Era una notte senza stelle, una notte di luna nera, quando il cielo sembrava aver inghiottito ogni barlume di luce, lasciando il mondo avvolto in un’oscurità spessa e opprimente.
Il vento soffiava gelido, portando con sé il lamento degli alberi scheletrici e il sussurro di una disperazione antica.
Era una notte che sembrava uscita da un incubo, una notte in cui il confine tra il mondo dei vivi e quello degli spiriti si assottigliava fino a svanire.
Il villaggio, un tempo vivace e pieno di vita, era ormai un luogo di ombre e silenzio. I raccolti erano andati perduti, i campi un tempo rigogliosi ridotti a distese di terra arida e crepata. Il bestiame, fonte di sostentamento e orgoglio, giaceva morto nelle stalle, i corpi rigidi e gli occhi vitrei. La carestia aveva portato via troppe vite: bambini dagli occhi infossati, anziani che si spegnevano nel sonno, madri che non avevano più lacrime da piangere. L’aria era pesante di un odore dolciastro, quello della morte e della disperazione.
In mezzo a questo caos, c’era una donna.
Elara, la madre gentile dal cuore spezzato, camminava nella foresta proibita con una candela spenta, un pezzo di pane raffermo e una manciata di terra sterile stretti tra le mani. Le sue guance erano solcate da lacrime ormai fredde, ma i suoi passi non vacillavano. Doveva salvare Maia, l’ultima figlia che le rimaneva.
Aveva perso tutto: suo marito era morto di fame mesi prima, e suo figlio più piccolo era stato portato via da una febbre che nessuno aveva saputo curare. Rimaneva solo lei e la sua bambina più grande, Maia, che giaceva debole e pallida nel loro tugurio, troppo stanca persino per piangere. Elara non poteva sopportare di vedere sua figlia morire. Non poteva sopportare di perdere l’ultima cosa che le rimaneva.
Fu così che, nella notte più buia dell’anno, la disperazione la spinse a compiere l’impensabile.
La foresta respirava attorno a lei. I rami nodosi si piegavano come dita ossute, e le ombre danzanti sembravano sussurrarle di tornare indietro. Ma Elara avanzò, guidata da un istinto più forte della paura. Camminò per ore, i piedi sanguinanti e il cuore in gola.
All’improvviso, davanti a lei apparve una radura. Al centro c’era un albero antico, le cui radici sembravano intrecciarsi con le ossa della terra. Sotto l’albero, avvolta in un mantello di ombre, c’era la Strega della Luna Nera.
La creatura era alta e sinuosa, con occhi che brillavano di un bagliore viola e una pelle così pallida da sembrare traslucida. I suoi capelli erano neri come la pece e fluttuavano intorno a lei come serpenti nell’aria immobile. Quando parlò, la sua voce era un sussurro gelido che sembrava provenire da ogni direzione.
«Cosa cerchi, figlia della disperazione?» chiese, fissando Elara con uno sguardo che sembrava vedere dentro di lei, oltre di lei.
Elara cadde in ginocchio, le mani tremanti che stringevano le sue misere offerte. «Salvezza,» sussurrò, la voce rotta dalle lacrime. «Salva il mio villaggio. Salva mia figlia. Ti prego, farò qualsiasi cosa.»
La Strega sorrise, un sorriso che non prometteva nulla di buono, un gesto che non raggiunse mai gli occhi. «Ti darò una figlia,» disse, avvicinandosi fino a sfiorarle il ventre con una mano scheletrica. «Una bambina che porterà con sé il potere della notte. Ma sappi questo: porterà con sé la maledizione della luna nera; una maledizione che non potrà mai essere spezzata.»
Un brivido gelido attraversò Elara. Le parole della Strega le perforarono l’anima come spine. «La sua vita sarà il prezzo del tuo desiderio,» sibilò la Strega. «Quando il villaggio fiorirà, il sangue di tua figlia nutrirà la terra. Sei pronta a condannarla per salvare gli altri?»
Elara esitò, il cuore stretto in una morsa di paura. Ma poi pensò a Maia, alla sua bambina che stava morendo, e al villaggio che non poteva più sopportare di vedere soffrire. Con un singhiozzo, annuì. «Qualsiasi cosa,» disse. «Anche questo.»
Un brivido gelido la attraversò, e per un momento il mondo sembrò fermarsi. Nelle sue orecchie risuonò il pianto di una bambina che non era ancora nata. Poi, la Strega scomparve, lasciando Elara sola nella radura, con il peso di una promessa che non avrebbe mai potuto comprendere appieno.
La nascita di Nera Notte
Nove mesi dopo, in una notte ugualmente oscura, priva di stelle, Elara iniziò a partorire.
Il villaggio, che aveva sofferto per anni sotto il giogo della carestia, rinacque come un fiore avvelenato. I campi, un tempo aridi e sterili, si riempirono di spighe rigogliose, ma il loro colore era innaturale: un viola profondo che ricordava il bagliore degli occhi della Strega. Le radici del grano si insinuavano nel terreno come vene nere, e quando il vento soffiava, le messi ondeggiavano con un sussurro metallico, come se le stesse piante mormorassero segreti oscuri.
Gli animali non furono da meno. Le mucche partorirono vitelli con occhi bianchi e senza pupille, le zampe nodose e il manto chiazzato di macchie che pulsavano al ritmo della luna. I cani ululavano alla soglia delle case, i loro versi distorti in latrati che sembravano risate umane. Persino l’acqua dei pozzi, un tempo fangosa e scarsa, scorreva limpida ma gelida, con un retrogusto di cenere e sangue che nessun fuoco riusciva a mascherare.
La gente del villaggio, pur non sapendo nulla del patto stretto da Elara con la Strega della Luna Nera, sospettava che qualcosa di soprannaturale fosse accaduto. Di giorno, si dicevano l’un l’altro: «È un miracolo! La terra ci ha perdonati!», mentre raccoglievano il grano violaceo con mani tremanti. Ma di notte, quando le ombre si allungavano oltre il fuoco dei focolari, gli anziani si riunivano in segreto. «Le radici delle querce hanno divorato il cane di Marta», bisbigliava un uomo, stringendo un rosario di ossa di pollo. «Ho visto i semi muoversi sotto la terra, come vermi affamati…»
La bambina nacque in una notte senza luna, quando il cielo era un manto nero e il vento sembrava sussurrare parole antiche. Elara, stremata dal parto, guardò sua figlia per la prima volta e sentì un misto di amore e terrore. La bambina era nera come l’inchiostro, con una pelle fredda e vellutata come l’ala di un pipistrello, che sembrava assorbire la luce delle candele. I suoi occhi erano pozzi d’ombra, profondi e inquietanti, e quando piangeva, il suo lamento sembrava provenire da un luogo lontano, come se fosse un’eco della notte stessa.
Elara la chiamò Nera Notte, un nome che rifletteva il suo aspetto e il destino che sembrava già gravare su di lei. Nonostante il suo aspetto insolito, la madre l’amava con tutto il cuore. Ma il villaggio non fu così accogliente. Fin dai primi giorni, la gente mormorava. «È un presagio», dicevano alcuni. «Porta sfortuna», sussurravano altri.
Elara cercava di proteggere sua figlia, ma anche lei iniziava a sentire il peso della maledizione. Ogni giorno che passava, si sentiva più debole, come se la vita stessa le stesse sfuggendo tra le dita. Eppure, quando guardava Maia, la sua primogenita, ora in grado di sorridere e mangiare una zuppa calda, ripeteva a sé stessa che ne era valsa la pena.
Nera Notte crebbe come un’emarginata. I bambini del villaggio la evitavano, spaventati dal suo aspetto e dagli strani fenomeni che sembravano accadere intorno a lei. Le piante vicino alla loro casa appassivano più rapidamente del normale, e gli animali si agitavano quando lei si avvicinava. I ragni cadevano morti dal soffitto quando la bambina piangeva, e le radici degli alberi si contorcevano al suo passaggio, come se cercassero di sfuggirle.
Era una bambina solitaria, che passava le sue giornate a esplorare i margini della foresta, l’unico posto dove si sentiva libera. Lì, tra gli alberi nodosi e le ombre danzanti, trovava un po’ di pace. Ma anche lì, la maledizione iniziava a farsi sentire. Le piante che toccava appassivano, e gli uccelli che si posavano sui rami vicini cadevano a terra, privi di vita.
Una notte, mentre Elara cullava Nera Notte vicino al focolare, una radice nera sfondò il pavimento di terra battuta. Si contorse come un serpente morente, sfiorando la culla prima di dissolversi in polvere. Sul legno rimase una macchia a forma di mano, le dita troppo lunghe per essere umane.
«Cosa sei?» sussurrò Elara alla figlia addormentata, ma l’unica risposta fu il gemito del vento oltre la porta.
Nella foresta, la Strega della Luna Nera sorrideva.
La morte di Elara
Il giorno del nono compleanno di Nera Notte, il villaggio festeggiava un raccolto abbondante. I bambini correvano tra le tavolate imbandite, gli uomini brindavano con vino violaceo, e le risate riempivano l’aria. Ma Nera Notte, esclusa dai festeggiamenti, si rifugiò nella foresta. Sentiva una pressione al petto, come se le radici degli alberi le stessero crescendo dentro le vene, e una strana energia pulsava dentro di lei, come se la luna stessa la stesse chiamando.
All’improvviso, il terreno sotto i suoi piedi iniziò a screpolarsi, le piante intorno a lei appassirono all’istante e gli animali della foresta caddero morti. L’aria divenne pesante, opprimente, satura di un odore dolciastro che non era più solo morte, ma promessa. Terrorizzata, Nera Notte corse a casa, ma ciò che trovò la spezzò.
Elara giaceva riversa sul pavimento di terra, il respiro affannoso, gli occhi pieni di paura e le labbra screpolate di sangue nero. «Non è colpa tua,» sussurrò la donna, accarezzando il volto della figlia con mano tremante. Ma Nera Notte sapeva. Lo vedeva nelle crepe che si aprivano sul muro alle sue spalle, nel gatto morto sul focolare con gli occhi svuotati dalle larve. Capì che era stata lei a causare tutto. La maledizione era reale.
Quella notte, Elara morì. Il suo respiro si fermò lentamente, come una candela che si spegne nell’oscurità, e il suo ultimo sibilo fece oscillare le fiamme delle candele, come se un invisibile sigillo si fosse spezzato. Nera Notte, ancora una bambina, rimase accanto a lei, stringendole la mano mentre le lacrime le solcavano il viso. Non capiva del tutto cosa stesse accadendo, ma sentiva un vuoto profondo, un dolore che le lacerava il cuore. Era come se una parte di lei fosse morta insieme a Elara.
Il villaggio, già superstizioso e spaventato, non perse tempo. Tre giorni dopo, gli anziani si riunirono nella cantina del fabbro, lontano dagli orecchi curiosi. Le candele di sego proiettavano ombre distorte sui muri di pietra, e l’aria era pesante di paura e sudore.
«Prima Elara, ora i campi,» esordì il capo villaggio, stringendo un amuleto di ferro a forma di falce. «Le radici hanno divorato il grano a est. I miei figli dicono di aver visto lei parlare con le querce.»
Una donna con un neonato in braccio scoppiò in singhiozzi. «Mia figlia non mangia da tre giorni. Ogni volta che provo a darle un boccone, lo vomita nero… come l’inchiostro! È colpa di quella demoniaca!»
Un uomo con una cicatrice a forma di serpente sulla guancia sbatté un pugno sul tavolo. «I miei maiali sono impazziti. Uno ha sbranato il suo cucciolo. Ho visto la bambina guardarli prima che accadesse… rideva!»
Il fabbro, di solito silenzioso, estrasse un pezzo di metallo contorto. «Ho trovato questo nel pozzo. L’acqua è diventata nera come il suo nome! La terra ci maledice attraverso di lei.»
Quando il corpo di Elara fu sepolto sotto una quercia rinsecchita, nessuno pianse. Gli sguardi erano tutti rivolti a Nera Notte, che osservava la fossa con occhi asciutti e profondi come pozzi.
«Via da qui!» urlò improvvisamente un ragazzo, lanciando un sasso che la colpì alla spalla. «Hai ucciso tua madre! Ucciderai tutti!»
La folla mormorò, un coro di voci che si fece sempre più feroce. «Strega!» «Malocchio!» «Mandiamola via prima che ci divori!»
Nera Notte non oppose resistenza quando la trascinarono fuori dal villaggio. La gettarono oltre le mura con solo un mantello logoro, ma era il mantello di Elara, e il peso della sua maledizione. Mentre le porte si chiudevano alle sue spalle, vide una radice nera strisciare lungo il muro di cinta, penetrare nella casa del fabbro e avvolgere il neonato nella culla.
La bambina sorrise per la prima volta in vita sua.
Mentre camminava lontano dal villaggio, il mondo intorno a lei sembrava morire. Le piante ai suoi piedi appassivano, le foglie verdi diventavano marroni e secche, come se il tempo si fosse accelerato per divorarle. Gli uccelli cadevano dal cielo, i loro corpi leggeri come piume che si posavano al suolo senza vita. Il terreno stesso perdeva vitalità, diventando arido e sterile, come se il tocco di Nera Notte portasse con sé la fine di ogni cosa.
Non capiva ancora tutto. Non capiva perché il mondo la odiasse, perché tutto ciò che toccava morisse. Ma sapeva una cosa: era sola. Il villaggio che l’aveva respinta era ormai solo un’ombra lontana, e la foresta che si stendeva davanti a lei era un luogo di oscurità e mistero.
Camminò per ore, i piedi doloranti e il cuore pesante, finché non crollò esausta sotto un albero antico, le cui radici sembravano intrecciarsi con le ossa della terra. Lì, sotto la luna nera, Nera Notte pianse. Pianse per sua madre, per il villaggio che non l’aveva mai accettata, e per il destino che sembrava gravare su di lei come una maledizione senza fine.
Ma tra le lacrime, qualcosa dentro di lei iniziò a cambiare.
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