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Il 4 settembre del 2002 mio padre lasciava la vita terrena… oggi 4 settembre 2025 lo voglio ricordare così: «Questo è il mio racconto. Non quello che ho vissuto, ma quello che ho capito. Mi chiamo Mario, e questo è il quaderno che ho scritto nel 1998 per non dimenticare. Per non dimenticare quando, nel […]

Il 4 settembre del 2002 mio padre lasciava la vita terrena… oggi 4 settembre 2025 lo voglio ricordare così:
«Questo è il mio racconto. Non quello che ho vissuto, ma quello che ho capito. Mi chiamo Mario, e questo è il quaderno che ho scritto nel 1998 per non dimenticare. Per non dimenticare quando, nel lontano 1940, la mia vita di adolescente fu travolta dall’orrore della guerra. Avevo solo tredici anni e Napoli, la mia città, non era più un rifugio sicuro, ma un campo di battaglia.
Quando l’Italia entrò in guerra, la vita cambiò, si fece più lenta e più dura. I bombardamenti diventarono la colonna sonora delle nostre notti, costringendoci a correre nei rifugi, a stringerci l’un l’altro mentre le sirene urlavano e il cielo si squarciava. La paura era il mio compagno costante, ma non era il contrario del coraggio. Era ciò che lo rendeva possibile. La paura ci spingeva a restare uniti, a trovare un senso di comunità anche nella sofferenza.
Il cibo divenne una moneta rara, e le tessere annonarie un passaporto per un’esistenza precaria. Le file infinite per un pezzo di pane, il volto dei profittatori che si arricchivano sulle nostre miserie, la perdita della dignità che la fame porta con sé… sono ricordi che non mi hanno mai abbandonato.
Napoli divenne una città ferita, con le sue cicatrici visibili a ogni angolo. Ricordo il terrore di un bombardamento diurno americano nel 1943, che colpì gli operai. Ma il ricordo più atroce è quello del 28 marzo 1943, quando la nave Caterina Costa esplose nel porto. L’esplosione fu così violenta da scuotere le fondamenta della città, lasciando dietro di sé una scia di morte e distruzione. Non potrò mai dimenticare la sensazione di impotenza e il dolore per i tanti innocenti che persero la vita in un istante.
In quei giorni bui, il Vesuvio era l’unico testimone silenzioso e immutabile delle nostre sofferenze, un promemoria costante della forza della natura e della fragilità della vita. Molti anni dopo, nell’estate del 2002, il sole mi riscaldava come non mai e il tempo scorreva più lentamente. Sotto il limone che mia moglie aveva piantato nel giardino della casa di Castel Volturno, con i miei quattro nipotini aprii il mio quaderno del 1998, ormai ingiallito, e dissi loro: “Io l’ho vissuta. E voi dovete portare avanti la memoria. Non voglio che pensiate che la guerra è solo nei libri”. La mia ultima estate non fu un addio, ma un passaggio. Un’eredità di parole e di verità che, attraverso mio figlio Bruno e ora i suoi figli, dovrà continuare a vivere. Questa storia non è solo la mia, ma anche la vostra. È la voce che non chiede applausi, ma solo memoria, e che vi ricorda che anche nel buio più profondo, c’è sempre un disegno di sole dietro il Vesuvio.»

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