Sia chiaro: questa cronista non intende mettere in discussione le misure di prevenzione nei casi in cui vi siano segnali premonitori di violenza. Se la legge riuscisse a evitare anche un solo femminicidio, sarebbe una buona legge.
Tuttavia, chi scrive ritiene che questi provvedimenti, per quanto necessari, non saranno sufficienti a ridurre in modo significativo il numero totale di femminicidi.
I femminicidi sono la punta di un iceberg. La parte emersa – quella che giunge al disonore della cronaca.
Se si elimina una frazione della parte visibile, questa verrà pressocché totalmente sostituita dalla parte sommersa.
Al contrario, se si agisce sulla parte sommersa, la porzione visibile si ridurrà in misura significativamente maggiore.
La parte sommersa dell’iceberg – la radice del femminicidio – trova nutrimento in una società progettata per far fallire le donne.
Un terreno fertile fatto di discriminazioni economiche, sociali, psicologiche.
Ancora più in profondità, nell’humus della questione, si annida la visione maschile del mondo: conta solo il risultato, l’interesse personale.
Non importa se per raggiungerlo si devono commettere soprusi, violenze, guerre – tra Stati o tra individui.
Non importa neanche il tipo di arma: da fuoco, da taglio, batteriologica, dell’informazione o economica.
Ciò che conta è eliminare l’ostacolo sulla strada verso il traguardo delle proprie ambizioni.
E se l’ostacolo non può essere rimosso, allora bisogna distruggere l’oggetto stesso dell’ambizione, affinché non possa essere di nessun altro.
Ed è qui che il femminicidio diventa l’ultima risorsa del possesso malato.
Poi c’è la visione femminile del mondo: il senso della cura.
Una prospettiva che non si basa sulla forza dei mezzi, ma sull’energia dell’empatia.
Non sull’opposizione, ma sull’equilibrio.
Ci scusiamo per l’ampia premessa, ma abbiamo avvisato i nostri lettori più volte: se intendete leggere solo i titoli, siete sul blog sbagliato.
Cari lettori, questo non sarà un articolo breve.
Su questo blog non vi chiediamo denaro, ma il coraggio di mettervi in cammino.
Un cammino lungo e faticoso verso la verità.
Se non riuscite a passare attraverso la porta, cercate almeno di guardare dalla finestra.
Perché il caso che stiamo affrontando è la quintessenza del femminicidio
Un caso che consente di vedere l’iceberg nella sua interezza: emerso e sommerso.
Un caso che mostra – e dimostra – le due visioni del mondo: quella maschile e quella femminile.
Non è una questione di genere.
È una questione di prospettive.
L’ampia premessa era necessaria.
Perché, cari lettori, questa non è solo la storia di un femminicidio.
È la storia di un sistema.
Un sistema che ha radici profonde, intrecciate con le nostre vite più di quanto vogliamo ammettere.
Cap I
8/10/2005 – Chi è costui? (pag. 4)
«Se lo conosco? Diciamo che lo riconosco. Ci incrociamo spesso, un saluto… ogni tanto.»
Così rispose Marco, il professore, alla richiesta di informazioni dell’ispettore Bonanno su Vincenzo Foti, professione architetto.
Architetto, sì, ma con l’aspetto da impiegato comunale e lo stipendio da livelli essenziali delle prestazioni.
Il traffico scorreva su Piazzale Tullia con i tipici tira e molla dei giorni non lavorativi: meno intenso, ma più imprevedibile.
«Lo sa, vero, come lo chiamiamo io ed Enrica?»
Bonanno lo sapeva già: quello che non c’è.
Quello che attraversa la vita degli altri senza lasciare traccia.
Tacque.
Marco lo osservò in silenzio. Poi continuò: «Sembra esserci senza occupare spazio. Come quel giorno del fattaccio, quando all’improvviso tutto è cambiato.»
Il senso di disagio che accompagnava Bonanno da quel giorno si manifestò con un movimento disarticolato delle spalle. «E la sua impressione qual è? Mi potrebbe spiegare meglio, professore?»
Marco annuì appena. «La mia impressione… Lo vedo arrivare con la testa bassa, poi solleva gli occhi giusto il tempo di abbozzare un sorriso. O forse solo una smorfia. Un impercettibile movimento tra labbra e gote. Quel sorriso racchiude mondi interi.»
Attese una reazione. Bonanno si limitò a un invito silenzioso a continuare.
Il professore riprese, scegliendo con cura le parole. «La sua presenza è fugace, non veloce. È come un quadro appeso da sempre in casa, tanto familiare da passare inosservato. Scivola tra la gente senza lasciare traccia, come un’ombra che si dissolve prima ancora di essere notata. Scorre il film della vita quotidiana, e lui è solo un fotogramma: troppo breve per restare nella memoria, ma sufficiente a depositarsi nell’inconscio.»
Si fermò un istante. Bonanno non mosse un muscolo. Marco continuò: «È difficile descriverne le espressioni. Ha lo sguardo di chi ha attraversato mille mondi, eppure conserva intatta la curiosità di chi osserva tutto come fosse la prima volta.
«La sua luce», aggiunse Marco e notando l’ombra di perplessità nello sguardo di Bonanno, precisò: «Sì, tutti abbiamo una luce. Postura, contegno, atteggiamento. La chiama così, vero? Bene, la luce è tutto questo, ma anche qualcosa in più. È il modo in cui un uomo si lascia attraversare dallo sguardo altrui.»
Bonanno annuì appena.
«La sua è indefinita: né chiara né scura. Trasparente. Quasi permeabile all’aria. Eppure, in questa trasparenza, gli occhi emergono. Intensi. Profondi. Finestre aperte su un passato inciso nella memoria e un futuro sospeso nell’immaginazione.»
Marco si fermò un momento, sfiorandosi il mento con la punta delle dita, come quando in classe cercava la parola esatta per una traduzione difficile.
«Ci sono tante cose in quegli occhi: immagini sovrapposte, intuizioni che sfumano, pensieri che si dissolvono prima ancora di essere colti.»
Marco inspirò lentamente. «Glielo ripeto, ispettore. Lo conosco, ma non so nulla di lui che non sia un’impressione.»
Cap II
4/10/2005–Il giorno del fattaccio (pag. 7)
Lo squillo del telefono interruppe le sue riflessioni. Di prima mattina poteva significare una sola cosa.
Neanche l’abitudine alla solita giostra riusciva a domare del tutto l’inquietudine. Eppure, quella mattina, niente lasciava presagire il turbamento che lo avrebbe accompagnato fino al rientro in ufficio.
Il caso sembrava chiaro, il processo una formalità.
La condanna? Dipendeva dalle attenuanti, se l’avvocato difensore era abbastanza bravo da giustificare una parcella stratosferica.
Oppure dalle aggravanti, se il PM decideva di cavalcare il solito circo mediatico per far carriera.
Eppure, quel giorno, il turbamento si impose sulla sua professionalità. Qualcosa nel fattaccio non quadrava.
L’ultima tessera del mosaico gli suscitava pura irritazione: il PM, dopo aver ordinato la rimozione del corpo, aveva abbandonato l’espressione seriosa appena i media si erano allontanati.
Bonanno lo vide salire sulla macchina blu, gettare un occhio all’orologio. Come se su quel quadrante cercasse lo spazio per organizzare la sua serata.
D’impeto si rivolse agli agenti: «Convocate in questura i testimoni: la barista e il professore. E rintracciate l’uomo che era vicino all’omicida. Li voglio tutti alle diciassette.»
«Ma è solo tra due ore!»
Fabio Proietti, il viceispettore, reclamò con un ampio movimento di spalle il sacrosanto diritto alla pausa pranzo.
Bonanno lo guardò di sbieco.
«Vogliamo fare alle sedici zero zero?»
Fine della discussione.
Cap III
4/10/2005 – I testimoni del fattaccio, Marco Rossini (pag. 10)
«Ed oggi…?»
Lasciò che la domanda restasse sospesa, come una riga tratteggiata che spettava a Rossini completare. Un varco che permetteva alla testimonianza di scivolare fuori senza forzature, senza il peso di un condizionamento.
«Ero seduto al bancone sulla vetrata del bar […]
«Urla di uomo, da pazzo. Urla di donna terrorizzata», continuò Rossini. «“No, no…” diceva. Poi il suo terrore divenne ancora più grande mentre gridava: “Scappa, Alice, scappaaa!”
Poi, tutto rallentò. Come se il mondo intero si fosse chiuso in un solo respiro.»
Sospirò, si portò la mano sulla fronte, come per raccogliere i pensieri e, serrando gli occhi, disse: «La bambina esce dal portone. Non corre, sgambetta, inciampa nell’ansia. Le braccine si agitano, cercano equilibrio, ma l’aria stessa sembra respingerla. Sul viso, il panico che si riflette nel respiro spezzato.»
Si fermò, spostò la testa di qualche grado a destra.
«L’uomo sfonda il portone senza toccarlo. Non esce: erutta. La follia è un graffio inciso sul volto.»
Un respiro profondo. «Il pigiama bianco, macchiato di sangue. Il coltello nella mano. Alzato. Come una promessa giurata all’orrore.»
Riaprì gli occhi. «E poi, c’era lui. Vincenzo. L’architetto. Stava lì come un segnale di divieto, un indicatore di direzione obbligata quando sembra spontaneo percorrere la direzione sbagliata.»
Si interruppe e Bonanno stesso smise di respirare.
«L’uomo col coltello incespica. Il viso si contrae, la follia vacilla. Raggiunge la bambina.
La mano si abbassa. Ma non in verticale. Abbraccia la bambina. La solleva. Come se la stesse tirando fuori dall’acqua, prima che anneghi. E la guarda. Con gli occhi di un padre.»
«Ma Foti, l’architetto, lo ha sgambettato? Lo ha spinto?»
«No. L’architetto era sul bordo del marciapiede, fermo.»
«Si sono guardati? Sa se si conoscessero? Ha avuto l’impressione che si conoscessero?»
«L’architetto mi volgeva le spalle, certamente guardava la scena. Non credo che l’uomo con il coltello abbia guardato verso di lui, ma ho avuto l’impressione che ne avvertisse la presenza.»
«E poi…?»
«Si è seduto sul marciapiede. La bambina in braccio. Come per cullarla dopo un brutto sogno. Nessuno si è avvicinato. Per dieci minuti. Finché siete arrivati voi.»
Marco deglutì. «L’avete visto. Vi ha consegnato la bambina come fosse una sacra reliquia. E poi si è consegnato a voi. Senza resistenza. Come un moribondo rassegnato a restituire la vita tra rimpianti, rimorsi e preghiere di perdono.»
«Ma,» chiese Bonanno, cercando di trovare le parole giuste, «è sicuro che l’uomo avesse intenzione di accoltellare la bambina? Magari le sue intenzioni, seppure dopo l’atroce omicidio della moglie, non erano quelle. Forse voleva semplicemente riprendere la bambina.»
«Ispettore,» rispose Rossini, «lei lo capisce quando un cane vuole giocare o attaccare?
No, ispettore, l’ho detto stamattina e lo ripeto ora: intendeva uccidere pure la bambina.»
Bonanno sentì un lieve turbamento allo stomaco, ma lo mascherò con un ghigno.
«E secondo lei, perché non lo ha fatto?»
«Non lo so!» disse Marco, con tanta enfasi che le parole assunsero il significato di “non lo capisco”.
Cap V
4/10/2005– I testimoni del fattaccio, Vincenzo l’architetto (pag 24)
[…] Bonanno cercò di ricomporsi nel ruolo. «Quell’uomo, immagino non lo conosca?»
«Lo conosco», rispose Vincenzo.
L’affermazione lo sconvolse. Come se qualcuno gli avesse strappato il velo delle ultime certezze.
Vincenzo lo osservò e precisò: «Non personalmente, intendo… Lo vedo spesso la mattina, mentre prende la macchina.
Dà l’impressione di un uomo sicuro di sé, uno di quelli a cui ci si rivolge per un consiglio in affari. Insomma, uno che la sa lunga.»
Vincenzo riprese, con un tono più riflessivo: «Ma non è sempre stato così.»
«Mi sembra, però, che il suo saperla lunga non si coniughi con l’arroganza dell’abilità, ma con il dolore dell’inganno.»
Vincenzo si prese una pausa, come se stesse affidando un messaggio al mare.
«Mi è sembrato un uomo catturato dall’inganno. E quelle catene gli impediscono di riconoscere le emozioni altrui.»
Ancora silenzio. Poi la conclusione: «Un atteggiamento tipico di chi assume cocaina.»
Bonanno aveva il retino da pesca in mano.
Vincenzo, quasi distrattamente, si concesse una riflessione ad alta voce: «Chissà in che ambiente lavorava quell’uomo!»
E Bonanno comprese.
Vincenzo aveva voluto anticipare le sue domande.
Quelle che non si pongono in un’aula di tribunale.
Quelle che impediscono di riporre le cartelle con i casi chiusi.
Cap XII
7/10/2005 – Eleonora (pag. 73)
Saluti preliminari affrontati, Eleonora andò subito al punto: «Beh, dimmi che vuoi sapere.»
Tutto sommato, lo stesso cliché delle precedenti telefonate. Bonanno diceva un nome ed Eleonora attaccava.
Cominciava a raccontare, correlando nomi e fatti, come se stesse riassumendo le ultime tre stagioni di una serie televisiva.
Era capace di descrivere un colpo di stato, con annessa guerra civile, con la stessa leggerezza di un tradimento.
Un solo nome ed Eleonora lo faceva seguire da una pila di fagioli di informazioni.
«Verre.»
Bonanno pronunciò il nome e il telefono rimase muto per molti secondi.
Il silenzio si distese. Troppo. E poco sarebbe stato già troppo per Eleonora.
Poi la voce di Eleonora, più bassa del solito, come se avesse abbassato il tono istintivamente:
«Perché mi chiedi della Verre?»
Cap XVIII
10/10/2005 – L’interrogatorio di garanzia (pag. 155)
Bonanno lo fissò, cercando di afferrare il senso di quelle parole.
«E allora?» chiese.
Vincenzo sorrise appena. Poi concluse:
«Il suo ruolo, ispettore, è stato quello di una chaperonina: ha protetto la verità nei suoi passaggi più difficili. Ma ora deve lasciarla andare. La verità troverà da sola la sua forma.
Il suo compito è finito.»
Bonanno rimase in silenzio. Non capiva tutto.
Ma sentiva che quelle parole portavano un significato che non poteva ignorare.
Per la prima volta, si sentì pronto ad accettarlo.
Epilogo III
13/10/2005–La verità scorre nella rete (pag. 189)
«Mi scusi, ma questa cosa della verità, dei suoi mille volti – alcuni più scomodi degli altri – non l’ho mica capita bene.
…
Adriana abbassò lo sguardo, come se pesasse le sue stesse parole. Poi lo rialzò.
«È un cammino. Fatto di scelte, compromessi, cadute e rialzate. Di frammenti da mettere insieme. Non è un interruttore. Non lo accendi e spegni a piacere. È un percorso. Continuo. Faticoso.
Durante il cammino, però, manifestiamo tutto ciò che c’è di buono e di cattivo in noi.
Ma sa una cosa?»
Fece una pausa, abbassando la voce come per condividere un segreto: «Quello che c’è di buono ci illude. Ma è quello di cattivo che ci costringe a guardare la verità in faccia. Perché non puoi toccarla senza passare prima da lì.»
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