«Caro fratello. Ci sono voluti una vita lunga e tormentata e le parabole ispirate di un futuro martire per sanare il tuo povero spirito, avvelenato in una notte d’infanzia, ma non è ancora venuto il momento di incontrare il dio a cui hai rivolto tante preghiere negli ultimi anni, e sinceramente non sono in grado di dirti se lo incontrerai mai.
Incontri, invece, colei che fu Alanna, la tua amata sorella, temuta e onorata come una divinità. Tuttavia in me resta molto di umano e, forse per questa ragione, mi ha commosso assistere agli ultimi spasimi del tuo corpo decrepito, steso sul pagliericcio. Ora che il tuo logoro involucro di carne ha smesso di soffrire, potrai comprendere le ragioni recondite della tua esistenza infelice. Ti dirò tutto e – se lo desideri – potremo percorrere un tratto di cammino insieme.»
Riusciva a vederla e a intenderne le parole. Identica a come la ricordava, ma aureolata di una bellezza e di una potenza inusitate. Stentava invece a riconoscere se stesso: svanito il diffuso malessere che lo aveva accompagnato nella vecchiaia, si sentiva partecipe della nervosa vitalità di un piccolo animale. Ruotando gli occhi e un testa di cui poteva solo immaginare le fattezze, era riuscito a scorgere la punta di una coda folta e delle zampe rossicce: in qualche modo dovevano appartenergli, dato che con stupore si era accorto di riuscire a controllarne i movimenti. Intuì che per il momento fosse inutile porsi troppe domande, ciò che contava era avere ritrovato Alanna e tutti i suoi sensi acuminati non desideravano altro che appuntarsi su quel miracolo. Spostò il peso sul bacino e sugli arti posteriori, deciso a prestare la massima attenzione.
La Signora, nella volpe accucciata davanti a sé, riusciva a scorgere l’amatissimo fratello e tutto ciò che era stato: neonato, fanciullo, spietato guerriero, dissipato girovago, saggio anacoreta, vecchio rantolante…
«Avevo cinque o sei anni – tu non eri ancora nato – quando divenni consapevole del Visitatore: la sensazione di uno sguardo penetrante, sempre puntato su di me, un inatteso soffio di vento, latore di profumi inconsueti, un piacevole formicolio nel ventre acerbo, lacerti di visioni inspiegabili… La presenza si lasciava intuire sulle alture e nelle macchie in cui scorrazzavo, preferibilmente in solitudine, e soprattutto nella sacra foresta che non ha mai conosciuto la scure, dove, in barba alle proibizioni, mi addentravo alla minima occasione propizia. Ero certa che di notte quell’essere ineffabile si insinuasse nella nostra capanna per guardarmi sognare. Lasciava qua e là piccoli doni: coroncine di fiori, delicate figure animali realizzate con ramoscelli intrecciati, pietre dal colore o dalla forma inconsueti. Tesori che custodivo in una cavità tra le radici di un grande albero. Nessun fanciullo si è mai sentito più benvoluto e al sicuro. Malgrado le privazioni a cui era soggetta la nostra umile famiglia, potevo dirmi perfettamente felice, almeno d’estate. Verso la fine di settembre, come ben sai, lasciavamo l’alpeggio per fare ritorno a fondovalle, dove il mio amico misterioso – per ragioni che mi sfuggivano – non voleva o non poteva raggiungermi. La vita, di per sé già triste e ingrata alle soglie dell’inverno, perdeva sapore, i lunghi mesi freddi e brumosi non erano altro che un vuoto da riempire più in fretta possibile. Solo a maggio, con il ritorno sui monti, ritrovavo la gioia. Una gioia che ero certa provasse anche Lui.
Dopo alcune stagioni di vicinanza furtiva, finalmente decise di rivelarsi.
Trotterellavo sulle creste erbose nei pressi della Mezzaluna, di ritorno all’accampamento, dopo avere portato viveri al padre sui pascoli più elevati. Tu eri piccolo e la mamma ancora in vita. Sulla sinistra, un massiccio lontano, cime grigie ancora coperte di neve, dall’altro lato una mandria di pecore gigantesche dal vello verde scuro – così apparivano alla mia fantasia i monti ammantati da fitte boscaglie – che si rincorrevano lungo le sponde scoscese del torrente. Dopo aver perlustrato invano una buona metà del cielo – lo facevo spesso nella speranza di scorgere il volo solenne dell’aquila – riportai l’attenzione sulla terra e rimasi pietrificata dalla bestia enorme che mi sbarrava il cammino. Un lupo, senza dubbio, ma diverso da quelli a cui ero abituata, magri e spelacchiati, occhi gialli e crudeli. Ne avevo visti parecchi catturati dai nostri cacciatori. Era grande almeno il doppio, lungo pelame azzurro argentato, occhi di un viola indefinibile, profondi e amichevoli. Lo spavento durò solo un attimo, lo stretto necessario per comprendere di essere al cospetto del mio amico misterioso. Pervasa da una gioia incontenibile, gli corsi incontro esultante e gli posai una mano sulla fronte ampia. Fu la prima di innumerevoli carezze.
L’elusiva sentinella divenne il mio inseparabile compagno di giochi. Ogni volta che si presentava l’occasione, lo raggiungevo nella foresta, ruzzavamo sull’erba, correvamo a perdifiato, spiavamo la vita segreta degli animali. Mi insegnò a comunicare senza servirsi delle fallaci parole e mi svelò, poco alla volta, segreti ignorati perfino dal più sapiente dei nostri anziani. Seguirono primavere ed estati incantevoli, vivevo solo per incontrarlo e il resto del tempo – la maggior parte, purtroppo – lo trascorrevo nella sua nostalgia.»
La voce, che non era una voce, si diffondeva nella coscienza dell’ascoltatore, inspiegabilmente fluttuante in un’aura di benessere mai provato.
«Nell’arco di un inverno crudele e insolitamente mite, cambiò tutto. Eravamo da poco tornati a valle quando fiotti di sangue copioso annunciarono il mio ingresso nell’età fertile (cambiamenti esteriori di notevole entità lo avevano anticipato e non erano sfuggiti all’attenzione dei maschi che, da allora, avevano iniziato a guardarmi con bramosa insistenza). Non trascorse molto tempo che il genitore, insensibile alle suppliche, mie e della nostra buona madre, decise di darmi in moglie a Kalen, attirando su di me la gelosia delle fanciulle da marito nonché di ogni femmina vogliosa della comunità e, soprattutto, gettandomi nell’assoluta disperazione. Il bellicoso e prestante Kalen, padrone di terra e bestiame, l’uomo più ambito della valle… “Figlia ingrata! Dovresti essere riconoscente!”, mi pare ancora di udire i severi rimproveri dell’odioso vecchio.
Potevo forse dire che non avrei mai potuto amare quell’individuo detestabile perché il mio cuore apparteneva a un… lupo? Implorai in tutte le maniere, ma non vi fu verso di intaccare la cupidigia di nostro padre e la sua naturale durezza (sappiamo bene di cosa si dimostrò capace, in seguito).
La festa di nozze fu particolarmente dispendiosa nella speranza, forse, che molte invidie e risentimenti annegassero nel vino. La prima notte fui risparmiata, grazie alla sbronza leggendaria che mise fuori combattimento lo sposo novello, ma già dalla sera seguente imparai a conoscere la brutalità del coniuge che, benché mi sforzassi di dissimulare il disgusto e fingermi devota, manifestò la tendenza a percuotermi e a prendermi con la forza. Nel corso di quel lunghissimo inverno mi aggrappai al pensiero dell’amico dal mantello lucente: avevo idee confuse nei suoi riguardi – avrebbe potuto essere altrimenti? -, ma sapevo di amarlo con tutta me stessa.
Tornai all’alpeggio più vecchia di un secolo e con un marito di troppo. Appena ne ebbi l’occasione, corsi nel bosco incontro al mio lupo. Lo scorsi accanto al nostro albero prediletto, lo scrigno dei miei tesori, un faggio antico e poderoso. Non aveva più le sembianze di un lupo, ma lo riconobbi all’istante per via degli occhi. Stranamente, non fui stupita dal cambiamento, e neppure delusa da quell’uomo imponente e bellissimo, che, visibilmente commosso, provava a sorridermi. Mi aggrappai a lui, affondando il volto nel torace glabro e profumato. Quanto ci eravamo mancati! L’abbraccio sarebbe durato all’infinito se le bocche e le mani non avessero sentito un irrefrenabile bisogno di cercare la nuda verità dei nostri corpi… se, accecati dal desiderio di fonderci in un unico essere, non ci fossimo lasciati cadere sul fogliame stridulo: il nostro primo letto d’amore.
Mi domandi del Varco, fratello mio, stavo per arrivarci… Ne hai già percepito la presenza? Esiste da epoche immemorabili, nulla dovrebbe attraversarlo, né in un senso né nell’altro. Il compito del Guardiano era impedire che ciò accadesse. Adesso tale responsabilità ricade su di me.
Mi rivelò che nella foresta proibita si apriva uno dei rari passaggi che mettono in contatto luoghi lontanissimi nello spazio e al di fuori di esso (per quanto la mia intelligenza fosse acuta, come puoi immaginare, feci fatica a concepire il senso di tali affermazioni). Nei pressi di queste brecce tra i mondi, le leggi che governano una determinata realtà sono instabili e, in date circostanze, possono essere alterate, disse. La sua missione consisteva nel prevenire o porre rimedio a tali infrazioni.
Apparteneva a una stirpe remota e sapiente, esseri capaci – entro certi limiti – di controllare la trama del tempo e dello spazio, di cui esploravano con abnegazione i misteri. Esseri che, pur non essendo in grado di afferrare il disegno complessivo della Creazione, da epoche immemorabili si erano assunti il compito di indagarla e prendersene cura.
Il Guardiano assegnato a un Varco non dovrebbe mai interferire con la vita che vi fluisce intorno, per nessuna ragione. Il mio Guardiano, che vegliava sull’Alta Valle da prima che esseri umani vi mettessero piede, avvicinandosi a me, aveva trasgredito l’interdizione e, presto o tardi, ne avrebbe pagato le conseguenze.
Mi raccontò di quando mi vide per la prima volta gironzolare tra i faggi. Di come, percepito il soffio della mia piccola anima, tutto per lui fosse cambiato. Del sentimento ignoto dilagato nella sua sostanza siderea. Mentre ascoltavo, rapita, quella voce ultraterrena testimoniarmi un così grande affetto, notai in essa un accenno di tristezza che mi fece paura. Gliene domandai la ragione.
Si trattava di Kalen: non poteva sopportare che continuasse a maltrattarmi, desiderava annientarlo (per la sua natura razionale e amorale non poteva esservi soluzione migliore). Tuttavia la distruzione di Kalen avrebbe avuto conseguenze nefaste, se ne rendeva conto. Aveva già infranto la legge avvicinandosi a me, ma intervenire sulla vita e sulla morte sarebbe stato infinitamente più grave. La sua intelligenza superiore era offuscata dall’odio e brancolava nell’indecisione, non pensava ad altro. Se fosse stato un uomo qualsiasi, a vederlo così irresoluto, credo che lo avrei disprezzato. Ma lui era un Guardiano, stretto tra responsabilità e doveri ben più alti delle passioni che si agitano sulla terra.
“Fosse solo per me, non mi importerebbe,” disse “ma per noi…” – com’era dolce quel noi – “… c’è il rischio, anzi la certezza, di venire separati per sempre.”
Adesso sembrava davvero umano, perfino troppo. Giacevamo ancora abbracciati sulle foglie secche.
Il solo pensiero di perderlo quasi mi uccise. Lo scongiurai di attendere, mi azzardai perfino a mentirgli: mio marito dopo le prime settimane sembrava essersi calmato, col tempo forse le cose sarebbero cambiate… Non so come, ma riuscii a convincerlo, e solo in quel momento mi resi conto dell’enorme ascendente che avevo su di lui. Nel frattempo l’idea che masticavo dai primi giorni di matrimonio riacquistava vigore. Lo avrei fatto comunque, dovevo solo farlo prima che lo facesse Lui. Kalen era un cacciatore, il più abile dell’intera comunità, non sarebbe stato facile sorprenderlo, ma anche io ero abile. E determinata.
Eccolo, il cacciatore, nell’atto di congiungersi con una giovane preda: una donna più o meno della mia età. La disgraziata potrebbe essere mia amica, se avessi delle amiche. Non ne ho mai avute, fin da piccola gli altri bambini mi hanno evitato, mi consideravano strana, come dare loro torto? Ai maschi dispiaceva che primeggiassi nei giochi e tutti erano intimiditi dal mio modo serio e attento di guardare. Amavo la solitudine ed ero a mio agio solo con nostra madre e con alcune anziane, ottime narratrici di storie, che curavano i malati con le erbe e non andavano molto d’accordo con i druidi che si alternavano alla guida della piccola comunità. Sorsero dicerie intorno a miei presunti poteri. Quando non ero costretta a lavorare, gironzolavo nei boschi, curiosa di tutto e in cerca di qualcosa di cui per il momento ignoravo l’esistenza. Quando crebbi e gli uomini smisero di ignorarmi, mi accorsi che più grande era il loro desiderio, maggiore era la paura che incutevo.
Torniamo a Kalen e alla ragazza. Mio marito se ne distaccò, dopo un buon numero di colpi violenti, sottolineando la propria soddisfazione con quel suo tipico grugnito. Durante l’atto, lei, il cui nome non ha importanza, si era fatta scappare qualche mugolio che mi parve più frutto di dolore che di godimento. Il suo piacere stava tutto nel sottomettersi al forte Kalen, il virile amico di suo marito. Già, Kalen gradiva circondarsi di amici. a cui offriva cervogia e idromele a profusione e, se gli garbava, ne montava le mogli.
Per la medesima ragione, Kalen avrebbe potuto anche avere tanti nemici.
Mentre il mio sposo esemplare si tirava su le braghe, a quanto pare già immemore della donna su cui si era appena sfogato, la poveretta gli carezzò la barba bionda e corse via in direzione del villaggio. Le brillavano gli occhi, animati da sentimenti per me inspiegabili. Ignoro se anche le mie pupille emanassero qualche bagliore. Non provavo alcun sentimento riguardo al gesto che stavo per compiere, neppure odio.
Gli scivolai alle spalle, ma avevo sopravvalutato l’abilità nel muovermi silenziosamente. Recuperai lo svantaggio grazie alla mia rapidità. Kalen si voltò di scatto, ma solo per ricevere il colpo. Rimase immobile a fissare il braccio teso con fredda determinazione dalla moglie ingrata.
Le mie dita, strette intorno all’impugnatura del coltello che avevo affilato per mesi, premevano contro la sua gola. Fu l’unico contatto volontario che ebbi mai con quel mortale in procinto di sprofondare negli inferi. Strappai via la lama con un movimento laterale per allargare la ferita. Balzai indietro per evitare il getto di sangue.
Una nebbia sotterranea s’impadronì rapidamente di Kalen, del suo sguardo ostile, del suo ghigno che fino all’ultimo si ostinò a lanciarmi una sfida. Restò ostinatamente in piedi finché, svuotato di ogni energia, cadde a faccia in giù, nel sottobosco color porpora.
Mi diressi con calma a un vicino ruscello dove avrei potuto ripulire per bene me stessa e il pugnale, del tutto ignara che, un giorno, mi si sarebbe prospettata a una sorte non molto diversa.
Quando Kalen non rincasò, simulai una moderata preoccupazione. E, quando fu ritrovato il suo corpo spolpato dagli animali, simulai un misurato dolore: niente a che spartire con la repressa disperazione che consumò due o tre cagne del villaggio. I fratelli gridarono vendetta, ma, sotto sotto, i miei cognati furono ben felici di spartirsi i beni del morto, alla cui vedova sarebbe spettata solo una minima parte, e non fecero più di tanto per scoprire il colpevole. Destò stupore che non dessi segni di grande afflizione, ma nessuno avanzò esplicite accuse nei miei riguardi. Sembrò naturale sospettare qualche marito tradito, e poiché la nostra gente non era abituata a incolpare nessuno in base a supposizioni, Kalen restò invendicato.
L’idea che portassi sfortuna, rafforzata dai recenti avvenimenti, mi preservò da ulteriori proposte nuziali.
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