La pianura di Noale si estendeva come un mare di erba, ma in quell’istante, il cielo si scuriva sotto il peso delle armature, dei drappi e degli stendardi.
Da un lato, l’esercito veneziano, compatto e imponente, si schierava sotto lo stendardo della Serenissima, guidato dal Doge della famiglia Venier. Le bandiere rosse, appese alle picche dei soldati, ondeggiavano al passare del vento. Il leone alato d’oro, ricamato sopra, pareva pronto a scagliare la sua lama contro i nemici che si ponevano davanti.
Dall’altro, le truppe padovane, con l’effigie del Doge di Padova dei Carraresi, ondeggiavano anch’esse nell’aria. Le bandiere di color verde scuro risaltavano ancor di più nel contrasto dorato del simbolo del libro aperto e dei tre ingranaggi che lo accompagnavano, rappresentanti dello studio continuo delle tre discipline che avevano reso grande Padova: l’innovazione tecnologica, la medicina e l’astronomia.
Sotto le mura della città, i soldati si preparavano a difendere l’ultima roccaforte; il contrappunto delle loro voci e il tintinnio delle armature creavano una melodia di determinazione e coraggio.
La vista dell’avversario, come una marea di soldati armati fino ai denti, faceva tremare anche i più esperti. Eppure, nessuno dei due schieramenti vacillava. Le due fazioni si scrutarono a lungo sotto il cielo grigio, con il terreno coperto da una leggera nebbia che rendeva tutto più surreale, come se il tempo stesso stesse esitando.
L’aria era elettrica, e i soldati veneziani e padovani erano pronti a scontrarsi, incoraggiati e rincuorati dalle parole dei loro comandanti.
Sebastiano Grimani, al comando delle truppe veneziane, indossava la sua armatura: una pesante giacca di metallo che si adattava perfettamente al suo corpo, adornata da ingranaggi, valvole e tubi di vapore che sibilavano ad ogni suo movimento.
La sua spada a vapore, una lama lucente attraversata da un flusso continuo di vapore che fuoriusciva da ugelli posti lungo tutto il filo della lama, era pronta a fendere l’aria con la forza di un colpo meccanico.
Ogni movimento della sua mano sibilava grazie al guanto di guerra che indossava per aumentare la sua forza in battaglia.
I guanti si strinsero attorno all’impugnatura dorata mentre sollevava la spada sopra la testa.
Sull’elsa, una camera pressurizzata emise una luce blu quando Sebastiano premette il grilletto posto sull’impugnatura, attivando così il vapore della sua spada.
Il suo sguardo era determinato; la strategia era già tracciata nella sua mente.
“Figli di Venezia!” urlò con voce autorevole, mentre passava davanti alle prime file dei suoi soldati a cavallo. “Avete risposto alla chiamata per porre fine a questa follia perpetrata dal Doge padovano!”
La pausa, carica di determinazione, accese gli animi.
“Chi nasce deve anche morire, ma scegliere il come è il vero lusso. Voi morirete qui oggi, ma sappiate che la vostra morte porrà fine alle morti future! Prometto che non morirò fino a quando non avrò la testa di quel traditore ai miei piedi!”
Un urlo carico di adrenalina si levò dalle file veneziane.
“San Marco!” tuonò Sebastiano, roteando la sua spada sopra la testa e attivando il vapore.
“San Marco!” rispose l’intero esercito, mentre un velo di nebbia scendeva sul campo di battaglia, creato dal vapore di decine di migliaia di spade sguainate e attivate.
La carica partì all’improvviso, sfruttando la nebbia appena creata artificialmente dai veneziani.
Un frastuono di cavalli e soldati che si lanciavano l’uno contro l’altro.
Il suono dei metalli si mescolava con quello dei fucili a polvere, delle spade a vapore che tagliavano l’aria e dei cannoni a molla, che facevano tremare la terra con le loro palle esplosive.
La battaglia era un turbine di proiettili che sfrecciavano, torri d’assedio che si avvicinavano al castello e catapulte che lanciavano enormi rocce contro le mura.
Il suono delle lame che si incrociavano e dei colpi di vapore che esplodevano nell’aria era assordante. Le urla di adrenalina si mescolavano con le grida di dolore dei feriti e moribondi.
Nonostante l’impeto iniziale dell’attacco veneziano, le difese padovane, protette da mura spesse e torri fortificate, sembravano reggere. Ma la spinta che esercitavano Sebastiano e i suoi uomini era implacabile.
Ogni colpo della spada a vapore non era solo fisico, ma un’onda di energia amplificata che fece indietreggiare i soldati padovani con violenza.
Sebastiano guidò la sua truppa, sfondando la linea di difesa padovana.
La sua spada, come un fulmine meccanico, spezzava gli scudi, tagliava le armature e spingeva i soldati nemici indietro con forza travolgente. La sua armatura era perfetta per la battaglia; i tubi che uscivano dalla sua schiena, le valvole che si aprivano e chiudevano, e gli ingranaggi che si muovevano in sincronia tutto attorno al suo corpo gli permettevano di muoversi rapidamente, come se fosse una macchina da guerra vivente.
Il suo respiro era pesante, ma il suo corpo sembrava essere alimentato dall’energia che scorreva nei tubi metallici che lo avvolgevano, come se fosse alimentato da un motore a vapore.
Le truppe padovane soccombero lentamente, ma il castello resisteva.
Le mura erano forti, e le difese meccaniche del castello facevano il loro dovere. I proiettili lanciati dalle catapulte veneziane venivano intercettati a mezz’aria dalle difese padovane. Dei cannoni posti sulle torri di difesa sparavano quattro proiettili collegati tra loro da una rete, che intercettava le rocce dirette verso le mura della città e le respingeva, facendole precipitare sullo schieramento veneziano, causando grosse perdite.
Sebastiano non si arrese.
Capì che non poteva perdere ulteriori uomini a causa delle difese padovane, quindi diede l’ordine di cessare l’uso delle catapulte e, con un urlo di guerra, si lanciò alla carica. La sua spada protesa in avanti, come estensione del suo braccio, indicava a tutti l’obiettivo.
Con un movimento deciso, riuscì a sfondare definitivamente le difese padovane e arrivò fino alle mura del castello.
Qui, le torri d’assedio veneziane iniziarono l’avanzata, utilizzando il corridoio creato da Sebastiano nel mezzo delle truppe padovane.
Queste gigantesche torri di legno, mosse da ruote metalliche dentate e spinte da motori a vapore sbuffanti e assordanti, si avvicinarono rapidamente alle mura.
Proprio in quel frangente un rumore metallico riecheggiò nell’aria e sovrastò tutti gli altri rumori.
Sull’estrema destra delle mura un’ombra fece la sua comparsa.
Per un secondo che parve un’infinità, la battaglia si fermò. Tutti volsero lo sguardo a quella cosa.
Sebastiano non aveva mai visto nulla di simile, aveva le sembianze di un umano, ma era alto come una loro torre d’assiedo ed era totalmente metallico. Le braccia e le gambe erano abbastanza sottili e il loro movimento era molto rallentato ma costante. Quella creatura aveva sulla propria schiena una caldaia enorme, con una produzione ininterrotta di fumo nero.
Con un suono metallico di meccanismi che si azionano, quella cosa alzò le braccia protese in avanti e iniziò a correre in direzione delle torri veneziane che erano in procinto delle mura.
La prima venne completamente travolta e divelta da quel golem metallico, la seconda invece attutì il colpo. Ma il golem chiese maggior produzione di energia, capibile dall’aumento di fumo nero uscente dalla sua schiena, ottenendola. Poco dopo la torre veneziana cadde su di un lato uccidendo tutti i soldati al suo interno e moltissimi altri che si trovavano al suolo schiacciati dall’impatto.
Le ultime due torri superstiti, ad una decina di metri dalle mura, azionarono i due arpioni posti sul tetto di ogni singola torre lanciarono i propri dardi, conficcandoli nelle mura e stabilizzando così la torre.
Un cancello, nero, metallico e pesantissimo si abbassò sulle mura di Noale, schiacciando i soldati padovani a difesa di quel punto.
Dalle torri uscirono i veneziani e, come un’onda, si riversarono nella città in direzione del castello al centro di essa.
Sebastiano, senza sosta, si fece largo tra le truppe nemiche, il primo a salire sulle mura e a fronteggiare la guerriglia padovana con una furia meccanica, tagliando e sfondando ogni resistenza.
Il golem si diresse verso una delle due torri e iniziò a tirarla verso di se per staccarla, ma tra gli arpioni e il cancello conficcato nelle mura, dovette metterci più di qualche istante.
Tempo necessario e sufficiente a Sebastiano e i suoi a conquistare le due torri padovane li vicine, dotate di balliste armate con i dardi a rete, usati precedentemente dai padovani per bloccare i proiettili veneziani, ora utili per tentare di bloccare quel mostro metallico.
La lama di Sebastiano, sempre più grondante di sangue padovano, si fece strada su per le scale a chiocciola della torre e quando arrivò in cima prese posizione dietro alla ballista.
Il golem aveva abbattuto anche la terza torre e si stava muovendo in direzione dell’ultima, ma Sebastiano diede l’ordine di scoccare. Le balliste lanciarono, i quattro dardi presero il volo e la rete si aprì. Il golem venne colpito in pieno. Intrappolato dalla rete e a causa dell’impatto della stessa perse l’equilibrio e cadde a terra.
I cannoni a molla veneziani, poco distanti, aprirono il fuoco ora che quel mostro era bloccato a terra, distruggendolo in un concerto di esplosioni.
Su un torione, attorniato dai propri arcieri, il Doge padovano Francesco Carrarese, osservava l’evolversi della battaglia. La maschera che indossava, la Mica d’Oro di Padova, simbolo del potere del Doge, faceva trapelare la sua paura crescente. La maschera non faceva intravedere il volto, e l’espressione della maschera stessa, anche se raffigurante un volto umano, aveva un espressione neutra. Ma le sei lenti ottiche, tre per occhio, che continuavano a ruotare in modo frenetico di fronte ai due occhi, continuando a cambiare la messa a fuoco del Doge.
Preoccupato e temendo per la sua vita, osservava la scena da quello che fino a poco prima era stato un sicuro rifugio all’interno delle mura.
Gli sguardi di alcuni soldati avevano già rivelato il calo della loro determinazione e un’ombra di disperazione si percepiva nell’aria.
Quando la battaglia sembrava volgere a favore dei veneziani, Francesco percepì che era tempo di allontanarsi, di scegliere la fuga per garantirsi una chance di sopravvivenza.
Mentre si addentrava nel corridoio che collegava il torione al giardino, notò Sebastiano che avanzava come un predatore in cerca della sua preda.
Il suo cuore batteva forte mentre si lanciava all’uscita del giardino in direzione del castello, affrettando il passo, con il rumore delle armature e il frastuono della battaglia che si avvicinava.
Ma Sebastiano lo aveva già notato, l’oro della sua maschera era come un faro nella notte; i suoi occhi si spalancarono in un mix di sorpresa e sfida.
Quando l’avanzata veneziana giunse nella piazza di fronte al castello, si arrestò.
La piazza era grande come la metà di Piazza San Marco.
Al suo centro spiccava il castello della famiglia Tempesta, nobile famiglia trevigiana, molto vicina al Doge di Treviso, alleato di Venezia.
Dentro a quella roccaforte si trovavano i Carraresi, rintanati come topi in trappola.
Al di fuori del castello, un gruppo di soldati padovani con gli scudi abbassati e le lance puntate verso il nemico.
Quando Sebastiano fece un passo verso il nemico, questi azionarono le lance e le punte si divisero in due, facendo fuoriuscire delle piccole saette.
Sebastiano capì che quelle armi erano state progettate per contrastare le armature veneziane, bloccando gli ingranaggi con una potente scossa e lasciando così il soldato inerme.
Ma l’impeto veneziano non poteva essere bloccato; fece quindi avanzare i cannoni che, con una raffica di colpi, sterminarono l’ultima resistenza all’esterno del castello, esplodendo anche il portone principale.
Nel cuore del castello, le mura di pietra erano bagnate dal sudore dei soldati e dal sangue che scorreva sui loro piedi.
Sebastiano fece irruzione nella sala interna dove la famiglia Carrarese si stava rifugiando.
Con la sua spada, fece a pezzi le difese degli ultimi guardiani posti alla porta della sala.
L’eroe della battaglia era lui: il primo a sconfiggere la resistenza, il primo a varcare la porta del castello per affrontare il cuore della famiglia reggente e completare la missione.
Quando Sebastiano entrò nella sala del Doge padovano, venne pervaso dalla maestosità dell’ambiente, che rendeva omaggio alle doti scientifiche dei padovani.
La sala era immensa, con un pavimento a mosaico veneziano che raffigurava i momenti storici più importanti di Padova, opere d’arte disposte sotto i loro piedi.
Attorno a lui, arazzi rievocavano le importanti conquiste scientifiche ottenute dalla città in qualsiasi ambito, militare, sanitario, urbanistico o astronomico.
La famiglia Carrarese era lì, sul fondo della sala, sui loro troni dorati.
Il clangore del metallo riempiva l’aria mentre le macchine da guerra padovane ardevano tra le rovine della città.
Il Doge di Padova, in ginocchio, con il fiato corto, guardava con occhi disperati l’uomo che gli si parava davanti: Sebastiano, il comandante veneziano.
Il fumo e le grida della battaglia ancora riecheggiavano nei vicoli, ma lì, nel cuore del palazzo in fiamme, si era fatto un silenzio irreale.
Il Doge si aggrappò all’ultima briciola di speranza, la voce rotta dal terrore. “Sebastiano… ti prego. Siamo stati amici e ora nemici, è vero. Ma tra di noi non c’è odio. Non può esserci odio, dopo il grande dono che tu mi facesti quindici anni fa. Ti offro tutto ciò che ho, ogni ricchezza di Padova, ti giuro fedeltà… Risparmiami… Risparmia la mia famiglia…”
Sebastiano, guardando intensamente la sua spada ancora intrisa di polvere e sangue, rispose con fermezza: “Fede e ricchezze? Non sono ciò che cercavo. Non è ciò che mi ha spinto qui, Francesco, detto il Vecchio.”
Lo sguardo colmo di ira di Sebastiano perforava quella figura inerme davanti a lui. “E lo sei! Eri vecchio quando eravamo amici, adesso sei ancora più vecchio!”
I suoni della battaglia riecheggiarono nella sala, riempiendo il vuoto di quel silenzio pesantissimo.
“Gloria, onore e sicurezza per Venezia, ecco cosa cerco. Principi che voi avete cercato di sottrarre, attaccando un nostro alleato e amico. Disonorando il mio signore.”
Questa volta la pausa fu breve, ma servì a calmare la sua voce; tuttavia, l’effetto fu opposto: la tensione aumentò fino a diventare palpabile.
“La guerra non lascia spazio per il perdono, Doge. Non c’è pace, solo il peso del dovere. Voi e la vostra famiglia siete stati amici di Venezia e miei, ma poi ci avete tradito, e ora… il prezzo deve essere pagato. Da tutti voi!”
Lo sguardo si levò oltre la figura del Doge inginocchiato, per vedere sua moglie chinata su sua figlia, usando il proprio corpo per difenderla.
Il Doge, cercando di aggrapparsi all’ultima speranza, rispose senza più forze, stremato da questo duello verbale: “Non chiedo pietà, solo una possibilità. Una vita di studi e onore non può essere sacrificata in un attimo di rabbia. La nostra guerra… è stata una questione di destino, non di odio. Posso offrirti una nuova alleanza… un futuro senza sangue!”
Sebastiano, sospirando e guardando il Doge con una durezza crescente, disse: “Un futuro senza sangue? Forse un tempo avrei creduto a queste parole… Ma oggi, Doge, sono solo menzogne di chi cerca di salvarsi. E di chi cerca di salvare i suoi cari! Dove è tuo figlio?”
“Non sono un uomo di guerra, veneziano…” tuonò il Doge, ma con un’intensità ben minore di quanto sperasse. “Non sono come te.” Continuò abbassando il tono e lo sguardo. “Tu parli di tradimento? Ma tu sai chi è il vero traditore? Voi veneziani avete idea di chi e cosa ci sia dietro?”
Francesco cercava di sviare Sebastiano, distrarlo dal fatto che suo figlio fosse scappato.
L’ultimo gesto d’amore di un padre vecchio e devoto.
“Silenzio!” rispose Sebastiano con rabbia. “Tutte menzogne le tue e le menzogne di un uomo che sta cercando di salvarsi la pelle; che valore potranno mai avere?”
E, guardando due soldati, ordinò: “Trovatelo! Trovate il ragazzo!”
I due soldati sparirono dietro una porta nel fondo della sala.
“Non è il tuo destino che conta, Doge. È quello di Venezia.” Rispose Sebastiano, abbassando lo sguardo su quell’uomo ormai prostrato ai suoi piedi in cerca di salvezza.
Ci fu una pausa che parve lunga un’eternità per chiunque fosse presente in quella sala, e poi Sebastiano continuò: “Forse hai ragione… Forse la tua vita non mi serve. Ma io non sono qui per avere compassione.”
Sebastiano fece un passo indietro, come se stesse riflettendo, poi in un attimo scattò in avanti e, con un colpo preciso, decapitò il Doge.
La sua testa volò sul pavimento, rotolando via nell’ombra della stanza; la maschera d’oro si staccò dal volto e rimase insanguinata, rivolta verso l’alto, come a voler guardare un’ultima volta il soffitto affrescato della sala.
Gli ingranaggi dorati della maschera rallentarono fino a fermarsi, e le sei lenti poste a ridosso delle tempie erano crepate o in mille pezzi.
Il sangue colava lungo i suoi bordi, come se la maschera avesse lei stessa un cuore pulsante al suo interno.
Il silenzio riempì la stanza. “Non c’è posto per la pietà nella guerra. Solo il dovere.” Tuonò Sebastiano ai suoi uomini.
Un urlo straziante squarciò l’aria. La moglie e la figlia del Doge, tenute prigioniere poco distante, assistettero alla scena e gridarono di terrore e rabbia.
La Dogaressa urlò con tutta l’ira che solo una madre impaurita per i propri figli può avere: “Sono la tua stirpe! Uccideresti i tuoi figli per Venezia?”
La figlia la guardò; e senza bisogno di dir nulla, capì, per cui incrociò lo sguardo con Sebastiano e le sue lacrime si interruppero.
Ma non vi fu alcuna esitazione; Sebastiano diede l’ordine.
I soldati veneziani che le tenevano per i capelli, con colpi veloci di spada, le trafissero e, in pochi attimi, anche le loro voci si spensero nel buio della notte incendiata.
Un giovane Giuliano, appena quindicenne, unico figlio dei Carraresi, riuscì a fuggire dalla sala poco prima che entrassero gli invasori e si rifugiò nei sotterranei del castello, un piccolo labirinto di stanze nascoste dove solo pochi conoscevano il percorso.
Con il cuore in tumulto e il volto coperto di polvere, Giuliano si fermò a respirare, cercando di calmare il suo respiro affannoso.
Le grida che ancora echeggiavano nei corridoi non facevano altro che aumentare il suo terrore, ma una cosa gli era chiara: la sua famiglia era stata annientata, il suo nome ora sarebbe stato sinonimo di tradimento e sconfitta.
Ma nel buio di quella fredda e umida prigione sotterranea, un pensiero cominciò a germogliare nella sua mente.
Non sarebbe stato l’ultimo Carrarese a soccombere, non sarebbe stato l’ultimo a piegarsi davanti alla forza veneziana.
La sua era una resistenza che non si sarebbe fermata, che avrebbe lottato fino all’ultimo respiro per far rinascere il nome dei Carraresi.
Il giovane, con una determinazione che cresceva ad ogni battito del suo cuore, si rialzò e guardò verso il buio che lo circondava. Le rovine di una dinastia, un tempo grande e potente, erano ora polvere sotto i piedi di Sebastiano Grimani.
Ma sebbene la sua famiglia fosse stata abbattuta, lui non avrebbe permesso che il suo spirito venisse cancellato. Giurò che la sua vendetta sarebbe stata lenta, ma inevitabile, e che una nuova era sarebbe arrivata, anche se avrebbe dovuto costruirla da zero, tra le ombre e le macerie.
“Sì, non è finita,” sussurrò Giuliano tra sé e sé, con una determinazione che ora gli illuminava il volto. “Questa guerra è solo l’inizio.”
E mentre il rumore della battaglia svaniva lentamente nell’aria, Giuliano si preparò a intraprendere il suo cammino solitario, uno che l’avrebbe portato a riscrivere la storia di Padova, e forse dell’intero Veneto.
Con la rabbia che cresceva in lui, caricata da ogni urlo che udiva dei suoi sudditi uccisi, il giovane Carrarese scomparve nel buio delle gallerie, come un’ombra destinata a crescere e a tornare.
La caduta di una famiglia non era altro che l’inizio di una nuova era.
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