La violenza sulle donne non è soltanto un fatto di cronaca o una statistica da riportare nei rapporti annuali. È un’ombra che attraversa il tempo e le culture, insinuandosi silenziosamente nella quotidianità, spesso mascherata da normalità. Parlare di questa violenza significa entrare in un universo complesso, dove il confine tra vittima e carnefice non è mai solo una linea netta, ma una trama di relazioni, contesti e dinamiche che si annodano e si stratificano.
Dietro ogni storia di violenza c’è una donna. C’è un nome, un volto, una vita. Non sono numeri, non sono titoli di giornale. Sono madri, sorelle, amiche, colleghe. E, soprattutto, sono esseri umani. Comprendere la violenza di cui sono oggetto significa prima di tutto riconoscerle, ascoltarle e dare voce al loro silenzio. Perché spesso quel silenzio non è una scelta, ma una condizione imposta da un sistema che fatica a vedere e, più spesso, a reagire.
Esplorare il fenomeno della violenza sulle donne non è solo un esercizio accademico o una disamina sociologica. È un viaggio attraverso le strutture del potere, i retaggi culturali, le giustificazioni sociali che, nei secoli, hanno legittimato o nascosto le ferite. Ma è anche un invito all’azione: capire per prevenire, indagare per intervenire, parlare per cambiare. Questo libro è un tentativo di illuminare le zone d’ombra, di dare strumenti per decifrare i segni spesso invisibili della violenza e per costruire una risposta che non sia solo reattiva, ma trasformativa.
Le pagine che seguiranno non saranno facili da leggere. Non devono esserlo. Affrontare la violenza sulle donne significa affrontare le contraddizioni di una società che, ancora oggi, fatica a guardarsi allo specchio. Ma è proprio da questo sguardo lucido che nasce la possibilità di un cambiamento reale. Perché ogni storia di violenza interrotta, ogni vita salvata, è un passo verso una società più giusta e umana.
La violenza sulle donne si manifesta in molte forme. Non è soltanto la violenza fisica, quella che lascia lividi sul corpo. Esistono ferite invisibili, molto più difficili da individuare, ma altrettanto devastanti. C’è la violenza psicologica, fatta di parole che feriscono, umiliano, manipolano. C’è la violenza economica, che priva la donna della sua indipendenza e della sua dignità, tenendola in una condizione di subordinazione. C’è la violenza sessuale, che invade il corpo e l’intimità, privandola del controllo su se stessa. E poi c’è la violenza istituzionale, quella che si consuma nei tribunali, negli uffici pubblici, nelle stanze dove si prendono decisioni che dovrebbero proteggerla e che invece, troppo spesso, la abbandonano.
Ma queste forme di violenza non sono fenomeni isolati. Sono l’espressione di una cultura più ampia che, in maniera più o meno consapevole, continua a perpetuare disuguaglianze di genere e a giustificare comportamenti abusanti. Quando una donna viene colpita, non è solo lei a subire un danno. È l’intera società che si impoverisce, che perde un pezzo della sua umanità.
Affrontare il tema della violenza sulle donne significa, dunque, interrogarsi sulle radici profonde di questo fenomeno. Significa chiedersi perché, ancora oggi, è così difficile per una donna denunciare, perché molte si trovano sole ad affrontare il loro calvario, perché le risposte delle istituzioni sono spesso inadeguate o tardive. Significa anche riconoscere che la violenza non è un destino inevitabile, ma un problema sociale che può e deve essere contrastato.
In questo percorso, non possiamo limitarci a individuare i responsabili diretti della violenza. Dobbiamo guardare al contesto, alle dinamiche che creano le condizioni per cui questa violenza possa esistere e riprodursi. Dobbiamo analizzare il linguaggio, le immagini, i modelli che vengono trasmessi e che, spesso inconsapevolmente, contribuiscono a perpetuare stereotipi e pregiudizi. E dobbiamo chiederci quale ruolo possiamo giocare, come individui e come comunità, per cambiare questo stato di cose.
Le donne che hanno subito violenza non sono solo vittime. Sono sopravvissute. Portano con sé un coraggio e una forza che meritano di essere riconosciuti e valorizzati. Ascoltarle significa imparare da loro, comprendere cosa serve davvero per aiutarle a uscire dal ciclo della violenza. Significa anche costruire una rete di solidarietà, dove nessuna si senta mai più sola, dove ogni donna possa trovare il supporto e le risorse di cui ha bisogno.
Questo libro nasce dal desiderio di contribuire a questa battaglia. Non è un trattato freddo e distaccato, ma una riflessione appassionata e partecipata su un tema che ci riguarda tutti. Perché la violenza sulle donne non è un problema delle donne: è un problema della società. E finché non lo affronteremo come tale, continueremo a fallire nel nostro impegno per un mondo più equo e sicuro.
Il cambiamento inizia dalla consapevolezza. Ed è proprio da qui che vogliamo partire: dalla consapevolezza che ognuno di noi ha un ruolo da giocare, che ogni gesto, ogni parola, ogni scelta può fare la differenza. Perché il vero antidoto alla violenza è una cultura basata sul rispetto, sull’uguaglianza, sulla dignità di ogni persona. E questa cultura, insieme, possiamo costruirla.
Capitolo 1
Espressioni d’amore?
Le perline colorate
La violenza contro le donne è una realtà drammatica e purtroppo molto diffusa. Ogni giorno sentiamo notizie di donne uccise dai loro partner o ex, ma questi sono solo i casi che emergono. Molte altre donne soffrono in silenzio, senza trovare il coraggio o la possibilità di chiedere aiuto. I centri antiviolenza raccolgono dati importanti, ma dietro quei numeri c’è un mondo nascosto, fatto di paura, vergogna e isolamento.
Non è facile riconoscere la violenza di genere perché può assumere molte forme. Non si tratta solo di aggressioni fisiche o femminicidi, ma anche di forme più sottili e invisibili che lasciano segni profondi nell’anima, e non anche sul corpo. La violenza psicologica è una delle più insidiose: non si vede, ma logora, giorno dopo giorno. Si manifesta attraverso il controllo, la manipolazione, le critiche continue, l’isolamento. Chi la subisce spesso non si rende conto di quello che sta accadendo, perché l’abuso si nasconde dietro gesti e parole che sembrano normali, ma che, nel tempo, tolgono libertà, sicurezza e autostima.
Nel mio lavoro ho incontrato tante donne che non sapevano di essere vittime di violenza psicologica. Si colpevolizzavano, pensavano di essere loro il problema. La paura, la dipendenza affettiva o economica, la sfiducia nelle istituzioni, il timore del giudizio altrui sono solo alcuni dei motivi per cui molte donne non denunciano e restano intrappolate in queste situazioni. È il cosiddetto “numero oscuro”, tutte quelle storie che non compaiono nelle statistiche, ma che esistono e hanno bisogno di essere ascoltate. È un numero non precisato, di donne che ubiscono violenza e non denunciano, quindi è lecito pensare che le statistiche attuali sulle violenze siano decisamente parziali.
Parlare di questi temi è fondamentale per rompere il silenzio e aiutare chi si trova in difficoltà a riconoscere la violenza e a chiedere aiuto. Nessuno merita di vivere nella paura, e ognuno di noi può fare la differenza imparando a riconoscere i segnali di un abuso e sostenendo chi ne è vittima. Qualche tempo fa mi è stata chiesta un’opinione su una risposta data da un’influencer molto seguita da una sua follower. La ragazza le aveva scritto per chiedere aiuto: era vittima di violenza domestica e non sapeva cosa fare. La risposta dell’influencer è stata sconcertante. Le ha detto, in sostanza, che doveva scegliere tra essere una donna e una madre oppure emanciparsi e denunciare il marito violento. Come se le due cose fossero incompatibili.
Quel messaggio, pubblicato nelle storie per sparire dopo ventiquattr’ore, ha fatto il giro dei social in poche ore, suscitando indignazione. Ma dietro quella risposta c’era una strategia di marketing ben precisa, anche se decisamente infelice. Perché? Perché fa leva su un’idea ancora molto diffusa: quella che una donna, per essere tale, deve accettare qualsiasi sacrificio, anche la violenza, pur di tenere unita la famiglia.
Questa mentalità però non è nata con i social. Prima era trasmessa dalle soap opera, dalle riviste per casalinghe, dalle narrazioni che ci hanno insegnato per secoli. E, nonostante le battaglie combattute da tante donne per ottenere diritti fondamentali, ancora oggi incontro vittime convinte che “amare significhi soffrire”, che “una brava moglie deve sopportare”, che “il peso del mondo è sulle spalle di una mamma”, “una moglie non è una buona moglie se pensa ad andare dall’estetista invece che far trovare la casa pulita al marito che torna stanco da faticare1.
Tutto questo non è normale! E non è giusto! Per questo ho deciso di scrivere queste pagine: non per scandalizzare o fare polemica, ma per raccontare una realtà che troppo spesso viene taciuta. Quello di cui parleremo non è frutto di opinioni personali, ma di esperienze concrete maturate negli anni lavorando sul campo, ascoltando testimonianze, analizzando i fatti di cronaca e il mondo dei social.
Vorrei partire da un punto importante: la “Convenzione di Istanbul”, un accordo internazionale nato per combattere la violenza sulle donne e la violenza domestica. Da lì, arriviamo fino ai giorni nostri, a un periodo storico segnato dalla pandemia e dai lockdown, che hanno esasperato tensioni già esistenti e reso ancora più difficile per molte donne uscire da situazioni di abuso.
Ed è per questo che ho scritto questo libro, il mio desiderio è illustrare nella maniera più semplice possibile, senza addentrarmi nei meandri più nascosti della mente o utilizzare un linguaggio tecnico, meno ancora un linguaggio “legalese”, gli studi sulla violenza, la vittimologia e le soluzioni esistenti; quello che voglio è essere d’aiuto a chi mi legge, niente giri di parole, non sono una azzeccagarbugli dei giorni nostri; ciò che mi preme è divulgare le informazioni che possano permettere di uscire dalla violenza, dare la conoscenza degli strumenti di aiuto a chi conosce una donna che subisce violenza. Per dirla alla Angelina Mango questo libro “non ha perle di saggezza ma perline colorate da snodare piano piano” che spero possano favorire l’uscita da quella gabbia troppo stretta di una relazione che tutto è, tranne che affettiva.
Il mio obiettivo è aiutare a riconoscere la violenza, quella più subdola, quella che si insinua nella vita quotidiana fino a far sembrare “normale” ciò che normale non è. La violenza non è solo un problema delle grandi città, ma anche dei piccoli paesi, delle province, delle case che sembrano perfette dall’esterno.
Viviamo in una società che si definisce moderna, eppure ancora oggi la donna è spesso vista come un “possesso”. Il maschilismo è un’idea distorta che si è radicata nella nostra cultura e continua a condizionare il modo in cui uomini e donne si relazionano. E mentre da un lato si parla di parità, dall’altro il corpo femminile viene costantemente esposto, mercificato, trasformato in un oggetto da desiderare, possedere o controllare2.
Cambiare questa mentalità richiede un grande impegno culturale. Non basta indignarsi sui sociali o condannare chi commette violenza con pene leggere. Serve educazione, consapevolezza, un cambiamento profondo nel modo in cui vediamo e viviamo le relazioni. Solo così possiamo spezzare il ciclo della violenza e costruire un futuro diverso.
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