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Il Bistrot dei destini incrociati

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Consegna prevista Aprile 2026
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Nel cuore di un luogo di mare, Cosimo lascia l’insegnamento per aprire un bistrot. Ma il suo non è solo un locale: è un rifugio per chi cerca un posto dove le storie si possano intrecciare, i silenzi trovare voce, le fragilità non essere nascoste. Tra amici di sempre, clienti occasionali e presenze misteriose, il Bistrot dei Destini Incrociati diventa un crocevia di vite e di speranze. E mentre Cosimo si confronta con le ombre del passato, i legami familiari e le assenze che ancora chiedono di essere ascoltate, scopre che anche il dolore può essere accolto e, forse, trasformato.
Una storia di sogni e di memoria, di legami che resistono al tempo e di incontri capaci di lasciare un segno. Perché, a volte, abbiamo tutti bisogno di un luogo che ci accolga davvero.

Perché ho scritto questo libro?

Ho scritto questo libro per dare voce alle fragilità, ai silenzi, ai legami che ci salvano o ci feriscono. Dopo anni in classe, ho sentito il bisogno di raccontare ciò che resta quando qualcuno si perde e quando le parole, anche quelle dei poeti, non bastano più. Il bistrot di Cosimo è un rifugio di incontri e memorie, un luogo dove il dolore si trasforma in ascolto e in una possibile rinascita. Perché, a volte, basta un posto che sappia accogliere per sentirsi meno soli.

ANTEPRIMA NON EDITATA

…il disfarsi e rifarsi ininterrotto del mondo

(I. Calvino, Il castello dei destini incrociati)

“Ma quanto pesa questa insegna?”

“Non parlare e tienila su, altrimenti la mettiamo storta.”

Ottobre. Non un ottobre di quasi estate, ma un ottobre di pioggia e di vento. Un vento forte, possente, che increspa il mare e fa arrivare il sale negli occhi.

“Ok, ce l’abbiamo fatta.”

“Secondo te è dritta?”

“È dritta, rilassati. Ma sul serio! ‘Il bistrot dei destini incrociati’? Che nome è?”

“Non iniziare. Ognuno ha i suoi gusti. L’importante è che abbiamo finito e possiamo tornare a casa.”

“Mah… io continuo a dire che con un nome così la gente manco ci entra. Gli avevo dato delle dritte top, ma niente, zero ascolto. Anzi, quasi si offendeva.”

“Lo capisco, Giuliano. I tuoi titoli erano del tipo ‘Mangia e bevi’, ‘Il Paradiso dello stomaco’, ‘La grande abbuffata’…”

“Ehi, non erano così male! Meglio che un nome da libro antico…”

“Almeno io leggo qualcosa che non siano meme e commenti su TikTok.”

“Che pesantezza, bro…”

“Basta, ragazzi.” Una voce forte, risoluta, accompagnata da un sorriso appena accennato. “Vi ringrazio per l’aiuto, davvero. Siete stati bravi. Ora andate a riposarvi. Domani è il gran giorno.” “Liberi! Dai Lorenzo, muoviamoci prima che ci metta a lucidare anche le maniglie.”

Il sorriso largo di Giuliano. “Sto già correndo, bro!” Li guardò, Cosimo. Giovani, leggeri, un po’ rumorosi. Tra risate e spinte leggere. Restò a guardarli mentre si allontanavano.

E si scoprì a sorridere nel vedere Giuliano fare ogni tanto un saltello. Come un passo fuori tempo. Come lui. E si scoprì a sorridere vedendo Lorenzo camminare compunto e dritto. Come suo fratello. Come Piero.

Cosimo si guardò intorno. Tutto profumava di legno nuovo. Lucido. Accarezzò il bancone, posto lungo la parete. E pensò a quante storie si sarebbero intrecciate lì sopra. A quante mani diverse avrebbero preso quei bicchieri che adesso scintillavano ordinati. Le bottiglie, dietro il bancone, riflettevano la luce ormai morente del sole che filtrava dalle finestre, creando un caleidoscopio di colori. Ma un pensiero si infilò tra le pieghe del suo entusiasmo. Forse certe assenze non lasciano mai davvero spazio al nuovo. Non tutto si può raccontare, si disse. Non tutto si può lasciare indietro.

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Non era bello, Cosimo. Non nel senso comune del termine. Ma c’era in lui qualcosa che si imponeva con discrezione: una calma profonda, uno sguardo che pareva trattenere le parole e ascoltare prima di giudicare. I capelli, un tempo folti e neri, avevano cominciato a colorarsi di  sale. Portava la barba corta, appena più scura, come se volesse schermarsi dal mondo. Il volto era segnato, ma non consumato. Le rughe gli si raccoglievano agli angoli degli occhi, quegli occhi castani, caldi e vigili come linee lasciate dal tempo sulle cose amate. Alto, le spalle larghe, camminava con lentezza, come se ogni passo fosse parte di un gesto pensato. Aveva mani forti e curate. Mani che sapevano tenere un libro, versare un bicchiere di vino, o accarezzare senza peso. C’era qualcosa in lui che somigliava a certe case antiche: silenziose, solide, e piene di storie che non avevano fretta di essere raccontate.

Ma c’era anche qualcosa che lo stringeva dentro, un nodo sotto lo sterno che non riusciva a sciogliersi. Come se la bellezza che aveva costruito avesse, in sé, un presagio di caducità. Aveva sempre avuto questa tensione: progettare il futuro e, al tempo stesso, averne timore. Come se ogni cosa bella fosse destinata, prima o poi, a sfuggirgli di mano. Forse per questo amava i versi, perché fissavano l’effimero. Per questo aveva creato il bistrot: un luogo in cui l’evanescente poteva diventare casa.

“Mi piace questa follia.” Pensò. E il vento forte cercò di insinuarsi dentro quel mondo caldo facendo muovere la porta. “Devo sistemarla meglio.” Si disse. Guardò i tavoli. Ognuno diverso dall’altro. Scelti accuratamente. Due di questi provenivano dalla loro dimora di campagna. Cosimo li aveva fatti restaurare e portare lì. “Sono a casa.” Gli venne alle labbra. E sorrise a sé stesso.

Poi prese il giaccone blu. Si sistemò il cappello in testa e, alzandosi il bavero, andò incontro a quell’aria di mare. Prima di salire in auto si voltò ad osservare la sua creatura.

La facciata di mattoni rossi con le lanterne di ferro battuto che ondeggiavano al vento. La porta di legno massiccio. Pensò che non avrebbe voluto altro luogo dove far quietare, almeno per un po’, le tempeste del cuore.

La mattina seguente Cosimo, in piena agitazione, stava strillando al telefono.

“Giuliano, dove diavolo sei?”

“Ma che ore sono?”

“È l’ora in cui dovresti essere già qui! Sbrigati poltrone.”

“Negriero, arrivo.”

“Cosimo, ci sei?”

“Lorenzo, meno male… Tuo fratello sta ancora dormendo.”

“Naturale, è tornato a notte fonda! Serata di studio, ha detto.”

“Dai, dammi una mano a sistemare i tavoli. Il tempo corre e abbiamo molte cose da fare. Piero? Verrà, vero?”

“Ci sarà. Ha fatto un sacco di storie su tutti gli impegni che ha ma sono sicuro che stasera sarà qui.”

Cosimo si fermò a guardarlo.

“Non sarebbe lo stesso se…”

“Non pensarci nemmeno. Non mancherà. Fidati. In fondo è una festa di famiglia, non credi?”

Due occhi assonnati dentro ad un maglione blu a trecce larghe.

“Me lo fate un caffè?”

“Buongiorno. Alla buon’ora!”

Giuliano si accomodò sull’alto sgabello davanti al banco.

” Dai, facciamo che io sono un cliente. Cosimo, vediamo come te la cavi.”

“I clienti come te portano solo guai. Bevi questo caffè e muoviti. Qui si lavora.”

Giuliano lo guardò con uno dei suoi sorrisi disarmanti. E a lui venne voglia di arruffargli i capelli già abbastanza spettinati. Come quando era piccolo e ne combinava una delle sue.

Il magazzino era ben rifornito. Cosimo si compiacque nel vedere che tutto era al suo posto. Ben organizzato. La sua avventura doveva cominciare senza lasciare niente al caso. Non era nel suo stile improvvisare. Si era preparato a lungo per arrivare fino a lì. Anche se gli avevano dato del pazzo. Uno soprattutto gli aveva detto che era un folle sognatore. E gli aveva fatto male. Perché era Piero. Suo fratello Piero.

Tornò nel locale e sentì un’altra voce insieme a quelle di Giuliano e Lorenzo.

Seduto al bancone c’era un uomo. Segnato dal tempo. Dagli occhi acquosi di mare e di vento.

Si guardarono e le voci tacquero di colpo.

“Ho visto l’insegna.” Lo disse piano come a scusarsi di essere entrato.

“Non è ancora aperto. Inauguriamo stasera.” Disse Cosimo con un tono gentile nella voce.

“È caldo qui.” E gli occhi dell’uomo si persero a guardare intorno.

Giuliano lo guardava con occhi imploranti. Lorenzo si avvicinò a lui come per dirgli che lo capiva se l’avesse cacciato.

“Le offro un caffè. Poi ci lascia lavorare.”

Un accenno leggero della testa e l’uomo si levò il cappello.

Bevve il caffè tenendo a lungo prima la tazzina tra le mani.

“Mi piace qui.” E si avviò verso l’uscita.

“Può tornare stasera”. Gli gridò Giuliano quando era già sulla porta.

Gli occhi dell’uomo simularono un sorriso. Poi la porta si richiuse alle sue spalle.

“Cosimo, sei sicuro di volere Giuliano dietro il banco? Io lo metterei a servire ai tavoli.”

“Fratello, li stendo tutti con i miei cocktail strabilianti. Lasciami fare.”

“Appunto. Non vorrei che la serata finisse con la gente accasciata da rianimare.”

“Fatela finita voi due. Lorenzo tu ti assicuri che tutto fili liscio in sala e io e Giuliano stiamo dietro il bancone. Naturalmente avremo con noi Enea.”

“Enea?” Il coro delle due voci rese quel nome ancora più altisonante.

” Enea. Colui che mi assisterà giornalmente mentre voi due sarete occupati a studiare.”

Giuliano si piantò davanti a lui.

“Questo è un vero e proprio tradimento.”

“Per una volta sono d’accordo con mio fratello.” Anche Lorenzo fece un passo avanti affiancandosi a lui.

Cercò di rimanere serio, Cosimo. Ma provava una tenerezza struggente davanti al broncio da bambino di Giuliano. E all’aria ferita di Lorenzo.

“Cosa pensavate di fare? Non potete lavorare qui tutti i giorni. Io ho bisogno di un aiuto ed Enea è stato il prescelto.”

“Con quel nome, per forza!”

“Ma chi è questo Enea? Dove l’hai trovato? E lo preferisci al sangue del tuo sangue? Ai tuoi nipoti?”

Gli mise un dito davanti al viso, Giuliano. Doveva sembrare una minaccia, ma fece scaturire la risata di Cosimo.

“Selezionato tra i migliori barman della zona. Premio Margarita 2017, Negroni sbagliato 2018 e Spritz al profumo di mare 2019. Vi basta?”

Si guardarono in faccia e scoppiarono a ridere tutti e tre.

“Spritz al profumo di mare! Questa te la sei inventata di sana pianta. Però carina l’idea…” Giuliano già fantasticava sugli ipotetici ingredienti.

“Quindi lavorerà con te. Qui. Tutti i giorni.”

Il realismo di Lorenzo. La sua preoccupazione. Quella sensazione di disagio che l’aveva colto alla notizia che qualcuno che non era lui sarebbe stato accanto a suo zio dalla mattina alla sera.

Cosimo conosceva suo nipote. Aveva quella forza di fare quadrato con tutta la famiglia che lo commuoveva. Per lui non dovevano esserci intrusioni. L’anello che non tiene. Tutti vicini e uniti malgrado tutto.

“Lavorerà con me perché ne ho bisogno.”

Senza repliche la voce di Cosimo.

“Ma questa è anche la vostra casa. Dopo che avrete studiato e dato gli esami potrete darmi una mano, una volta o due la sera. Vi pagherò. E capirete che è duro lavorare quanto studiare.”

Un lampo negli occhi vispi di Giuliano. Un velo di malinconia in quelli di Lorenzo.

“Hai ragione. Da solo non puoi farcela. Ma io verrò appena posso. Te lo prometto.”

“Lo so, Lorenzo. Senza promettere.”

Una carezza su quel viso di piccolo uomo.

“Io potrei anche venire a studiare qui.”

Lo guardò Cosimo. Intensamente.

“Perché no…” E negli occhi dell’uomo si accese una luce a metà tra un sorriso e un’ombra.

Il vento soffiava forte. Cosimo, le mani in tasca e il bavero alzato, guardava l’edificio dall’altra parte della strada. Riusciva a intravedere il movimento all’interno e ne percepiva l’adrenalina. “Mi piace tutto questo.” Pensò. Ma era dovuto uscire. Prendere un po’ d’aria. Nonostante il vento e il freddo pungente.

I suoi pensieri correvano liberi. “Ho inseguito un sogno. Ma adesso che lo vedo realizzato mi spaventa. È come se pensassi di aver sbagliato tutto. O di non averne più di sogni una volta guardato questo negli occhi.”

“Dove diavolo è andato?”. Gli occhi di Giuliano si spostavano da una parte all’altra della grande sala.

“Era qui un attimo fa.”

“Ha la capacità di sparire nei momenti peggiori! La gente sta cominciando ad arrivare.”

“Giuliano calmati. È tutto sotto controllo. Sarà in magazzino o in bagno.”

“Io non capisco perché lo giustifichi sempre.”

“Non giustifico nessuno. Sono solo realista.”

Devo rientrare. Pensò. Ma non riusciva a muoversi. La porta continuava ad aprirsi e chiudersi. Voci allegre gli arrivavano alle orecchie e la musica jazz, soffusa e suadente, stava riempiendo l’aria.

“Un bel locale. Anche da fuori. Posizionato in un punto buono. Parcheggio comodo e ci si arriva facilmente.” Una voce forte e penetrante vicino a lui.

“Allora ci sei.” E sorrise Cosimo. Non solo con gli occhi.

“Dove avrei dovuto essere? È una settimana che i due delinquenti mi martellano. Impegni spostati ed eccomi. Ma tu che ci fai qui fuori?”

“Ti aspettavo, Piero.”

Piero, suo fratello, era l’altra faccia del tempo. L’uomo delle agende ordinate, dei bilanci perfetti, delle certezze messe in fila come colonne di un foglio Excel. Indossava sempre giacche ben tagliate, orologi costosi e dal fascino antico e un’espressione che non lasciava spazio agli eccessi. Aveva lo sguardo tagliente, di chi non si fa illusioni. Ma sotto quella scorza , Cosimo lo sapeva bene, c’era una fragilità ben custodita. Era  lui, quando erano ragazzi, a correre quando Cosimo cadeva. Lui a trattenere le lacrime nei momenti peggiori con lo stesso rigore con cui oggi tratteneva le emozioni. Ed era stato proprio quel rigore a separarli nel tempo. Per anni avevano camminato in parallelo, come due binari che non si toccano. Ma Cosimo, nel fondo, non aveva mai smesso di cercare il suo sguardo. Forse quella sera, nell’abbraccio lungo davanti al bistrot, era riuscito a ritrovarlo.

Piero lo guardò intensamente. “Tu hai sempre saputo vedere oltre, Cosimo. Io invece contavo. Contavo giorni, errori, soluzioni. Tu cercavi la bellezza.”

Cosimo si girò ad osservare il mare. Non guardandolo davvero.

“Non è servita aa aiutare  chi volevo salvare, se è questo che vuoi sapere.”

Piero abbassò lo sguardo anche se il fratello non lo stava guardando.
“Non ho mai avuto il coraggio di parlarti di Filippo. Mai. Pensavo che il silenzio fosse rispetto. Ma forse era solo paura.” Cosimo si girò guardandolo tristemente negli occhi.
“È stato anche il mio. Il silenzio. E la paura. E ora… ora è solo memoria. Che ogni tanto bussa. A volte piano. A volte come un pugno”

Piero appoggiò la sua testa contro quella del fratello. Così. Senza parlare.

Varcarono la porta insieme. Come tanto tempo fa.

“Prof., devo andare a prendere altro gin, va via che è un piacere.”

“Enea, piantala con questo prof, lo sai che non esiste più.” E calcò su quest’ultima affermazione. “E sbrigati ad andare nel magazzino” gli rispose con un velo di malinconia nello sguardo.

“Cosimo, olive, noccioline e patatine a livello di guardia!”

“Giuliano, segui Enea e prendete il necessario.”

“Sarà lui a seguire me io sono tuo nip…”

Non lo lasciò terminare la frase.

“Sei un uomo morto se non muovi le chiappe subito!”

La musica si diffondeva nell’aria. Le persone si muovevano tra i tavoli a proprio agio con il bicchiere in mano. Si intrecciavano risate. Parole.

Cosimo dietro il bancone osservava.

” È una serata fantastica.” L’espressione soddisfatta di Giuliano.

“Cosimo, i miei complimenti. È un luogo straordinario.”

“Detto da te, Francesco, è un gran complimento. Sono felice che tu sia qui.” “Non sarei mancato e tu lo sai. E poi dovevo vedere con i miei occhi il sogno del mio folle saggio amico”. Lo guardava Francesco con gli stessi occhi di mille anni prima quando in un’aula dell’università si erano seduti accanto e avevano poi continuato a camminarsi a fianco.

“Ho visto i libri. Il tuo Ariosto, Leopardi, Montale, Pavese. C’è anche il mio Kierkegaard…”. E sorrideva Francesco con i suoi occhi verdi e qualche filo bianco tra i capelli.

Guardarlo era come avere di nuovo diciotto anni. Camminare ancora per i corridoi della facoltà con gli occhi pieni di sogni e tutta la vita ancora da vivere.

“Un locale stupendo” “Complimenti Cosimo” “Torneremo sicuramente, serata stupenda.” Incrociarsi di mani. Di abbracci. Pacche sulle spalle. Sorrisi. Sorprese. Volti conosciuti e da ricordare. Volti nuovi.

La notte stava scivolando via. Insieme alle persone, alla musica, ai bicchieri lasciati vuoti sui tavoli e alla porta che si chiudeva su tutto questo.

“È andata, zio! E direi benone.”

“Da quando mi chiami zio, Giuliano?”

“Da quando si è scolato lo scolabile.”

“Ha parlato Fra Lorenzo!”

“Siamo stanchi, nipoti. Siete stati un aiuto prezioso e vi ringrazio. Ma ora è il momento per tutti di riposare.”

La sua voce non ammetteva repliche. I ragazzi si rivestirono, Enea compreso, e lasciarono il locale andando ognuno per la propria strada.

Cosimo aveva bisogno di restare solo. Prese un bicchiere e una bottiglia di vino rosso. Toscano. Il preferito del generale, suo padre. Si sedette davanti alla grande libreria. L’accarezzò con lo sguardo.

In serate come quelle si chiedeva se avesse lasciato davvero la scuola per scelta. O se, in fondo, fosse stato un modo per fuggire. L’aula, i ragazzi, le parole condivise, tutto gli sembrava lontano come una vita precedente. C’era stato un tempo in cui credeva davvero che la poesia potesse cambiare le cose. Aiutare a trovare luce, anche nel buio. Poi qualcosa si era incrinato. Una crepa sottile che non aveva saputo riconoscere. Una voce che non era riuscito ad ascoltare davvero. Filippo… Da allora, parlare in classe era diventato impossibile. Come se ogni verso gli si spezzasse in gola. Come se ogni parola chiedesse conto del suo silenzio.
Così aveva smesso. Ma la poesia era rimasta. E il bisogno di dare un posto alla fragilità. Il bistrot era nato da lì: non da un sogno, ma da una mancanza. Da una colpa silenziosa.
Era il suo modo per continuare a esserci. Anche se non più in cattedra. Anche se non più con le parole.

Accese lo stereo e scelse un brano che non ascoltava da tempo. Le prime note dell’Adagio di Albinoni riempirono lo spazio con la loro bellezza dolente.
Rimase fermo. Come ogni volta che lo sentiva, gli sembrò che qualcuno lo chiamasse da un luogo lontano. Non un nome. Solo un’assenza che faceva rumore.

Stappò la bottiglia lentamente. Senti il rumore confortante del vino, color rosso rubino, che scendeva nel bicchiere. Se lo portò al naso e respirò quel sentore di frutti rossi e amarene. Alzò il calice verso la libreria in un muto brindisi. “Perdonami, se puoi”. Disse. E il vento sembrò insinuarsi più forte sotto la porta.

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Antonella Sacconi
Mi chiamo Antonella Sacconi e sono prima di tutto un’insegnante. Da trent’anni, dopo una laurea in lettere classiche e una specializzazione in archeologia greca, cerco di far arrivare ai miei ragazzi, forte e chiara, la voce ancora così potente e capace di emozionare dei nostri immortali poeti. La scrittura è sempre stata il filo conduttore della mia vita: che si trattasse di saggi accademici, articoli o della creazione di storie originali, ho sempre trovato nella parola scritta il mezzo ideale per dare forma alle emozioni, ai personaggi e alle relazioni che popolano il mio immaginario.Mi sono dedicata alla fotografia, un’altra mia grande passione, che mi ha portato a esporre i miei lavori in importanti gallerie e a ricevere riconoscimenti in ambito nazionale e internazionale.h
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