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L’autobus giallo

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Consegna prevista Aprile 2026
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Il giovane agente immobiliare Ernesto vede improvvisamente deformarsi la propria realtà. Sotto la pressione di personaggi enigmatici, che compaiono a popolare le sue ore e i suoi luoghi, perde contatto con le verità più profonde che lo riguardano e si addentrata sempre più in un mondo caotico e inquietante. E, afflitto da profonde amnesie, inizia a dubitare di aspetti fondamentali di sé. Ha davvero ucciso due donne? E’ stato mai sposato? Se sì, che fine ha fatto sua moglie? In una ricerca zoppicante della verità, Ernesto si imbatterà in situazioni estreme. La profetica guida Gondrond, lo scimpanzé parlante Sultan, agenti di polizia persecutori dalle sembianze animalesche, un misterioso sito web che viviseziona la sua intera esistenza, un allucinante progetto di ricerca scientifica. Ernesto arriverà, infine, al limite ultimo della propria realtà. E quando ogni cosa sembrerà dover svanire nel nulla, tutto acquisterà un senso magico e risolutorio.

Perché ho scritto questo libro?

Ho scritto “L’autobus giallo” animato da due intenti. Il primo, narrare dinamiche psicologiche estreme. Cosa succede ad un essere umano se perde parte delle certezze su cui si fonda il suo essere? Se la sua unità si disgrega? Se verità e immaginazione prendono a confondersi fra loro? Il secondo, collocare tali dinamiche in un contesto thriller. Cosa succede se lo psichico dilaga nella realtà, più vero della realtà stessa? Se arriva al limite del concepibile e sconfina in una logica altra?

ANTEPRIMA NON EDITATA

 

“Scrivono il loro nome.” – rispose il Grifone in un bisbiglio – “Hanno paura di dimenticarselo prima che il processo sia finito.”

L. Carroll

“E adesso, parliamo del racconto stesso. L’ho chiamato fantastico, anche se per quanto mi riguarda lo considero realista in maniera somma.”

F. M. Dostoevskij

PRIMO GIORNO

Erano le due di notte di un lunedì di fine novembre. Le stelle brillavano nell’oscurità gelida, orfana del candore della luna, come punte di spilli su un manto di velluto. Le scale in pietra, che dal cortile portavano al pianerottolo di casa, erano immerse in un silenzio fragile che pure proseguiva imperturbabile e solenne. Due rose rosse fuori stagione si stagliavano, sul muro stonacato, immobili come grumi di sangue rappreso. Ernesto le colse con uno sguardo mesto e smarrito, e salì i gradini uno alla volta con movimenti che gli apparvero poco reali.

Quando aprì l’ingresso, trasalì fino allo spavento. Sul divano della cucina scorse la figura di un uomo in giacca e cravatta. Accese la luce e si accorse di non essersi sbagliato. Era un uomo di almeno cinquant’anni. Viso scuro, segnato da profonde rughe verticali sulle guance, e barba rada.

“Chi è lei?” – chiese in un sospiro.

L’uomo era seduto con la schiena rigidamente discosta dalla spalliera. Voltò la testa verso di lui con una rotazione lenta e meccanica, e gli piazzò addosso due occhi dalle pupille dilaganti nelle orbite come pozze nere e profonde.

“È tardi. Dove sei stato?” – gli chiese, a sua volta, con una voce roca che trapassava i timpani in larghe, calde onde.

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Ernesto corrugò la fronte nel tentativo di capire chi avesse di fronte. Gli venne addirittura il dubbio che fosse un qualche conoscente del quale aveva perso memoria. Il tizio non era armato, né sembrava nutrisse cattive intenzioni, almeno non di quelle immediate e violente. Eppure, ciò non poteva di certo tranquillizzarlo, perché davvero quel viso non gli sembrava noto.

“Chi è lei? Che fa in casa mia?”

“Ti stavo aspettando.”

Ernesto vacillò. Chiuse la porta con entrambi le mani e si risolse a pretendere una qualche spiegazione plausibile. L’uomo, a fianco a sé, aveva un soprabito ed un cappello grigi.

“Come è entrato?”

Quegli sorrise e scosse la testa con l’aria paziente di un padre alle prese col proprio figlioletto irragionevole.

“Non hai un bell’aspetto. Cosa hai fatto?”

Ernesto avvertì, in un lampo accecante, l’impulso bestiale di lanciarsi con ferocia verso il collo dell’intruso e, quindi, di artigliarlo e strangolarlo. Quando passò lo sbalordimento per una così forte emozione, se ne figurò addirittura la scena con estrema precisione. Due corpi in collisione che scivolano sul pavimento liscio e chiaro, e che, avvinghiati in una sola massa, un solo sudore, un solo ansimare cruento, vi si contorcono sopra fino alla morte. Una scia di spiegazioni logiche già sorgeva a rafforzare l’istinto. Era il padrone di casa, lui, e quell’individuo un estraneo che si era introdotto di nascosto nella sua proprietà, un ladro, dunque, un assassino. I vicini avrebbero capito la necessità del delitto. La stampa avrebbe approvato. La politica avrebbe collocato l’evento in una questione più generale di sicurezza pubblica. Ma con la medesima velocità con cui l’impulso gli era saltato alle tempie, in un solo spasmo di assordante dolore, così dileguò lontano come un’eco, lasciando spazio ad uno sconfinato abbattimento. Ernesto sentì e si abbandonò, allora, all’impulso molle di inginocchiarsi e piangere, invocando perdono e compassione. Ma, anche questa volta, assecondò le proprie emozioni unicamente con l’immaginazione. In realtà, restò impalato senza di dire o fare nulla, con un’espressione simile a quella di un bimbo che, per orgoglio, trattiene le lacrime.

“Siediti.” – l’invitò l’inaspettato interlocutore, in una sorta di rassicurante imposizione.

Fino a quel momento, la stupita tensione di Ernesto era montata orribilmente fino al parossismo, nell’incapacità di aprirsi il varco verso un qualsiasi sbocco concreto. Ora, gli si sciolse come per incanto e, finalmente, Ernesto poté affidare il peso del proprio corpo, percorso dai brividi, al solido sostegno di una sedia. Sul tavolo in legno era posato un piatto sporco. Alcuni noccioli di olive, oltre ai rimasugli di un un’insalata e ad alcuni pezzi di formaggio, erano quel che rimaneva di una cena improvvisata.

“Mi sono servito del tuo frigorifero.” – lo informò l’uomo, con un tono di voce che ostentava compiaciuto disprezzo.

Ernesto lo fissò a bocca aperta, senza proferire parola, senza cedere al disappunto gelido che gli formicolava sulla nuca e attorno alle orecchie. Calmo e stranito, come una persona che sogni con la consapevolezza di sognare.

“Ero piuttosto affamato.” – aggiunse l’uomo, senza dare l’aria di chi si voglia giustificare.

“Che vuole da me?” – gli chiese Ernesto.

L’uomo proruppe in una risata grassa e prolungata. Le sensate domande di Ernesto non solo non meritavano risposta, ma evidentemente avevano, su quell’uomo, l’effetto di una burla teatrale. Ernesto, dal canto suo, si guardò attorno, sperduto nella sua stessa cucina, preoccupato che il rumoroso divertimento dell’inatteso ospite fuggisse per ogni dove, attraverso porte e finestre, echeggiando nel cortile, raggiungendo case e stanze altrui, e finendo con lo svegliare i vicini. La paura gli strinse nuovamente il petto in una morsa viscida. La differenza era che ora, piuttosto che originare dalla presenza di quell’uomo, traeva insopportabile vigore dal desiderio che di quella stessa presenza nessuno sapesse nulla. Oddio, il cane in fondo alla strada pareva avesse già preso ad abbaiare.

“Faccia silenzio! Per favore, la smetta!”

La risata si spense lentamente come il vecchio motore di una lambretta. L’uomo s’asciugò gli occhi – quegli occhi le cui pupille inquietanti si ingrandivano e rimpicciolivano in modo innaturale – e tornò alla precedente compostezza.

“Ho buttato nell’immondizia un vasetto di maionese.” – disse con voce neutrale – “Era scaduta da quasi un mese.”

Ernesto non seppe che dire, né s’azzardò a porgere altre domande. La situazione era alquanto bizzarra. Quel che era peggio, Ernesto incominciava a capire sia di non poterne uscire liberamente, sia di non poterselo permettere.

“Questa casa è tenuta in condizioni deplorevoli.” – proseguì l’uomo, allargando le braccia come a mostrare lo stato in cui era la cucina e tutto il resto – “Dovresti prestare maggiore attenzione alle faccende domestiche. È coi vasetti scaduti di maionese che un’intera vita rischia di andare a rotoli.”

“Mi è permesso sapere da chi dovrei accettare simili consigli?”

L’uomo sorrise ancora una volta, sommessamente questa volta.

“Pensavo fossi pronto ad ascoltare ed, invece, sei ancora sulla difensiva.”

“Chi è lei?” – insisté Ernesto.

“Suvvia, smettila d’essere tanto formale. Non sopporto che proprio tu mi dia del lei.”

“Guardi che chiamo la polizia.”

“No, non lo farai. Sarebbe un’idiozia.”

Ernesto si stizzì tremendamente. Si fece forza e guardò il misterioso individuo dritto negli occhi.

“Mi dica quello che deve dirmi e se ne vada, allora.”

“Perché non mi dai del tu?”

“Non ci conosciamo!”

“Ne sei sicuro?”

“Certo che sì! Sono sicuro di non averla mai vista in vita mia.”

“Ciò non vuol dire che non ci conosciamo” – lo ammonì, l’uomo, con un ammiccamento furbo.

“Non la capisco.”

“Non è importante, in fondo. Non ora.”

L’uomo si alzò con impeccabile lentezza dal divano, mostrandosi in tutta la sua alta statura.

“Gradisci una Gauloise rossa?” – disse, sfilando una sigaretta dal pacchetto che aveva tirato fuori dalla tasca della giacca – “Sono le tue preferite, vero?”

Ernesto accettò il cilindro di tabacco della marca che era solito fumare e, semplicemente, decise che non valeva la pena di interrogare quell’uomo su ciò che pareva sapere di lui. Credé, in definitiva, che, assecondando quel suo iniziale moto di allarmata curiosità, non avrebbe concluso altro che dare all’interlocutore un vantaggio ancor maggiore di quel che effettivamente doveva avere.

“Come ti chiami?” – chiese, infine, passando al tu.

“Puoi chiamarmi Gondrond.”

Ernesto lo guardò dubbioso.

“Sei inglese?” – chiese ancora.

“Bah, credo proprio di no.” – gli rispose Gondrond, curvandosi per accendergli la sigaretta.

“Sì, lo ammetto.” – continuò – “È abbastanza insolito trovare in casa un estraneo, o presunto tale, alle due di notte. Ma le apparenze, a volte, sono assai poco veritiere.”

Ernesto lo fissò con occhi tremuli e interrogativi. Tirò una lunga, intensa boccata dalla sua Gauloise e desiderò, con un ardore che in fondo lo umiliava, che quell’uomo proseguisse con le spiegazioni.

“Per esempio, come ho già avuto modo di accennarti, io non sono affatto un estraneo. E, come se ciò non bastasse, avevo con te un appuntamento per le undici di questa sera. Quindi, fra noi due, quello che dovrebbe essere furioso sarei io, piuttosto che te. Ti ho aspettato per ben tre ore!”

Ernesto finì col credere seriamente a quel che ascoltava, ma proprio non gli riusciva di ricordare di aver fissato quell’appuntamento, tanto più a quella persona che, per quanto si sforzasse, non gli risultava affatto di conoscere.

“D’accordo,” – disse Gondrond, poggiandosi con la schiena alla cucina – “Te ne sei dimenticato. Non ti preoccupare. Affamato com’ero, ne ho approfittato per mangiare qualcosa. E poi… se non ti capisco io, chi può farlo?”

Ernesto aprì la bocca per porgere una domanda.

“No, non mi supplicare alcuna spiegazione.” – lo fermò Gondrond – “Verranno da sole e ben altrimenti che con le parole. Ti basti constatare che, nel momento stesso in cui hai dimenticato l’appuntamento che avevamo fissato, hai reso il nostro incontro assolutamente necessario. Se non altro, in questo modo hai avuto la possibilità di verificare che sulla tua memoria non possiamo proprio fare affidamento.”

Gondrond fece cadere la cenere della sigaretta nel lavandino ingombro di stoviglie.

“Dovresti mettere un po’ d’ordine.” – gli consigliò nuovamente.

“Vuoi dire che abbiamo fissato un appuntamento esclusivamente per ricordarmi che l’avevamo fissato?”

“A questo punto, direi di sì!” – annuì Gondrond.

“È un’assurdità!” – ribatté Ernesto – “Questo dimostra soltanto che non c’era alcun incontro da rispettare.”

Gondrond lo guardò con severità e prese a camminare attorno al tavolo, davanti ad Ernesto come alle sue spalle.

“Sì, dal tuo punto di vista può sembrare sia così. Ma ti ho appena detto che l’apparenza non sempre corrisponde alla verità.” – disse conciliante – “Io sono qui per ricordarti che abbiamo fatto un patto molto importante e per dirti che è giunto il momento di metterlo in pratica, tanto più perché hai mancato all’appuntamento.”

Ernesto spiaccicò la sigaretta nel piatto in cui Gondrond aveva mangiato.

“Continui ad asserire assurdità!” – sbottò Ernesto – “Come posso mettere in pratica un patto su cui non ci siamo mai accordati?”

Gondrond rise gioviale.

“Forse hai ragione, chissà.” – convenne – “Ma, nel nostro caso, il patto riuscirà tanto meglio quanto più tu, pur conoscendone l’esistenza, penserai di non saperne nulla. Se, per esempio, avessi rammentato l’appuntamento e avessi, quindi, saputo della sua essenzialità, ora non avresti alcun bisogno di rinnovare un patto con me. E, probabilmente, non mi avresti neppure trovato qui. Come dire, il nostro è un patto che viene confermato e ribadito soltanto quando tu inizi ad ignorarlo!”

“Assurdità! Assurdità! Assurdità!”

“Eppure, non è un sogno. Tutto questo è reale. Non è così?”

Ernesto si voltò con intenzioni bellicose.

“Come sei entrato in casa mia?”

Gondrond estrasse un mazzo di chiavi dalla tasca dei pantaloni col gesto, prima esitante e poi repentino, proprio di un prestigiatore che prende un coniglio dal cilindro.

“Me le hai date tu.”

“Hai fatto le copie delle mie chiavi. Non so come, ma hai fatto delle copie.” – lo accusò Ernesto.

“Se preferisci.” – scrollò le spalle Gondrond – “Ora vado.”

“E il patto di cui blateravi?”

“Ti sarà chiaro in futuro. A me interessa soltanto avvisarti che, a quanto pare, la fine è prossima. Devi tenerti pronto.”

“La fine?” – agghiacciò Ernesto.

“Non allarmarti. Non serve a nulla. Tieniti pronto, soltanto questo è importante.”

“Come posso tenermi pronto a qualcosa che ignoro?”

“È un paradosso, vero? Ebbene, credo sia venuto per te il tempo in cui le assurdità divengono reali e tangibili. D’altronde, che la gente fondi gran parte dei propri giorni su colossali assurdità capita assai più spesso di quel che si suppone.”

“Ti riferisci alla mia morte?” – bisbigliò Ernesto, chiudendosi la bocca con le sue stesse mani.

“No, non sarà così semplice.”

Ernesto si sentì gli occhi invasi da calde e dense lacrime che non ne volevano sapere di rigargli le guance, imperlate piuttosto di sudore freddo. Aveva paura ed era furioso. Tremava, prossimo al tracollo, eppure si sentiva pronto a combattere. Triste, avvilito, stravolto.

Si voltò per porre un’ultima domanda a quell’uomo – enigmatico, maledetto, serafico! La domanda decisiva, forse, quella che gli dilaniava le carni. Ma, proprio in quell’istante, la porta d’ingresso si chiuse alle spalle di Gondrond. Ernesto non provò nemmeno a corrergli dietro, talmente era sfinito, prostrato, atterrito.

Ernesto restò seduto per una buona mezz’ora, incapace di un movimento qualsiasi. I gomiti puntati sul tavolo e la testa fra le mani. Sommerso dalla luce della cucina, giallognola, acidula e sbiadita come dall’angoscia che gli dilagava dentro.

“Devo essere completamente impazzito!” – pensò.

Si fece forza e si alzò con uno scatto sofferto. Non aveva alcun desiderio di cedere allo scoramento. O, più esattamente, si opponeva testardamente allo strisciante desiderio di cedervi una volta per tutte.

Quell’uomo misterioso, Gondrond. La maniera in cui s’era presentato. Il messaggio strampalato ed astruso che era venuto a comunicargli. In quel preciso momento della sua vita era troppo per lui, ben più di quanto si sentisse in grado di sopportare. Eppure, si rese conto, all’improvviso, che quella visita, per quanto imprevedibile, era qualcosa che, in qualche modo, lui s’aspettava, e non da pochi giorni. Qualcosa, a dirla tutta, di cui lui necessitava tremendamente e che, ad ogni modo, non avrebbe saputo immaginare prima che si fosse compiuta.

“No, non sono pazzo.” – pensò – “Quel tipo, Gondrond, poco fa era davvero in cucina ed io gli ho davvero parlato.”

Ad ogni modo, per ora non c’era nulla che potesse fare. Si costrinse, dunque, a non cedere a nemmeno uno solo degli innumerevoli frammenti di pensiero che sentiva turbinare, tumultuosi, al di sotto della sua fragile coscienza. Inserì, piuttosto, una videocassetta VHS nel videoregistratore e si sdraiò sul letto.

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Commenti

  1. (proprietario verificato)

    … l’anteprima del Libro “L’AUTOBUS GIALLO” è molto accattivante…non vedo l’ora di leggerlo. 📚😊👍🏻

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Giancarlo Rossi
Nasco a San Severo (FG) nel 1976, ma mi considero cittadino di Caserta, dove mi trasferisco giusto in tempo per il terremoto del 1980. Cresco in una caotica famiglia di 5 figli, 2 genitori, 1 nonno e un numero imprecisato di animali. Alla soglia dell'età adulta, decido di iniziare a cercare altrove nuovi pezzi della mia identità. Prima l'università a Roma, poi lavori qua e là per l'Italia, infine esperienze all'estero. In una di queste, nella splendida Rodi, trovo la metà che mi completa: Linda. Per amore, mi trasferisco in Piemonte e metto su la famiglia che amo sopra ogni altra cosa, grazie alla nascita di Matilde ed Enrico. Nella provincia di Torino, lavoro con passione come docente alle superiori di secondo grado e come psicoterapeuta.
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