Camminava indossando degli stivali marroni, di pelle, alti fin sotto il ginocchio. Aveva una lunga falcata e ogni volta che caricava la gamba era come se si trattenesse in un sentirsi compressa. Quando la rilasciava verso terra finiva invece in un perdersi da dove poi sarebbe ripartita. Avvertiva il suo corpo sempre un po’ troppo sbilanciato, troppo rispetto al passo che aveva appena compiuto. Uno scarto che la metteva a disagio nel mondo.
Elle ascoltava sempre i suoi passi, non poteva farne a meno.
L’ascolto, il sentire, erano parte di una natura profonda, di una profondità oceanica difficilmente sondabile.
Arrivava dalla sponda del mare. Aveva attraversato la sabbia grigia di una spiaggia d’inverno che poteva sembrare l’approdo di un mare qualunque. Quel suo usare le gambe per spostarsi da un posto all’altro sembrava spesso inappropriato anche a chi la guardava. Fendeva l’aria come un uccello, affondava e sgusciava nei propri movimenti come fosse in acqua.
Era una gran bella ragazza. Non passava certo inosservata a chiunque allungasse lo sguardo su di lei o sulla sua presenza, cosa che lei matematicamente non sopportava, ma dato che nel suo caso valeva la legge della fisica secondo cui gli opposti si attraggono, era impossibile non seguirla.
La spiaggia era lunga e il cielo bianco.
La temperatura era di un inverno mite. La luce non tradiva alcuna realtà materiale, non in giorni come quelli.
La riva era desertica, l’orizzonte sfocato, l’atmosfera desolata. Il punto in cui la spiaggia incontrava l’asfalto si ribaltava, e diventava il punto esatto in cui la strada incontrava la sabbia.
Elle, che arrivava dalla spiaggia, incontrava l’asfalto, mentre chiunque stesse passeggiando o recandosi per qualsiasi motivo dal centro urbano lì vicino verso il lungomare, avrebbe incontrato, venendo dalla strada, la sabbia.
Punti di vista.
Da un elemento come il catrame, nero, brillante, fumante sotto il sole o duro e grumoso alla penombra, il passaggio si sarebbe smembrato in miliardi di granelli di sabbia, i suoi costituenti. Elle questo lo sentiva e sapeva che lei, arrivando da quei miliardi di granelli, si sarebbe forzatamente dovuta addensare in una forma dura, compatta e solida non appena varcata la soglia col mondo limitrofo. E c’era sempre un mondo limitrofo che si sarebbe distinto dal suo sentire, dal luogo da cui arrivava o in cui si era appena persa e ritrovata. Questo mondo le aveva sempre chiesto di stare più dritta o di essere più lucida, quanto il catrame sotto il sole, oppure di pensare in modo più razionale. Tutto questo modo di vivere a lei non aveva mai fatto bene. Conosceva la durezza del differire e quindi attraversava il mondo con un po’ di timore. Tuttavia si era conquistata un suo modo di esistere e affrontarlo.
Aveva ventitré anni e quel giorno i suoi stivali la stavano accompagnando oltre la via del mare. Dopo una salita abbastanza impegnativa, Elle, di buon fiato, raggiunse il centro urbano. L’accoglievano il ronzio del traffico e un movimento incessante ai lati delle strade, persone che camminavano in entrambe le direzioni. Le porte di botteghe e uffici si aprivano e chiudevano. C’era chi entrava e chi usciva.
Il semaforo cambiava colore, le autovetture si fermavano lentamente e poi facevano a gara a ripartire. L’asfalto qui era solo, al centro della strada, proprio dove passavano le macchine, mentre i marciapiedi erano invasi da una pietra grigia.
I passi di Elle si distinguevano, il rumore secco dei tacchi degli stivali li svelava smangiati dal tempo. Come potesse un rumore cambiare la percezione dell’età di una cosa non era di immediata comprensione. Ed era di nuovo cambiata la luce. Le ore del pomeriggio erano trascorse e il cielo si preparava delicatamente al crepuscolo.
(…)
Ematoma
Tana
Non aveva un filo di trucco, lei che truccava. Tana era una giovane donna senza fronzoli, sentiva pulito il suono metallico delle sue azioni. Il corpo vuoto su cui agiva in dettaglio esercitava un riverbero in lei, che prendeva tutta la sua attenzione, ma non la possedeva. Lasciava scorrere nell’aria quella strana restituzione, e la lasciava andare, perché poi sarebbe tornata a suggerirle delle cose. Intuizioni. Tutto ciò che arrivava così come era arrivato se ne andava, lasciando un segno che lei sapeva raccogliere.
Le sue erano azioni serrate di tanato cosmesi. Davanti a lei, disteso su un tavolo d’acciaio, il corpo di un uomo di mezza età.
“Si tratta di coprire il segno del disfacimento e di abbellire il volto del caro defunto…i
famigliari più stretti ci tengono tantissimo, deve poi essere coordinato con il vestito, sta per partire per un grande viaggio. I famigliari ci tengono moltissimo a come si presenta il loro
caro… – pausa-, ma in alcuni casi, è per pura decenza…il trucco – sorride -, dona un’aria di pace, e chi lo sa…, forse finalmente meritata? Essere morti e mostrarsi è un po’ come essere nudi, ci vuole un po’ di bon ton.”
Bisogna saper portare la propria nudità, così come la propria morte. Tana spiegava questo al mondo, dal sotterraneo dell’ospedale in cui lavorava. L’equilibrio che manteneva aveva qualcosa di sottile, copriva le parti che avrebbero potuto sbilanciarlo.
Davanti a lei c’era una telecamera accesa. Era fissata su un treppiede e aveva un microfono direzionale. Un obiettivo fondo e nero la guardava, guardava la scena di una giovane donna senza trucco che puntellava, tamponava e spennellava il volto senza vita dell’uomo.
L’obiettivo guardava lei e il corpo immobile, registrava le sue azioni senza eco, senza aria, in una cornice fissa.
La sua voce, dolce, tenue e profondamente umana spiegava l’inspiegabile. Insegnava non solo la tecnica, ma piuttosto il modo in cui trattare l’ineffabile questione che sta nell’intercapedine tra il vero e il falso di una morte, tra ciò che mostriamo e che nascondiamo di una vita di cui non sappiamo nulla, tra il coprire e lo svelare una persona nella sua presenza assente. Sussurrare attraverso il trucco della ricomposizione di un volto e di un incarnato, le buone cose che si dicono quando ci si congeda. Creare le veci di chi non c’è più attraverso lo spazio di alcune domande aperte, lasciate in eredità, a chi avesse avuto, o avesse, il coraggio di ascoltare. Tana aveva imparato molto dall’assenza dei suoi utenti.
Non le importava ciò che erano stati, o come fossero venuti a mancare, lei si occupava di conservare l’immobilità del loro presente per un breve lasso di tempo. E in qualche modo erano loro a suggerirle come fare.
Il grado di intimità che aveva sviluppato con l’oggetto del suo lavoro, le aveva spalancato le porte di una percezione della vita e del distacco molto particolari.
Mentre parlava, sola nella stanza, Tana aveva i capelli raccolti in una codina. Qualche ciuffo le scendeva ai lati del viso ovale. Era molto precisa, a suo agio, mentre aggiustava le imperfezioni del corpo.
Fermandosi, lanciò lo sguardo verso un orizzonte lontano. Senza dare spiegazioni, neppure a se stessa, prese un batuffolo di cotone, lo imbevve con del prodotto e prese nuovamente voce:
“le persone entrano ed escono dalla vita, e dalle nostre vite…, in un attimo”
(…)
Le Strozzapreti
(…)
Siamo nell’anno 1820 nella campagna romagnola, nella casa del curato del paese. Il paese tace, è notte. I braccianti dormono con le loro mogli e i figlioletti sognano prima del giorno a venire.
Un colpo, due colpi, tre colpi sinuosi ma di reni, e la veste lunga e nera del curato si ferma dopo avere ondeggiato avanti e indietro da almeno venti minuti immettendo ed estraendo il proprio membro dalle grazie della sua domestica, di poco più giovane di lui. Lei emette un gridolino di piacere, lui l’ascolta e riprende la giostra fino a un culmine dal rumore bianco. Cade accasciandosi sulla complice che, distesa sul piano del tavolo della cucina, in mezzo a farina e impasto, schiacciato e ormai spianato dal peso dell’amplesso, lo smuove di peso.
“A’n fèven la sfója” – abbiamo fatto la sfoglia in romagnolo -, dice.
Purtroppo non andò così. Il curato aveva quarant’anni più di lei e violò la ragazza, appena quindicenne, mentre a tarda sera stava tirando la sfoglia. Era una giovane azdora proveniente da una famiglia caduta in miseria. Venne mandata per necessità ad aiutare la sorella del curato, la perpetua, nelle faccende di casa.
Quella sera l’uomo aveva atteso che la sorella andasse a dormire per intrufolarsi nella cucina e, minacciando la giovane di farle perdere il posto, stremata dal lavoro la costrinse all’amplesso.
La ragazza tenne per sé la violenza subita, non aveva con chi parlare.
Il prete ingordo recitava i sermoni e ospitava nel confessionale diverse donne del paese, che in cambio di reciproci servizi, venivano assolte dai loro peccati coniugali. Da anni proseguivano servigi imbrattati di incensi, senza recare danno all’anima della comunità, che era in realtà atea e non aveva mai reputato il voto di castità del curato un affare serio, quanto più un pegno da dovere sbrigare all’interno della cerchia della parrocchia.
La ragazza faceva rientro alla famiglia per aiutare la madre rimasta vedova e i fratellini, e dividere con loro la paga settimanale.
Il fatto avvenne di venerdì.
Dopo il sopruso la ragazza dovette finire di preparare la sfoglia che doveva essere sufficiente per il fine settimana e fino al lunedì, quando sarebbe dovuta rientrare. L’indomani all’alba si sarebbe incamminata per tornare come sempre faceva alla casa materna.
(…)
LECTIO/Nuovo Porno
(…)
Aveva avuto il loro unico figlio due anni dopo essersi sposati. Il parto era stato, lei diceva, l’esperienza più dolorosa che il suo corpo avesse mai potuto avere. Lo ripeteva spesso al ragazzo, sorridendo e guardandolo dritto negli occhi.
Come tutte le donne veramente mature, era diventata una persona profondamente libera e inafferrabile.
Quel giorno fece un pranzo leggero, un’insalata e un bicchiere di vino bianco. Il ragazzo era ancora in biblioteca a studiare e lei non vedeva l’ora di prepararsi per uscire.
Finì l’ultimo boccone, bevve l’ultimo sorso e fece un sospiro.
Camminando sulla moquette color avorio, si diresse verso il bagno. Si specchiò avvicinandosi al nero delle sue pupille. Appoggiò le mani sui bordi del lavabo e poi lentamente tolse lo sguardo chiudendo gli occhi. Respirando li riaprì e aprì il rubinetto. Con la mano destra prese un po’ d’acqua e si tamponò il viso, le gote e la bocca. Tenne di nuovo gli occhi chiusi per un lungo istante.
Si tolse la vestaglia e il turbante che le avvolgeva i capelli umidi, e stette nuda per un istante. Poi prese un profumo e se lo diede sui capelli, ne prese un altro, e se lo diede leggera su tutto il corpo. Aveva capelli castano scuro e grigi, le arrivavano alle spalle. Una corporatura media, anonima. Per quanto non possa mai essere anonimo il corpo di una donna. Non aveva grandi forme, ma era comunque femminile. Aveva un corpo vissuto e temprato, se ne prendeva cura.
Diretta verso la cabina armadio, camminava calma e nuda per casa inebriata dal profumo che si era appena data.
Arrivata di fronte agli armadi aprì un cassetto e scelse la biancheria intima. Si sedette su un piccolo pouf bordeaux e indossò dei collant color carne, prima una gamba, poi l’altra. Li agganciò con una giarrettiera di seta al punto vita. Indossò poi una sottoveste color avorio e una camicetta, che lasciò aperta.
Andò in camera da letto, si buttò distesa sul lettone guardando il soffitto. Chiuse gli occhi e si lasciò andare ad un profondo riposo di cui non ricordò niente, se non il nero di un magnifico buio rilassante.
(…)
Silenzio qui dentro
La luce era bassa, la stanza scura.
Qualcuno, chiuso in un appartamento, lo stava mettendo a soqquadro.
Muoveva, squilibrava, spingeva le cose. Libri, oggetti, mobili, sedie, un tavolino erano a terra, il divano ribaltato. Avvenne tutto in un breve lasso di tempo, seguendo dei dettagli, che erano davvero molti. Nessun caso, raptus, o attimo di follia, aveva offuscato la lucidità di un piano ponderato del caos.
Senza parole, azioni muscolari eseguivano una sequenza decisa e magnificente. Veniva scelto quel pezzo, e via. Quel quadro, e via. Quella sedia, e via. Quel libro, quell’altro e poi quell’altro, e infine, tutta la libreria.
Era stato ribaltato anche il tappeto. Era giorno, ma le finestre erano chiuse e un po’ di luce filtrava dall’esterno. Il rumore non era importante. Non poteva comunque scappare.
Intanto una donna, vestita in abito nero, abbastanza elegante e con un paio di occhiali con delle lenti semi scure, camminava, veloce e asettica, per una via dove si sentiva anche lo zampettare di un animale.
Arrivata alla fermata di un semaforo pedonale, quando il segnale divenne verde rimase ferma. Mentre le persone imboccavano le strisce pedonali, dopo essersi incantata, di scatto si voltò di lato. Si ridestò e attraversò la strada a seguito degli ultimi pedoni.
La donna aprì la porta ed entrò in casa senza togliersi gli occhiali. Entrando nel soggiorno, guardò man mano il disordine. Fece qualche passo, lentamente, fino a che non si fermò al centro della stanza.
Un uomo era lì, in piedi, di fronte a lei, la salutò affettuosamente.
(…)
Una ragazza dai capelli bianchi
/demenza
Era distesa in posizione fetale su una lastra di marmo fredda. Poggiata sul lato destro, il sinistro rivolto al cielo. Il sangue, nel corpo, era caldo. Il cuore batteva e il respiro lambiva la riva dell’incoscienza.
Dormiva, sembrava, da lungo tempo. Ore interminabili, dense di un sonno profondo. Prima necessità dell’etere.
L’anima era restia. Lo spirito immobile. Intorno era una mezza stagione, un po’ calda e un po’ fredda, di un clima temperato. Pochissimi rumori, o suoni, di sottofondo, si erano rarefatti nell’aria. Un niente, l’avrebbe svegliata.
L’ambiente intorno era una veglia che proteggeva il suo corpo abbandonato. Non lo disturbava, lo cullava, ne aveva cura.
Le striature della lapide su cui giaceva sdraiata sembravano vene, di un tempo nobile, normale. Il marmo era intarsiato, e sotto il suo corpo si dispiegavano lettere che componevano parole illeggibili, per via di una lunga perdita dei sensi.
Stava lì, ferma a dormire su una lapide – non si sa di chi – in un camposanto. Fra tombe, passerelle di erba ben tagliata e alberi sempreverdi – era tardo pomeriggio.
Aveva capelli lunghi, mossi e bianchi, ma era giovane. Avrà avuto trent’anni, forse quaranta. Dormendo sembrava una bambina. Indossava un paio di blue jeans e un maglioncino di lana grigio chiaro, da cui sbucavano i polsini e il colletto sbottonati di una camicetta di cotone color panna. Non portava anelli. Le dita, distese e leggermente separate, le guardavano il volto senza indicare nulla.
Le unghie delle dita erano corte e tonde. Prima di addormentarsi doveva avere preso tra le mani qualcosa, oppure scavato, perché sotto le si era depositato del terriccio. A guardar bene, anche il fondo dei jeans e le ginocchia erano smangiati da un’ombra marrognola. La camicetta sbottonata invece aveva l’aria di essere stata messa sotto il maglioncino a posteriori.
Il respiro, fondo, le sollevava il corpo, e poi lo rilasciava in una immobilità statica, da cui non accennava a partorire alcun risveglio.
Il viso le si era così rilassato da averle schiuso le labbra, che pendevano leggere e senza gravità, verso il fianco su cui era distesa. Nient’altro poteva raccontarla.
Gli alberi, vicini e accanto, e più in là gradualmente distanti, si ergevano a sentinelle di un tempo che passava silente, e che non chiedeva nulla.
Le nubi grigio chiaro scorrevano nel cielo senza minaccia e il sole non batteva, riflettendo comunque un po’ di luce.
A distanza di miglia nessuna voce umana poteva interferire, come non poteva farlo quella spenta di tutti gli altri che non le erano più attorno.
(…)
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