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Il tempo per una tazza di tè

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Consegna prevista Aprile 2026
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Il libro si sviluppa attorno a tutte le componenti essenziali di una tazza di tè, ciascuna delle quali porta con sé momenti di vita, creando un percorso di significato. Ogni ingrediente che contribuisce a realizzare la bevanda più amata al mondo introduce elementi significativi della vita dell’autrice e viene presentato come una fotografia, impressa nella memoria. Questi ricordi, che abbracciano 50 anni di vita, vengono presentati per il loro valore nella storia personale, in un ordine carico di nostalgia, da leggere e assaporare nel tempo di una tazza di tè.

Perché ho scritto questo libro?

Scrivo da sempre, ma sempre e solo per me. A 50 anni ho sentito il bisogno di fermarmi e dare un senso alle tante emozioni vissute e misurarmi con una nuova esperienza. Scrivere un libro è stato un modo per raccogliere pensieri, emozioni e momenti importanti. Non l’ho fatto per dimostrare qualcosa ma per condividere, magari far sentire meno soli chi si ritrova in certe pagine. Era il momento giusto, e semplicemente l’ho fatto.

ANTEPRIMA NON EDITATA

 

Se si è stati fortunati nella vita si ha il ricordo di una cucina e del sapore di qualcosa di unico, che mai più si assaporerà, preparato con amore

Introduzione

Non sono una scrittrice, non saprei davvero da dove cominciare per costruire un romanzo, di qualsivoglia genere, degno di questo nome. Non che sia in grado di scrivere una biografia o un saggio, lo escludo.

Perciò inizierò semplicemente a raccontare una storia, che potrebbe esser di chiunque e che qui è la mia.

Dubito che avrò problemi con grammatica e sintassi, sono certa che impazzirò tra i refusi, magari sarà difficile seguire la trama, visto che non ce n’è una. Perché le storie, quelle di tutti i giorni – come questa – non sono state scritte con l’intento di essere seguite ma si nutrono della necessità di essere vissute, sono intrise di pensieri e stati d’animo. Sono complesse, intricate, incomprensibili, piene d’errori

e improvvisazioni. Magari potessero seguire una trama, magari potessero svolgersi invece di avvolgersi intorno all’anima e farla soffocare e respirare a suo piacimento.

Quindi leggete, se vi va, senza aspettarvi null’altro che alcune delle pagine già scritte di una vita, questo po’ di me con dentro un bel po’ di tè.

Il bollitore

Ho impiegato mesi.

Guardavo, confrontavo, misuravo. Valutavo le possibili varianti. Poi desistevo. Va bene così, non è necessario, in fondo.

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Camminavo per strada, sbirciavo nelle vetrine e a volte mi fermavo. Pensavo. Come potrebbe essere? Potrebbe andar bene? Certo sarebbe bello, farebbe una gran figura. Meglio un decoro floreale? O linee moderne? Colori sgargianti? Dovrei pensarci ancora un po’, capire se davvero poi ne farò qualcosa di questa scelta, se avrà un senso nel contesto, se si rivelerà sensata.

Non è così che si fa, in fondo? Non è così che le

persone mature, adulte, decidono, un po’ su tutto? Certe notti mi svegliavo con un senso del ridicolo addosso: ma è solo un bollitore per il tè! Cosa c’è da

riflettere così tanto?! Lo compri o non lo compri, lo vuoi o non lo vuoi, ti piacciono i fiorellini blu su fondo bianco o l’arancione acceso. E non è la spesa, poche decine di euro e via.

E invece no. Al mattino l’indecisione si riproponeva. Ma perché pensavo così tanto all’acquisto di un bollitore per il tè?

I motivi sono diversi.

La mia grande passione per il tè, da sempre. Il mio tendere, nella maggior parte dei casi, verso le “cose fatte bene” (ma l’acqua non bolle anche dentro un pentolino?? E non è più rapido mettere dell’acqua in quello elettrico? NO, ovviamente!), per cui il bollitore, grande, panciuto e fischiante si proponeva come unica soluzione possibile per servire davvero bene il tè.

E il cinema, certo. Non ho un ricordo netto di

quando iniziai ad amare i film, i bei vecchi film

anglosassoni degli anni 1940-1960, quelli delle dive con i capelli perfettamente ondulati (io che non riesco ad uscire pettinata neanche quando vado dal parrucchiere), quelli degli abiti lunghi e dei grandi vassoi d’argento (si suppone, dato che per lo più i film erano in bianco e nero) perfettamente apparecchiati, appunto, per il tè. So solo che non ho mai smesso, che devo loro molte delle illusioni che hanno forgiato il mio carattere e tante ore in beata solitudine. Quanti sogni davanti allo schermo, quanta ammirazione per quella ostentata perfezione in tutto. Per onestà intellettuale devo ammettere che il tè veniva servito, sì, spesso in questi film ma raramente bevuto. Attori e attrici erano più spesso in scena con in mano bicchieri di whisky o champagne, cosa da cui probabilmente ho tratto un’altra delle mie nevrosi: il bicchiere dev’essere quello giusto, quello creato per il liquido che deve contenere,

perché se lungo e stretto in un caso o largo e basso in un altro: una ragione c’è e va rispettata. Ero consapevole di non poter ricreare quelle atmosfere negli anni 2000, di non avere possibilità alcuna di essere quel tipo di padrona di casa. Ma almeno un piccolo sforzo di correttezza formale, comprare un bollitore e sfoggiarlo nei – pochi – eventi mondani invernali avrei potuto farlo.

Avrei dovuto. Lo dovevo anche un pochino a Sheila

e Michael, i due atletici sessantenni inglesi con i quali, a 20 anni, trascorsi un mese della mia vita. Baciata da un rarissimo Sole estivo ho vissuto 30 giorni esatti di pieno Sud della Gran Bretagna, full immersion nella lingua inglese e nella campagna a ridosso del mare. E un vero salto nel tempo, quella costa inglese fatta di un paesino dietro l’altro, tutti simili e tutti affacciati sul mare, ambientazioni perfette di gare di torte e delitti immancabilmente

risolti nelle raffinate serie crime britanniche. Lui, Michael, usciva al mattino presto e rientrava per cena, trascorreva la giornata al lavoro e con me parlava poco. Al contrario, Sheila si dedicava completamente alla mia istruzione, soprattutto sul tè. La lingua poteva aspettare, l’inglese l’avrei imparato comunque, in qualche modo. La sua principale missione era quella di rendermi consapevole dell’importanza di spegnere il fuoco al primo sibilo del bollitore, versare l’acqua, che a quel punto doveva aver raggiunto la temperatura di circa 90-95 gradi, sopra al filtro e vigilare perché quell’unione tanto perfetta, perché fosse davvero tale, non durasse più di 3 minuti. Inutile dire che ho imparato tutto perfettamente, non aspettavo altro. Quale regalo più grande per un’appassionata di tè dell’essere accompagnata con tanta dedizione da una real british lady alla realizzazione di una tazza

perfetta? Purtroppo non posso vantare di essere stata altrettanto brava nel guidare la mia ospite nell’utilizzo di una moka, pazienza.

Alla fine quel bollitore l’ho comprato: enorme, con la capienza per servire tè a 10 persone, una cosa che non ho mai fatto. Compatibile con le piastre ad induzione anche se all’epoca le avevo a gas, quello sguardo al futuro possibile che nella mia vita non mancherà mai. Color prugna leggermente cangiante: non cupo, non smorto, non realmente di un colore solo ma che avrebbe potuto sembrarlo. Totalmente a sé, senza nessun altro pezzo che si intonasse a lui. Troneggiava in mezzo al tavolo, incuteva quasi timore. Era pesante, scomodo, ci metteva una vita ad arrivare temperatura e si riempiva di calcare. Inevitabile parlarne al passato.

È lì, oggi, su una mensola di una cucina che non

pensavo avrei mai avuto, in una casa in cui non

pensavo che un giorno avrei mai abitato. Riempie uno spazio inutile come sempre accade con alcuni pezzi del passato ma resta lì, a ricordarti che c’è stato e che, in quel momento, poche cose ti sembravano altrettanto importanti.

Quel bollitore, che avrei poi usato solo una decina di volte, perché la vita cambia e vai a saperlo prima, doveva essere “perfetto”, un perfetto messaggio per me, qualcosa del tipo “hai fatto la cosa giusta, almeno stavolta” e per chi se lo ritrovava davanti, l’espressione di una piccola vittoria sulla mediocrità, quel dettaglio che fa la differenza tra andare a prendere un tè e vedersi servire un vero tè.

Era chiaro, infatti, ma non allora, che non fosse solo

una questione di bollitore. Era la vita.

Stavo cercando di guardarmi da fuori, provando a individuare le tante cose che non mi convincevano,

trovando più cose che avrei voluto in un modo ma anche in un altro. Scegliere un bollitore arancione acceso, un vestito appariscente, un approccio aggressivo con un collega; optare per i fiorellini blu, dar spazio al garbo, alla mediazione, a un sorriso in più, magari non così spontaneo ma funzionale: in fondo è tutto collegato, questione di scelta di stile.

Una cosa non da poco per chi, come me, uno stile

solo non è mai riuscita ad averlo. Tutto e il suo contrario, a parte pochissime cose incise nella pietra, materiale di cui è chiaramente fatta la mia testa. Mi diverte sempre dar la colpa al mio segno zodiacale, i Pesci. Sono dei Pesci, terza decade, segno doppio, un’artista, un’emotiva, un’istintiva insomma il peggio del peggio in fatto di carattere, non è mica colpa mia!

È la mia classica risposta al ricorrente commento

“tu  devi  sempre  fare  tutto  strano”,  frase  non

correttissima formalmente ma decisamente chiara nel suo non voler essere un complimento.

Così chiara che io, quindi, lo prendo così com’è e me ne vanto.

Mi piace tutto e non mi piace niente: il bollitore era bello anche arancione acceso e mi sarei vista versare il tè anche tra fiorellini blu. Ma non potevo certo comprarne cinque quando già non ero convinta della necessità di comprarne uno. Per superare questo tipo di stallo, per darmi quella scossa che a un certo punto diventa necessaria mi immagino nelle situazioni e provo a sentire cosa mi faccia sentire più a mio agio. La decisione finale arriva, così, in modo più naturale ma non senza qualche ripensamento.

Che fatica essere me.

Mi ritrovo a chiedermi spesso se tutto questo ribollire (e cosa se no?) interiore per la minima cosa si veda da fuori, sia percepito e come da chi mi

incontra e inizia a conoscermi. E mi imbatto sempre nella parola magica, il leitmotiv della mia vita: dipende.

Certo, non solo della mia. Praticamente per tutti e tutto c’è un dipende. Ma ho incontrato tante persone che hanno imparato a raccontare e raccontarsi certezze, hanno bandito “dipende” dal loro linguaggio, hanno capito che non è funzionale all’integrazione, che nessuno invita a cena uno che ha un “dipende” per tutto, perché complica, irrita, blocca e nessuno vuole cenare irritato. Se un politico rispondesse alle richieste del suo elettorato con “dipende” resterebbe senza poltrona in poco tempo. Dipende non è popolare, e nemmeno io lo sono.

La tazza

Non è che si possa poi mettere tutti una cannuccia nel becco del bollitore. Occorre preoccuparsi anche delle tazze in cui lo servirai.

Insomma, preoccuparsi un po’ degli altri.

La mia prima scelta era ricaduta su uno stile consumistico fricchettone, velatamente parsimonioso e da cittadina del mondo quale mi sento: le tazze di Starbucks che già avevo, una diversa dall’altra per dimensione, colore e scritta, comprate nelle varie caffetterie 2.0 visitate, causa freddo e male ai piedi, in giro per il mondo. Mondo…vabbè, tre-quattro capitali europee in croce che, nei pochi anni trascorsi senza cani, sono state per me il mondo.

Esteticamente l’impatto non era il massimo ed

evidenziava delle criticità. Innanzitutto la

dimensione così differente delle tazze faceva sì che qualcuno, per poter dire di aver bevuto un tè, dovesse versarsi l’acqua almeno tre volte, consumando quindi tre filtri e vanificando i miei sforzi in economia domestica. Altri invece annegavano in quantità improbabili di acqua sporca, avanzandone più della metà. E poi i colori e lo stile, tutti differenti, donavano alla tavola un grande senso di disordine. Non che quest’ultimo abbia mai avuto un impatto emotivo devastante su di me ma, sempre per cercare di restare in ascolto della percezione esterna delle mie azioni, capivo che potevo fare decisamente di meglio.

Bisogna pensare bene a come si offre un tè.

A un certo punto è diventato importante, imprescindibile scegliere un servizio di tazze da tè.

Scegliere, di nuovo.

Questa volta però la soluzione è arrivata da

lontano, dall’Irlanda, in auto, con i capelli rossi. Anzi no: biondo chiaro dorato ramato tiziano (ha sempre tenuto molto a ribadire la differenza con un banalissimo rosso).

È arrivata Vanessa, una delle persone – quelle con la P maiuscola – della mia vita, con ben sei mugs di Muji, completamente bianche.

Le amiche, quelle vere, ti salvano sempre, regalandoti un ottimo punto di partenza che per molti anni è stato anche di approdo.

Come quando vado a trovare Lucia e Riccardo, due pilastri della mia vita affettiva da ormai 30 anni. Con Lucia ho condiviso l’adolescenza e le mille turbe che la caratterizzano. Mi ha sopportata e supportata, capita, appoggiata e mai giudicata, sempre presente, sempre e comunque pronta a esserci. Per un pianto, per un cinema, per guardarmi le spalle mentre davo spazio  alla  fissazione  del  momento.  Impensabile

sentirmi sola, c’era Lucia. Che grande dono è la sua amicizia!

Riccardo è entrato presto nella sua vita e per fortuna è ancora lì con lei. La reciproca simpatia istintiva, la sua dolcezza, la passione comune per i Lego e per il tè l’hanno reso indispensabile quanto sua moglie.

È sempre lui a preparare il tè, immancabile nei nostri troppo rari incontri. Hanno optato per un non- servizio e un non-bollitore. Prendiamo il tè sul divano e non seduti al grande tavolo della loro bellissima veranda/sala da pranzo (che meraviglia tutta quella luce!).

Le loro tazze e una per me, vasta scelta di bustine

colorate da intonare più all’umore che al sapore, nessun condimento a parte un po’ di zucchero, che personalmente non uso se non accompagnato dal limone.

Ci aggiorniamo, chiacchieriamo, ridiamo, vedo i loro tre magnifici figli crescere e il tè ci accompagna silenzioso. Riccardo mi ha insegnato che la teina dà il suo meglio in una breve infusione, che il tè scuro, che ha riposato più del dovuto nella tazza, in realtà è meno eccitante, al contrario di quanto si possa credere. Un motivo in più a sostenere la tesi dei tre minuti di infusione, per avere il giusto aroma e i giusti effetti.

La famiglia che hanno creato, i loro giovani tre

minuti di infusione perfetti, sono una pietra miliare della mia vita, un porto rassicurante tra i miei affetti.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Antonella Cesareo
Sono nata a Roma cinquant’anni fa e ho sempre coltivato una profonda passione per la comunicazione e la scrittura. Dopo essermi laureata in Scienze della Comunicazione, ho maturato un’esperienza professionale diversificata tra Roma, Torino e il
Monferrato, con un filo conduttore ben preciso: l’attenzione alla comunicazione interpersonale e sociale.
Giunta alla soglia dei quarant’anni, ho deciso di dare una svolta significativa alla mia vita tornando a studiare, questa volta dedicandomi all’Etologia, disciplina che ha influenzato significativamente il mio percorso personale.
Da sempre amante della scrittura, ho collaborato con piccole testate e siti web e portali specializzati, in particolare su tematiche legate al comportamento animale.Oggi, con questa mia prima opera di narrativa, continua ad assecondare la mia curiosità.
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