il nostro bungalow, già prenotato e pagato.
Non stiamo già nella pelle, viviamo insieme da un anno ormai e dobbiamo solo sistemare i nostri amici felini.
Merlino e Valentina ci guardano un po’ smarriti mentre girovagano da una mattonella all’altra in cerca di fresco, li capisco, a forza di mozzarelle, insalata e pomodori i capelli mi stanno diventando verdolini e la saliva produce una schiuma lattiginosa.
Non vedo l’ora di stare davanti al mare ad ascoltare i gabbiani piuttosto che i rumori di quartiere: le macchine che passano o il motociclista che sgasa alle due del mattino; la coppia di nerd in gonnella che fanno la lavatrice a mezzanotte nel terrazzo, con la centrifuga che attacca all’una di notte proprio davanti a camera nostra; le comari che chiacchierano urlando da una finestra all’altra; ma soprattutto quello che abbiamo ribattezzato il “Mago del bricolage”, un uomo di mezza età affacciato al terrazzo del secondo piano fronte al nostro che sega, lima, trapana non si sa cosa, pulimenta, strofina e lucida con qualsiasi attrezzo, a tutte le ore.
Qualche volta mi sono affacciato a guardarlo pensando a cosa potesse nascondere nella stanza dietro alla finestra: una scultura moderna? La macchina del tempo? Una gabbia per Dodo redivivi o magari per la moglie petulante e brontolona? Non lo saprò mai, ma certo è che il signore è instancabile e puntiglioso, porta occhiali spessi e non si cura se qualcuno si incuriosisce del suo rumoreggiare. Potenza del fai-da-te…
Buone notizie, l’aereo partirà. Proprio mentre nella coda cominciava un rompete le righe con qualcuno che cominciava a frugare nei bagagli, forse per tirare fuori un’arma adatta per frantumare il laminato del bancone del check-in: un ascia, una mazza o una sega circolare. Ci fosse stato il Mago del bricolage ne avrebbe ricavato una copia in scala del Partenone.
Sì, partiremo, ma in quanto ad arrivare ce ne corre. Infatti appena a destinazione apprendiamo che l’ultimo autobus per Paleochora si è appena dileguato. “Maremma …”
In Toscana la Maremma è spesso citata in sostituzione di più illustri personaggi che vengono celebrati solitamente nei luoghi di culto e l’allocuzione è fatta apposta per non incorrere in scomuniche o lunghe diatribe con San Pietro allorché ritarda ad aprire le famose porte.
Ci tocca prendere un taxi.
Dopo lunghe trattative ne troviamo uno disposto a portarci fino a Paleochora.
Il viaggio è lungo, arriviamo che sta già facendo notte, con difficoltà troviamo il campeggio: una parola in lingua italiana spicca sull’insegna dipinta accanto al cancello d’entrata.
“Bene” penso “a giudicare dalla scritta, ci sta di potersi comprendere”. Congedato il tassista che “moccolava” (toscanismo ellenico equivalente a lanciare epiteti e maledizioni in direzione ultraterrena), o almeno così sembrava dai toni e dai gesti, entriamo in uno spazio poco illuminato con lampioni sferici, vialetti in ghiaia e terra, arbusti sparuti e qualche piccolo albero: “Sarà l’effetto della penombra crepuscolare, ma sembra di essere in una ghost city americana, ci manca solo il coyote che ulula.”
Alessandra è più ottimista:
“Magari i bungalow sono carini ...”
“E speriamo di trovare qualcosa da mangiare, il panino di Atene mi è già arrivato …” sospendo la frase perché ci viene incontro la proprietaria: una signora muscolosa con i capelli corti e l’aria arcigna.
“Buonasera!” dico io sorridendo e sperando in una risposta confortevole.
“Good evening.” Risponde lei in anglo-tedesco.
Ecco.
“Maremma ma….” non lo dico ma lo penso fortemente e che non se ne pigli a male l’entourage di San Pietro “è mai possibile che non ci sia scampo dalla Germania? Di questo passo l’isola si chiamerà Kreten e i suoi abitanti Kretin… lasciamo stare.”
La valchiria ci consegna la chiave e ci indica il nostro alloggio informandoci che nella struttura non c’è punto di ristoro ma che c’è una taverna a pochi passi dal cancello che forse è ancora aperta (come “forse”, non scherziamo).
Appoggiamo i nostri bagagli nel bungalow (a prima vista lo giudico un tugurio ma sarò sicuramente contrariato dalla giornata storta e dalla fretta) e voliamo via nella speranza di mangiare qualcosa perché aspetta qui e aspetta là si sono fatte le dieci di sera.
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Dormiamo perché siamo sfiniti, il caldo si attenua quando l’aurora è vicina e noi ci alziamo tardi.
Con la luce del giorno possiamo cogliere appieno l’interno del nostro alloggio: più che un bungalow sul mare sembra un loft cittadino. In muratura, ampio e attrezzato con un piccolo bagno, angolo cucina con lavandino e tutto quanto serve (stoviglie e pentolame compresi). Le pareti sono dipinte in bianco sporco, non ricordo che ci fossero quadri o altri motivi decorativi alle pareti. Una tristezza desolante. Non siamo mica venuti per fare la spesa e prepararci da mangiare. E nemmeno per lavarci le mutande.
“Dove siamo capitati?”
La mia compagna non dice niente, basta guardarla per capire che condivide la mia esclamazione e che, anzi, avrebbe da appesantire il commento con qualcosa di più pepato. In effetti una nuova evocazione di quel territorio al confine tra Toscana e Lazio ci starebbe bene ma sono troppo sconfortato, perfino per buttarla un po’ sul ridere: sarà colpa della nottata, non è da me.
La ciliegina sulla torta la troviamo uscendo: sul giardinetto antistante, proprio vicino alla finestra dove dormiamo troneggia una enorme bica di merda canina e poco più in là sta seduto l’autore del capolavoro, un cane da pastore logicamente, inequivocabilmente e inevitabilmente tedesco.
Tutto questo è accompagnato da una sinfonia che ci allieterà per tutto il giorno: un continuo ronzio di mosche felici e banchettanti.
“E ci credo che sentivo odore di bottino …”
In quel momento avrei spedito, seduta stante, proprietà, cane, mosche e i loro escrementi dritti dentro la Tolomea dantesca a prendere un po’ di fresco dove albergano i traditori degli ospiti.
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