Bruno uscì dalla bottega con il pacco del pane stretto al petto e il borsone coi vestiti ancora intrisi di sudore. Si incamminò per recuperare il motorino, parcheggiato poco più avanti. Il profumo delle rosette appena sfornate gli scaldava il naso. Stava ancora pensando al palo colpito a porta vuota, quando notò due ragazzini appostati accanto al mezzo. Uno, voltato di spalle, rideva piano.
Il quindicenne si morse un labbro.
Glielo aveva detto chiaro: niente motorino nuovo al campetto, troppo rischioso. E ora i guai erano lì, appoggiati al sellino del suo Sì.
Bruno Cozzolino strinse le dita attorno al borsone. Liceale robusto e testardo, sapeva bene che quei due sciurill’ e via, pur essendo la metà di lui e più giovani, erano pericolosi.
Doveva stare accorto.
Non aprì bocca. Si limitò a sorridere a quello che lo fissava, sperando che capisse che il motorino era il suo.
Il ragazzino, senza fiatare, diede una gomitata al compagno, che si voltò, lasciando intravedere il viso dietro il fumo della sigaretta. Non doveva avere più di dodici anni.
Bruno lo riconobbe.
Era il fratellino di Pasquale ’o Scursune.
Pasquale, uno dei capi dello spaccio della Sanità, era soprannominato così per la carnagione scura e il carattere sfuggente e scontroso. Una vera serpe. Nel rione lo conoscevano tutti. Meglio non avere questioni con lui, a meno che non fosse lui ad averle con te.
Lello, ‘o frate, era peggio.
«Te sierv’ ‘a bicicletta?»
L’adolescente fece sfoggio di simpatia e gentilezza, cercando di non farli innervosire.
«Maie pe’ cumanno.»
«Bravo, accussì te dev’ cumpurtà, co’ rispett.» La voce era quella di un bambino, ma l’atteggiamento ti metteva addosso una certa strizza.
«È nuovo?» domandò l’altro scugnizzo.
«No, l’agg’ lavato cu Perlana.»
Sperava che la battuta li distraesse, che spezzasse la tensione.
«Eh? … Ué, vaje truvanno guaje cu ‘a lanternella.»
«No, ma quann…dev turnà a casa, p’ piacé.»
«Da chillu strunz e’ patet? Te l’àccattat’ isso ‘o motore. Nunn è ‘o ver?»
Quei due cercavano di provocarlo in tutti i modi possibili.
Se davvero volevano rubarlo, perché non l’avevano già fatto?
Si guardò intorno. Nessuno sarebbe venuto ad aiutarlo.
Me veco pigliate d’‘e turche.
Raccolse tutto il coraggio che aveva e si avvicinò al fratellino della serpe. Sembrava sicuro, ma dentro sentiva il cuore impazzire. Così fece quello che meglio gli riusciva: ‘nzallanì la gente di chiacchiere.
Raccontò che lui era del quartiere, che non aveva mai avuto problemi con nessuno, che non era di famiglia benestante e che quel motorino lo aveva comprato con mesi di lavoretti, e doveva correre a casa perché la nonna stava male.
Insomma… nu mar ’e strunzat.
Il fiume di parole fu interrotto dal verminello che fumava.
«Ehee… sona, ca piglie quaglie.»
Lo aveva sgamato. Quelle tarantelle erano fiato sprecato.
E adesso?
Cozzolino arretrò di tre passi, attento a non finire spalle al muro. I due si staccarono dal motorino e gli si avvicinarono con fare minaccioso.
Poteva rifugiarsi nella bottega di Ninella, ma avrebbe messo in mezzo la povera donna.
«Chiattò, a me pateme nun me n’accattat motorino. Vuò sapé pecché? Eh? Pecché è muort’… a Poggioreale.»
Bruno ignorò il “complimento” e riuscì a sbiascicare solo… «Mi dispiace.»
Continuò a guardarsi attorno, cercando aiuto o una via di fuga, ma Lello si piazzò davanti al suo naso.
«Ah… te spiace… nun sì frateme.»
«No, ma che c’entra…»
Il motorino non era l’unica cosa in gioco: c’era anche la pelle. In uno scontro fisico non aveva dubbi che avrebbe avuto la meglio su quei due mocciosi, ma era quasi certo che almeno uno fosse armato. Avrebbero potuto estrarre un coltello o, peggio ancora, una pistola.
Doveva escogitare qualcosa per salvare capra e cavoli, o almeno cedere il ciclomotore senza farsi umiliare. Altrimenti avrebbe dovuto evitarli per sempre.
E alla Sanità, evitarli… era impossibile.
Non avendo alcuna soluzione a portata di mano, stava per consegnare le chiavi senza opporsi, quando accadde qualcosa che spiazzò tutti.
Dal nulla, sbucò un tipo con felpa scura e cappuccio calato. Saltò sul mezzo, lo mise in moto e sgommò via… tra i vicoli. Il rombo improvviso fece voltare tutti.
Sorpresi, i due mocciosi si girarono di scatto verso Bruno.
«Uè sfaccimm ’e mammt, chill’ sa futtut ’o motore.»
Addio al bottino.
Si scatenarono contro il ladro, vomitando insulti sempre più volgari. Le loro urla rabbiose fecero spalancare finestre e affacciare più di una persona.
«Chiattò…hai vist chi sa futtut ’o motorino nuòsto?»
In preda al panico, Bruno sorvolò sul fatto che fosse il suo e non il loro e balbettò: «No. Nun l’agg vist».
Si rassegnò a dovergli dire addio.
Davanti alla bottega esplose il caos.
Tra il baccano, qualcuno gridò: «Uè, ‘sti guagliuni chiazzaruni!»
I cani abbaiavano, e dai bassi arrivavano voci sempre più concitate. Le più agguerrite erano le signore del vicoletto, infastidite perché volevano vedere Pippo Baudo in santa pace.
N’ammuina tremenda.
Bruno capì che era il momento di squagliarsela.
Non aveva, però, fatto i conti con il compare di Lello.
In preda alla frustrazione, lo scugnizzo prese a calci una bicicletta incatenata a un palo, poi spinse il malcapitato Cozzolino, facendolo ruzzolare.
Le rosette si sparpagliarono ovunque.
Il ragazzino ne calpestò una, mentre tirava via l’amico dalla manica del bomber. Lello, con fare da piccolo boss, continuava a insultare e minacciare le donne ai balconi.
Una di loro, c’ ‘o musso scuro e ‘o vantesino insanguinato di San Marzano, uscì brandendo ‘o scupone.
A quella vista, lo scugnizzo strattonò ancora più forte.
«Fuje, Lell’, fuje!»
E come erano apparsi, in un baleno, i due sparirono in mezzo ai vichi.
Bruno Cozzolino era ancora a terra, col fiato corto e la testa che doleva. Doveva rialzarsi, raccogliere il pane e soprattutto prepararsi al cazziatone paterno.
Il regalo per i suoi quindici anni era svanito. Per un bel po’, solo le gambe lo avrebbero portato in giro.
Vagò per circa mezz’ora per le vie del rione, guardandosi le spalle ogni dieci secondi.
Alla fine si avviò verso casa.
Spinse il cancello di ferro e, attraversato il cortile, si diresse verso la palazzina centrale, dove viveva con i genitori.
Stava girando la chiave nella serratura quando la luce di un fanale lo investì alle spalle.
Si irrigidì.
Prima di voltarsi, prese dal borsone la torcia di metallo che portava sempre con sé: i lampioni del cortile erano rotti da mesi.
L’avrebbe usata come arma.
Avanzò di due passi, poi si bloccò: la luce proveniva da un Piaggio Sì, rosso. Il suo.
Era lì, a meno di dieci metri, davanti al portone di sinistra.
Sul sellino, adagiato come un pascià, c’era il tipo con la felpa scura e il cappuccio ancora calato.
Se quel delinquente pensava di farci dei soldi, poteva scordarselo. Stavolta era pronto anche a prenderle. Era così scosso e deluso per la figura ’e niente fatta davanti a quei due guappetielli, che adesso gli era rimasta solo l’incoscienza.
Lanciò il borsone a terra e scattò in avanti.
L’altro sollevò il volto.
«Tu?»
Bruno rimase di sasso, ma non muto.
«Scendi subito da lì! Ma si strunz o mariuolo?»
«Uè Brù… è questo il modo di ringraziarmi per averti salvato da Lello e dal suo amichetto?»
«Cioè, tu eri là, hai visto tutt’ cos’ e mi hai lasciato in balia di quei due? Carogna nfam!»
«E che dovevo fa’? Appiccicarmi pure io con loro? E se poi avevano il coltello?»
«O peggio» aggiunse Cozzolino.
«Appunto. Nu fierr. E si nun te bucavan ’a capa, arrivato a casa, mammà te facev nu mazz tant.»
«Delinquente, sei peggio di quei due.»
«Eh… sta arrivando a Befana, ma tu si nu casatiell pasqualino. Ritieniti fortunato che alla fine t’agg fatt fà ’a figura del fessacchiotto e t’hanno lasciato stare. Ti ha detto bene che ero diretto da Ninella per le uova.»
«Eh! Che ciorta!»
L’ospite inatteso si schiaffò la mano sulla fronte.
«Azz… hai visto che me so scurdat? E mò aro truov nu cartone? Da mammt?»
Per cinque minuti se ne dissero di tutti i colori. Poi Bruno pose la domanda che l’altro si aspettava.
«Sì, ma mi spieghi come te si fottut ’o motorino? E ’o bloccasterzo?»
«Eh… quello, mò lo devi porta’ a riparare» si giustificò l’altro, tirando fuori un ghigno da finto innocente.
«O faccio paga’ a mammt.»
«E dai! Nun t’arraggià. Questo, però… è meglio che non va in giro per qualche tempo. Anzi, cambiagli colore. Di’ a patet che stu russ attira troppo. Senti a me.»
«M’hai scassat ‘o motorino nuov e dai pure consigli? Ma nun t’ miett scuorn? Nun ’o vir quant sì strunz.»
«Vabbuò Brù, io me ne vaco. Tanti cari saluti…»
«A soreta.»
«So’ figlio unico… pure io.»
«Era per dire.»
«Lo so, lo so.»
«Dai finiamola. Non te ne andare, sali da me a ripassare. Domani c’é compito d’italiano.»
«Eh ma tu lo sai che c’ho fantasia. Qualcosa me la invento sempre.»
«Sì, comm no.»
«Tieni qualche dubbio?»
«Sai che ti dico, Ansé? Il dubbio me lo so’ levato. Tu sì strunz… e pure mariuolo.»
«Assaje.» Salutò il suo compagno di classe mentre lasciava il cortile.
Rideva così tanto che non sentì il pensiero ad alta voce dell’amico mentre entrava nell’androne.
Anselmo Scordo… continua così e finirai dritto in questura. Un giorno sì… e l’altro pure.“
2
2 Marzo 2021
Napoli – ore 6:55
Il vicequestore Anselmo Scordo lanciò un’ultima occhiata al cortile. Tra quei palazzotti il passato gli sbucava addosso da ogni angolo, come polvere mai spazzata via.
Lì era cresciuto Bruno Cozzolino, il suo più caro amico del liceo, ora lontano, emigrato in Germania. Quante ne avevano passate insieme: discussioni accese, risate fragorose, giorni spensierati che sembravano appartenere a un’altra vita.
Richiuse il cancello alle sue spalle e riprese a camminare tra le strade della sua infanzia, quelle che conosceva a memoria. Era come sfogliare le pagine di un diario mai chiuso.
Il loden e la sciarpa di lana color mela annurca lo riparavano a malapena dal freddo pungente. L’aria tersa del mattino rendeva ancora più intenso il suo vagare per la Sanità, un rituale irrinunciabile prima del rientro a Bologna.
Tornare a Napoli era sempre un piacere, l’unico luogo dove non lo accompagnava Georgina, la sua inseparabile caffettiera tre tazze. Perché lì il caffè lo sapevano fare davvero.
Questa volta, il viaggio non era stato una sua scelta: cinque giorni prima il questore Gigli gli aveva imposto una pausa.
«Anselmo, così non si può andare avanti. Fermati, rifletti. Questo scontro con la procura sta degenerando.»
«Conosci qualcuno che riflette più di me? Ho solo chiesto di occuparmi di un vecchio caso. Un omicida barra stupratore è ancora libero, o sbaglio? Non potete tenermi fuori da tutto.»
Nonostante la pacatezza nell’approccio, però, il burbero poliziotto romano si era mostrato inflessibile.
«Certo che possiamo, anzi posso. Perché sei fin troppo coinvolto, non per una, ma per ben due ragioni. E quella storia è oramai morta e sepolta. E chi lo sa? Magari è già morto e sepolto, da un pezzo, anche l’omicida… barra stupratore.
«Sei proprio sicuro, questore?»
«Non è strano che l’indagine che vuoi riaprire sia collegata proprio agli omicidi Baronchelli? Ti ricordo, Anselmo, che è in mano all’Arma. Mi prendi per un allocco?»
No! P’ nu strunz
«Nessuno ha collegato niente! È tutto da provare, e proprio perché non esiste, che…»
Il questore lo interruppe.
«Aspetta, non ho finito. Davvero pensi che la stessa mano possa aver colpito dopo trent’anni? Coincidenze, vicequestore. Solo Coincidenze.»
Dopo il bastone arrivò la carota.
«Anselmo, sei un poliziotto brillante, ma ricordati che esistono delle gerarchie… e vanno rispettate. Punto.»
Eh… attacca ‘o ciuccio addò vo’ ‘o padrone
Poteva anche essere plausibile quanto gli stava obiettando il superiore. A maggior ragione, perché mettersi di traverso? Il questore, però, aveva usato un termine indigeribile: coincidenza. Per Selma − così era chiamato il vicequestore dai suoi più stretti collaboratori, e non solo − quella parola non esisteva. Punto e basta.
Non aveva risposto, ma il cambiamento nel suo sguardo bastò a far capire a Gigli che non aveva ceduto.
«Lo so, Anselmo, dove vuoi andare a parare. Scordati di entrare dalla finestrella se la porta per te è sbarrata. Se lo viene a sapere… tu sai chi, o peggio ancora, il procuratore capo, qui scoppia un pandemonio.»
«Lasciamo perdere io so chi, teniamola fuori dalla vicenda.»
«Fuori, un accidenti! È lei la titolare. Sei tu che devi stare lontano dal caso, fammi il piacere.»
«E va bene, te lo faccio… te lo faccio, ma non abbiamo ancora finito.»
«Sì che abbiamo finito.»
Il ruolo esigeva che in quello scontro fosse Gigli ad avere l’ultima parola. Selma lo sapeva e per il momento gliela lasciò.
Ricette o pappice vicino ‘a noce, ramm ‘o tiemp’ ca te spertose
Si sarebbe preso qualche giorno di pausa, consapevole che la questione sarebbe rimasta aperta fino al suo rientro.
Gigli aveva solo potuto sbuffare e mandarlo a quel paese, e anche in fretta, perché dal Viminale lo stavano chiamando con urgenza.
Selma aveva una tattica chiara: lasciarlo sbollire per qualche giorno e poi contrattaccare con forza. Sapeva che il braccio di ferro sarebbe durato poco. Era pronto a calare sul tavolo la briscola più pesante: minacciare le dimissioni dalla Polizia. Tanto aveva pronta l’alternativa: tornare di corsa dal Generale, a disposizione della Squadra Ombra.
Sempre che questa fosse mai esistita al di fuori della mia mente.
Questo era il vero problema su cui doveva riflettere.
E quale miglior luogo per meditare della sua Napoli?
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