Quel mattino il cielo sopra la città di Pola era di un azzurro più intenso degli altri giorni, con le nuvole che assomigliavano a scaglie bianche che lo trafiggevano, facendogli piangere fievoli raggi di luce dorata. In una strada del centro, una piccola bambina paffuta, Sara, stava inseguendo, o almeno cercava di inseguire, tre suoi giovani coetanei e compagni di scuola.
Aveva capelli scarmigliati e lunghi fino alle spalle, con un piccolo fermaglio il cui color bianco risaltava col nero corvino della sua chioma, e occhi di un verde brillante. Portava uno spesso cappotto per proteggersi dal freddo, guanti marroni, una sciarpa rossa al collo e una cartellina di cuoio con una cordicella a tracolla. Al petto stringeva invece un coniglietto di pezza dalle lunghe orecchie afflosciate e con due bottoni al posto degli occhi: Oliver. “Forza, sbrigati Sara!” gli urlò uno dei bambini, Alberto.
“A-aspettatemi!” li pregò lei col fiato mozzato.
“Che lumacona che sei!” la derise Alberto, mentre altro la prese in giro cantilenando con tono canzonatorio: “Sara è una lumaca, Sara è una lumaca!”
A un certo punto, Sara prese con la punta dello scarponcino una mattonella rialzata sul terreno, inciampò e cadde a terra. “Ahia!” gemette la piccola. Nella caduta Oliver gli sfuggì di mano e anche lui cadde per terra, con uno dei due occhi che gli saltò via.
Uno degli amici di Alberto la canzonò esclamando: “Attenta a dove metti i piedi, Lumaca!” e i due corsero via, senza aspettarla. Alberto invece rimase a guardare un attimo Sara, come se stavolta fosse in pena per lei… ma alla fine, seguí gli altri due. Sara, con occhi lucidi, si rialzò da terra, e guardandoli mentre correvano via, esclamò tra lacrime di rabbia: “Siete cattivi!” La bambina raccolse poi il suo coniglio di pezza caduto per terra e lo tenne per un braccino. Si scoprì il ginocchio e vide che se lo era sbucciato.
“Mi brucia il ginocchio…” si lamentò coi lacrimoni. Poi sentì qualcuno chiamarla da dietro: “Eccoti, uccelletto.”
Sara riconobbe quella voce all’istante, e quando si voltò vide un uomo venirle incontro sorridente: era alto e con una lunga giacca trench nera, mentre sotto era in gilet e cravatta. Aveva i baffi a matita, i capelli corti e dello stesso nero corvino di quelli di Sara, ben pettinati, e gli occhi di un marrone scuro. Al naso portava inoltre un paio di occhiali dalle lenti ovali. Il suo sguardo era dolce, e sarebbe assomigliato completamente ad una persona ordinaria se non fosse stato per il fatto che l’imperturbabilità del suo viso era segnata da un elemento pittoresco e al contempo grottesco: il lato sinistro era coperto da una maschera di latta che ne imitava le fattezze. La parte sinistra del naso, lo stesso sopracciglio, lo stesso occhio, lo stesso labbro e persino il medesimo baffo. Era una protesi facciale.
“Mio padre, Carlo Striviani. L’uomo migliore che abbia mai conosciuto. Era un insegnante di letteratura inglese al Liceo “Jacopo Stellini” di Udine, e un ex membro del Partito socialista. Proprio per quest’ultima cosa le camicie nere lo misero nella lista delle Zecche Rosse, tentando di impedirgli in ogni modo di insegnare. Facevano sempre irruzione in aula per interrompere le sue lezioni, ma mai gli avevano torto un capello, perché era molto rispettato tra i suoi studenti e colleghi del liceo. Ma, nonostante questo, il babbo sapeva che era solo una questione di tempo prima che gli si presentassero anche sotto casa… e nel 1937 fuggì nel piccolo comune di Marzana, in Croazia, con sua sorella Giuliana e il figlio piccolo di lei, Marco, mio cugino. Marzana, nel 1921, fu al centro della ribellione di Prostina contro il terrore fascista, e più in là sarebbe diventata ironicamente il teatro delle foibe. Lì conobbe Paola Torrentesi, mia madre, che all’epoca era una semplice fioraia, e si sposarono. L’anno successivo nacqui io. Nel 1942 il babbo partì per la Campagna di Tunisia, mai capito se per la leva o la sua lealtà al tricolore: fatto sta che l’unica medaglia al valore che ricevette fu una scheggia d’artiglieria al lato sinistro del volto. Povero babbo mio… Fu solo nel 1944, dopo mesi di prigionia, che gli fu concesso di tornare in Italia. Quando passò a Trieste, potè finalmente ricevere una protesi da un medico, un tedesco… forse l’unico buono incontrato fino ad allora. Quando ritornò, ci trasferimmo tutti qua a Pola, dove la mamma e il babbo ebbero Alex, mio fratello minore, e il babbo si rimise a fare l’unico lavoro che amava davvero: insegnare. Non parlò mai di cosa vide laggiù in quei campi di battaglia, neanche con zia Giuliana, e la mamma mi disse di non chiedergli mai nulla al riguardo. Ma d’altronde, cosa poteva capirne una bambina come me delle guerre insensate e folli degli adulti, quando le uniche guerre che avevo visto erano quelle tra me e mio cugino Marco, che ci sfidavamo coi rametti trovati per terra fingendo che fossero baionette.”
Sara tornò a illuminarsi in volto e gli sorrise: “Babbo!”
L’uomo si inginocchiò verso di lei e gli accarezzò i capelli: “Perchè piangi, uccelletto?”
“Babbo… mi fa male il ginocchio…”
Carlo lo osservò ed esclamò: “Oh no, te lo sei sbucciato! Ma caso vuole che oggi anche il tuo babbo dovesse andare a scuola, e che avesse anche questo con sè!”
L’uomo estrasse un cerotto dalla tasca, e glielo applicò sulla ferita. “Va meglio?”
Sara annuì con la testa.
Carlo gli asciugò le lacrime: “Dai, basta con quel muso. La tristezza non è qualcosa che ti si addice, uccelletto.”
“Dal giorno in cui tornò a Marzana, il babbo iniziò a chiamarmi Uccelletto. Quando crebbi, cominciai a chiedermi del motivo di quel nomignolo che inizò anche a diventare un po’ fonte di imbarazzo per me. Fu solo dopo che il babbo morì che la mamma me ne rivelò l’origine: il giorno in cui venne colpito dalla scheggia e portato dal medico del suo battaglione, tutti gli dicevano di iniziare a confessarsi, perché ormai stava per passare a miglior vita. E lui le preghiere le fece davvero, per tre notti intere, pur non riuscendo a muovere la mascella. Il quarto giorno, un piccolo uccello, un allodola del deserto, gli si posò accanto al lettino dopo che fu operato. Fu il primo e unico che vide, perché là ad El Alamein, le uniche cose che volavano nel cielo erano i bombardieri alleati, non gli uccelli. Mamma gli ripeteva che quello fosse in realtà un angelo che Dio inviò per salvarlo. Beh, ad oggi non so dire se davvero quello fosse un angelo, ma il miracolo ci fu, perché una settimana dopo il babbo riusciva di nuovo a parlare e anche a masticare, seppur con varie difficoltà.”
Carlo prese la piccola per mano e gli rivolse un sorriso: “Allora, vorrà dire che oggi avrai l’onore dal tuo babbo di farti portare in braccio fino a scuola! Che ne dici?”
“Babbo…”
“Sì uccelletto?”
“Che c’è scritto lì?” la bambina indicò un muro davanti a loro, e il padre guardò. E la sua espressione cambiò, con la paura si fece strada nel suo volto.
Sui mattoni vi era un manifesto con scritto in caratteri grossi:
AGLI ABITANTI DI POLA…
“Gli italiani con un’occupazione nell’edilizia, nella siderurgia, nella saldatura e in altri simili campi, e con un grado di istruzione sufficientemente alto sarà chiamato a contribuire allo sviluppo della Nuova Grande Repubblica di Jugoslavia della nostra guida Tito. Ai renitenti sarà confiscato lavoro, abitazione e cittadinanza, e perseguibile a tutti gli effetti, anche con la morte. Živela Jugoslavija (Lunga vita alla Jugoslavia)!”
Sotto vi era un’immagine stampata di Josip Tito.
“Nel mondo, ci sono due tipi di persone che non sanno quanto l’odio faccia davvero male: gli adulti col cuore pieno di disprezzo e che lo diffondono, e i bambini col cuore pieno di entusiasmo e che lo ignorano. E io, che ero una bambina, non potevo rendermi ancora conto dell’inferno che stava scoppiando attorno a me, nell’Istria sotto il governo di Tito.”
“Scrivere sui muri è da maleducati. Mamma lo dice sempre.” commenta Sara, osservando la scritta.
“…meglio se ci sbrighiamo, o farai tardi.” E i due si incamminarono.
“Allora, come ti sei fatta male?”
“Volevo inseguire Alberto e gli altri… ma non mi hanno aspettato! Sono stati cattivi!”
“Beh, almeno hai imparato una cosa importante, Sara. Che se passi la vita a seguire quelli che pensi siano tuoi amici, ma che magari non lo sono, finirai solo per inciampare e farti male.”
Sara osservò poi Oliver e si accorse del bottone mancante: “Oh no, Oliver! gli si è staccato un occhio!”.
Carlo lo prese e lo osservò, poi commentò scherzoso: “Povero Oliver! Ora è diventato come me.”
“Mamma si arrabbierà se lo vede…” dice Sara.
“Non se non glielo mostriamo. Lascia fare al tuo babbo, Sara, e vedrai che per domani sarà come nuovo!”
Sara gli diede un bacetto alla guancia della protesi di latta sul volto di Carlo “Grazie babbo, ti voglio bene!”.
“Anche il tuo babbo te ne vuole, uccelletto.”
A un certo punto, i due arrivarono in una strada attraversata da varie, numerose famiglie con dei carri stracolmi di oggetti. Qualcuno di loro che invece non poteva permetterselo aveva un ronzino con la schiena sovraccarica di pacchi e cesti. Gli altri poveri disgraziati che invece non avevano alcun animale erano costretti a trainarli a mano, tanto che un carro in particolare veniva spinto in avanti dall’intera famiglia, figli compresi.
“Papà, guarda quante persone! Ma dove vanno?”
“Ecco… se ne vanno.” rispose incerto Carlo, non sapendo come spiegargli com’erano davvero i fatti.
“Se ne vanno? E Perchè?”
“Vedi Sara, è che… ci sono persone, persone cattive, che non le vogliono qui.”
“Ma io le voglio! Io, te, Alex e mamma non siamo cattivi! Non è così?”
“…certo che no, uccelletto.” cerca di dirgli con tono consolatorio. Ma il suo sguardo preoccupato tradiva la sua finta tranquillità.
A un certo punto, passò un carro trainato da un ragazzino con un berretto logoro sulla testa. Vicino a lui era seduta una vecchia, con la testa coperta da uno scialle, e che tiene in braccio un bambino più piccolo che piange. Sul carro vi erano a malapena un paio di valigie in mezzo al fieno e una bandiera italiana rovinata. La vecchia aveva un’espressione malinconica in volto, mentre cercava di tranquillizzare il bambino, e l’espressione del ragazzetto che teneva le redini del mulo era altrettanto cupa.
“La signora Rosaria ei suoi nipoti…” pensò Carlo, senza non poter provare un forte sgomento “Però… dov’è Ernesto?”
Sara iniziò ad agitare una manina in aria cercando di salutare la vecchia: “Signora Rosaria! Signora Rosaria!”
La donna volse lo sguardo verso Sara e Carlo, e quando li vide per un attimo il labbro inferiore sembrò tremargli, ei suoi occhi farsi lucidi come se stesse per piangere… quindi tornò a nascondere il volto.
Carlo si rabbuiò in volto e portò via Sara, tenendola per una mano: “Lasciamoli stare, Sara.” Cambiò strada, affrettando il passo, mentre Sara continuava a salutare la vecchia donna con la mano, nella speranza che la notasse, finché quella triste processione non si rimpicciolì dopo essersi allontanati.
…
Arrivati alla scuola, Carlo mise Sara a terra davanti all’ingresso, dicendo: “Eccoci qua.” Quindi si rivolse alla figlia dicendogli: “Mi raccomando, cos’è che devi fare a scuola?”
Sara cercò di ricordare: “Fare attenzione quando la maestra Marisa parla… scrivere bene i compiti sul quaderno… e…” Carlo completò la frase per lei: “…e non litigare con nessuno. Se oggi vedi Alberto, non arrabbiarti con lui, ma comportatevi da amici. Ricordati che è pur sempre un tuo compagno.”
La bambina non sembrò convinta, ma rispose con un: “Va bene…” Carlo gli accarezzò dolcemente il ciuffo di capelli neri che gli copriva la fronte e gli sorrise: “Buona scuola, Sara.”
Sara gli sorrise ed entrò, ma Carlo la fermò: “Uccelletto…” Sara si voltò: “Sì?”
“…e Oliver?” gli chiese lui.
Sara si accorse di avere il coniglio di pezza ancora in mano ed esclamò: “Oh, giusto!” poi andò da suo padre e glielo diede, per poi tornare indietro e salutarlo con la mano: “Ciao babbo!”
Carlo la salutò con una mano, sorridente, mentre la guardava entrare a scuola. Poi ricordò il motivo per cui anche lui era venuto lì, e si disse: “In realtà, anch’io oggi dovevo venire qui, ma per correggere i compiti dei ragazzi.” Mise Oliver nella sua borsa, e anche lui varcò la soglia della scuola, incamminandosi lungo uno dei corridoi. Dopo di che arrivò davanti alla sua aula. Una targhetta appesa alla porta recitava:
“PROFESSOR C. STRIVIANI – poesia e letteratura inglese”
Carlo entrò, osservando l’ambiente in perfetto ordine, ma spoglio. Si avvicinò poi alla sua cattedra, e ne tasta la superficie di legno con una mano, meditabondo.
“Anche dopo tutti questi anni passati a insegnare, stare seduto dall’altra parte di questa cattedra mi fa sentire sempre un pò strano. Quasi fuori posto. E dire che ancora riesco a ricordare i volti dei miei primi alunni al ginnasio di Udine. Marco, Sergio, Antonio, Francesco… chissà cosa staranno facendo ora… dove saranno…” rifletté, per poi dirsi: “Beh, basta coi ricordi nostalgici. Diamoci da fare.” Carlo aprì un cassetto, tirò fuori una pila di fogli scritti a mano, dei compiti, e iniziò a correggerli.
…
Sara entrò in classe, dove gli altri bambini stavano facendo schiamazzo. Tra di loro c’era anche Alberto coi suoi amici. Sara quindi andò a sedersi al suo posto facendo finta di niente, ma Alberto e la sua cricca la notarono e iniziarono a prenderla in giro: “Guardate! E’ arrivata Sara la lumaca!” e risero. Sara si imbronciò e li ignorò.
Alberto allora gli si avvicinò e gli chiese con sorriso sornione: “Hei Sara, perché quel muso lungo?” Sara continuò, incrociò le braccia e si finse offesa: “Lo sai perchè.”
“E’ perché ti abbiamo lasciato indietro prima? E dai, quanto sei lagnosa!” Alberto aveva i capelli di un marrone castano in disordine e un velo di lentiggini sul volto.
“E’ una lumaca e anche una lagnosa!” disse uno degli amici di Alberto, Paolo, che aveva i capelli neri all’indietro.
Sara si arrabbiò e gli urlò: “Non sono lagnosa! E’ che voi altri siete cattivi!”
“Non è colpa nostra, è che tu sei femmina! Lo sanno tutti che le femmine non sanno correre!” commentò lui.
“Non è vero!” rispose Sara, che ricominciò a fare i lacrimoni.
“Sì che è vero!” ribattè l’altro.
Alberto, però, si volta verso il suo amico e gli dice tagliente: “Basta Pietro.” poi si avvicinò a Sara, che aveva gli occhi lucidi, e gli dice: “…scusa se ti abbiamo lasciata indietro.” gli porge il mignolino: “Facciamo così… la prossima volta ti
aspettiamo. E in cambio, in classe tu mi dai uno dei panzerotti che ti porti sempre a merenda! Che ne dici? Pace?”
Sara lo guardò diffidente, mentre aveva le guance umide. Ma alla fine allungò anche lei il mignolino, dicendogli: “Pace.” E i due se li strinsero.
Jonathan Girotti
“Istria, 1947. Un mese prima del trattato di Parigi con il quale l’Italia, ormai potenza sconfitta dichiarata, si vede costretta a cedere i territori occupati durante il Fascismo. Tra questi, la stessa provincia d’Istria, insieme alle città di Zara, Trieste e Fiume e all’entroterra goriziano, tutte cedute alla Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia di Josip Broz Tito, che a seguito di questa cessione attuerà un vero e proprio eccidio contro gli italiani residenti. Nella città di Pola, la piccola Sara Striviani conduce una vita come quella di tanti suoi compagni di scuola insieme a Oliver, il suo coniglietto di pezza, il padre Carlo, insegnante di letteratura inglese e reduce dalla Campagna di Tunisia, la madre Paola e il fratellino Alex. Ma ben presto la minaccia delle violenze jugoslave inizia a gravare sempre di più sulla città e su di loro, al punto che Carlo, pur di proteggere la sua famiglia, non prenderà la stessa disperata scelta che migliaia di istriani come loro sono stati costretti a prendere: l’esilio forzato. Nel viaggio in cui si imbarcheranno, dal piroscafo Toscana ad Ancona, fino all’arrivo alla stazione di Bologna a bordo del “treno della vergogna”, Sara e la sua famiglia incroceranno il loro destino con quello del cordiale Massimo Tresi, reduce dalla Battaglia di Caporetto e con il sogno di aprire una sua bottega si scarpe, e Nico, giovane sbandato alla ricerca di un suo posto nel mondo. Tutti loro accomunati dallo stesso viaggio intrapreso da un’intera generazione di italiani, per anni dimenticata, sfollata dal proprio mondo e in fuga verso un destino fatto di campi profughi, stigma sociale e un futuro ignoto: quella dell’esodo giuliano dalmata”