Le 3:42.
Non dormiva da quasi due giorni, ma non si sentiva stanco.
No.
Si sentiva invaso.
Doveva realizzarla subito.
Se avesse aspettato anche solo cinque minuti, sarebbe svanita.
E allora no, non poteva permetterlo.
Saltò giù dal letto come se la gravità non lo riguardasse.
Indossava solo una maglietta larga con il logo dei Nirvana e dei pantaloni da pigiama a righe che aveva tagliato con le forbici fino a farli sembrare short.
Era inverno, ma in casa faceva caldo.
O forse era lui ad avere un fuoco sotto la pelle.
Afferrò il taccuino con le pagine stropicciate — quello nero, quello che chiamava “il grido” — e cominciò a scrivere.
Non pensieri, non frasi.
Onde.
Parole che non si potevano fermare.
Scrisse per sette pagine senza alzare gli occhi, senza nemmeno staccare la penna.
Rideva mentre scriveva.
Rideva da solo, in quella stanza piena di tele incompiute, di libri impilati e mozziconi di matita.
Si sentiva un dio.
No, meglio: un canale, un condotto attraverso cui scorreva qualcosa di immenso.
Più grande del tempo, più grande di lui.
Aveva fame.
Aprì il frigorifero, e dentro trovò solo una bottiglia mezza vuota di vino bianco e una confezione aperta di humus.
Prese entrambe e si sedette sul pavimento, la schiena contro la parete.
Beveva direttamente dalla bottiglia, mangiando con le dita.
Poi si ricordò: “Avevo una call con il curatore di Amsterdam stamattina… alle dieci.”
Controllò il telefono.
Sei chiamate perse.
Tre messaggi vocali.
Una mail con oggetto in maiuscolo:
“ARI, CHE FINE HAI FATTO?”
Rise di nuovo.
Non con ironia.
Ma con quella risata secca di chi si sente oltre tutto.
Perché non aveva tempo per le scadenze.
L’arte non segue l’agenda.
Loro erano tutti.
Gli altri.
Ari non era il suo vero nome, ma era quello che si era dato quando aveva deciso che voleva rinascere.
Aveva cancellato la carta d’identità, distrutto il passaporto, cambiato firma.
Ari era luce, suono, movimento.
Il vecchio nome lo portava indietro, in luoghi freddi e fermi dove la creatività non esisteva.
Ari invece era l’uragano.
Alle otto del mattino era già per strada.
Aveva infilato una giacca di pelle sopra la maglietta, scarpe da ginnastica sfondate, occhiali da sole scuri.
Portava con sé lo zaino con le pagine del taccuino, il suo “manifesto”, come lo chiamava.
Voleva mostrarlo a tutti.
A chiunque.
Entrò in una galleria d’arte contemporanea nel quartiere di Moabit, dove ogni parete sembrava fatta per esplodere di idee.
La direttrice lo conosceva.
Aveva esposto lì un anno prima, quando era ancora “un artista emergente”.
Ora, secondo lui, era un profeta visivo.
— “Ho bisogno di dieci proiettori e pareti traslucide. Mi serve una sala intera. C’è un budget?”
La donna lo guardò con un’espressione tra il perplesso e il preoccupato.
— “Ari, che succede? Sembri… acceso.”
— “Sto bene. Non dormo da tre giorni. Il sonno è sopravvalutato. Ho avuto una visione.”
Non riusciva a stare fermo.
Si muoveva nello spazio come se stesse danzando, le mani scattavano in aria a spiegare concetti invisibili, i piedi battevano un ritmo solo suo.
Aveva già dimenticato la fame, il vino, la solitudine della notte.
Era pieno.
Lei cercò di parlargli, di riportarlo a un piano terreno.
Ma lui non la sentiva.
Era già uscito, era già altrove.
Camminava veloce, la città gli sembrava troppo lenta.
Ogni volto, ogni graffito, ogni finestra: tutto parlava.
Si fermò a disegnare su un muro con un gessetto che portava in tasca.
Scrisse: “IL TEMPO È UNA TRAPPOLA. SVEGLIATEVI.”
Poi aggiunse: “IO SONO LA SCOSSA.”
Erano quasi le undici quando entrò nel piccolo bar che stava all’angolo tra la Kottbusser Straße e la Oranienstraße.
Ci andava da anni.
Non perché facesse un buon caffè, ma perché il proprietario lasciava che i clienti attaccassero i loro disegni e messaggi sul muro.
Era un muro vivo, pieno di carta, colore e vite.
Ari lo chiamava “l’organo della città”.
Quella mattina, però, non aveva voglia di caffè.
Aveva voglia di essere visto.
Voleva che qualcuno, chiunque, lo riconoscesse per quello che era in quel momento: un faro.
Si sedette e cominciò a parlare con il barista, un ragazzo nuovo.
Non lo aveva mai visto.
Gli parlò della sua idea straordinaria, del progetto, dell’urgenza, delle immagini e di come attraverso i suoni e le proiezioni voleva incorporare.
Le parole uscivano inarrestabili, come getti d’acqua da un tubo rotto.
Il ragazzo lo ascoltava distratto, serviva altri clienti.
Ari lo notò. E qualcosa dentro cominciò a cambiare.
Piccoli tic nei muscoli del viso.
La mandibola che si contraeva.
Le dita che tamburellavano sul tavolo in modo ossessivo.
— “Mi stai ascoltando?” chiese, improvvisamente fermo.
Il barista annuì, ma non bastava. Ari si alzò in piedi.
— “Hai idea di cosa significhi vedere l’invisibile? Lo sai che io… io riesco a leggere il tempo nei movimenti delle persone? Io non parlo: traduco.”
Il ragazzo provò a sorridere. “Va tutto bene, amico?”
Quella parola — amico — lo fece esplodere.
Con un gesto rapido, Ari afferrò la tazzina di caffè e la scagliò contro il muro vivo.
Frammenti e liquido si sparpagliarono sulle opere appese.
Qualcuno si alzò di scatto.
Un cliente lo insultò.
Il barista chiamò il titolare.
Ari non si mosse.
Non si scusò.
Restò lì, con il petto sollevato e lo sguardo fisso, come se avesse appena compiuto un atto sacro.
Poi uscì.
Camminò.
Corse.
Senza meta.
Senza direzione.
Sentiva le vene sotto la pelle esplodere di un’energia che non sapeva più dove mettere.
Non voleva ferire nessuno.
Ma non riusciva nemmeno a contenersi.
Il mondo era troppo lento.
Troppo sordo.
La decisione arrivò nel pomeriggio, come una sentenza firmata da un dio ubriaco.
Ari prese un treno per Amburgo.
Non lo pianificò.
Vide il cartello alla stazione e pensò: “È un segno.”
Portava con sé solo il taccuino, un accendino e due sigarette sfuse in tasca.
Non aveva un biglietto.
Salì comunque.
Durante il viaggio parlò con una donna seduta di fronte a lui, una musicista.
Le raccontò il progetto, le disse che cercava suoni autentici, rumori di vita, voci vissute.
Le chiese se voleva essere parte dell’opera.
Lei sorrise, colpita dalla sua intensità, ma anche un po’ intimorita.
Quando lui le disse che in realtà stava raccogliendo le tracce del tempo interiore, lei smise di rispondere.
Lui continuò a parlare da solo.
Arrivato ad Amburgo, si diresse verso il porto.
Era buio.
Il freddo gli mordeva le mani, ma non gli importava.
Si fermò vicino a un container abbandonato, tirò fuori il taccuino e cominciò a disegnare.
Cerchi dentro cerchi.
Linee che sembravano arterie.
Poi vide un uomo fumare.
Lo raggiunse.
Gli parlò di musica, dell’arte, dell’universo.
L’uomo rise.
Gli offrì qualcosa da sniffare.
Ari accettò.
Non chiese cosa fosse.
Non gliene fregava niente.
Voleva solo continuare a salire.
E salì.
Per ore.
Finché la realtà perse i bordi.
Sentiva di poter vedere dentro le persone.
Di poter sentire i pensieri.
Si convinse che l’universo gli stesse parlando attraverso le insegne al neon, attraverso i versi dei gabbiani, attraverso il rumore ritmico del mare contro il metallo.
E allora accadde.
Incontrò una ragazza.
La vide seduta sola su una panchina vicino al molo, le gambe accavallate, le mani infilate nelle maniche.
Le si avvicinò come se la conoscesse da sempre.
Le disse che la stava aspettando.
Che lei era parte del progetto, parte della visione.
Lei rise.
Poi gli chiese se aveva una sigaretta.
Parlarono.
Lui le raccontò tutto.
Le mostrò le pagine, i disegni, le parole.
Lei sembrava affascinata.
O forse era solo troppo fatta per capire.
Ari la baciò.
Lei ricambiò.
Poi andarono in un ostello.
Presero una stanza.
Quella notte fecero sesso senza parlare.
Senza protezione.
Non fu amore.
Fu fame.
Una fame che urlava “voglio sparire dentro un altro essere umano.”
E per qualche ora, ci riuscì.
Si svegliò in un letto che non riconosceva.
La stanza era buia, con la luce azzurra del mattino che filtrava attraverso una tenda scolorita.
Il respiro della ragazza gli soffiava sulla spalla, lento e regolare.
Aveva un braccio posato sul suo fianco.
Ari restò immobile.
Non per paura.
Ma perché non ricordava il suo nome.
Il cuore gli fece un tuffo nel petto.
Cercò nel buio mentale qualcosa a cui aggrapparsi, un ricordo, una parola, un punto fermo.
Niente.
Solo l’eco di una corsa senza freni, frammenti di voci, di disegni, di una città che adesso sembrava lontanissima.
Si alzò piano, scostando il braccio della ragazza.
Era nudo.
Cercò i vestiti sul pavimento.
Li trovò accartocciati sotto la sedia.
Le mani tremavano.
Il corpo era spento, come se la luce che lo aveva attraversato nei giorni precedenti fosse svanita tutta insieme, lasciandolo vuoto.
Aveva fame, ma l’idea di mangiare gli dava nausea.
In bagno si guardò allo specchio.
Gli occhi rossi, gonfi.
La pelle secca, i capelli sparati in ogni direzione.
Sembrava uno che aveva perso qualcosa e non sapeva cosa.
Prese l’acqua con le mani e se la buttò in faccia.
Ancora.
Ancora.
Come a voler lavare via tutto.
Quando uscì dalla stanza, la ragazza stava ancora dormendo.
Non la svegliò.
Non le lasciò nemmeno un biglietto.
Scese le scale e si ritrovò in strada.
Amburgo era grigia quella mattina.
Un vento tagliente gli pungeva il volto.
Ari cominciò a camminare, senza una meta, con il taccuino in mano.
Le pagine si erano stropicciate, alcune si erano strappate.
L’ultima che aveva scritto era quella con le spirali e i cerchi.
La guardò per qualche minuto, poi la strappò.
Camminò per ore.
Passò davanti a vetrine, bambini che andavano a scuola, coppie che facevano colazione nei bar.
Il mondo gli sembrava lontano, irreale.
Tutti sembravano appartenere a qualcosa.
Lui no.
Provò a chiamare un amico.
Il telefono squillò a vuoto.
Nessuna risposta.
Provò un secondo numero.
Poi un terzo.
Niente.
Era come se tutti avessero smesso di cercarlo.
Si sedette su una panchina vicino al fiume.
Chiuse gli occhi.
Il vento, l’acqua, il rumore dei passi lontani…
Per un istante sentì tutto svanire.
E pensò: “Se adesso scomparissi, qualcuno se ne accorgerebbe?”
Ari rimase seduto sulla panchina per molto tempo.
Ogni tanto qualcuno passava, lo guardava, e poi continuava per la sua strada.
Nessuno si fermava.
Nessuno lo riconosceva.
Nessuno sembrava notare quella figura silenziosa col taccuino in grembo e le occhiaie profonde come crateri lunari.
Il vento gli spostava i capelli davanti agli occhi.
Ari non li scostava.
Gli sembrava giusto vedere il mondo attraverso quel velo, come se stesse guardando da dentro un sogno che si stava sbiadendo.
Aveva lasciato tutto alle spalle.
Anche se stesso.
La mente era vuota, come se qualcuno avesse staccato la corrente.
Le parole che fino a poco tempo prima sgorgavano senza sosta ora erano intrappolate dietro un muro di vetro spesso.
Le idee, i suoni, le connessioni — tutto era fuggito via.
Si alzò lentamente.
I muscoli erano rigidi.
Le ginocchia facevano male.
Come se il corpo avesse improvvisamente ripreso a pesare, dopo giorni di leggerezza e fuoco.
Camminò senza meta.
Arrivò in un parco semivuoto, si sedette sull’erba umida.
Accanto a lui, una madre stava spingendo un’altalena con la sua bambina.
Le risate della piccola sembravano venire da un altro universo.
Ari le guardava, con un nodo allo stomaco.
Come ci si sente ad appartenere a qualcuno?
A un legame.
A un posto.
A una sicurezza.
Lui non lo ricordava più.
Il taccuino gli cadde dalle mani.
Una pagina si staccò e volò via, leggera come un addio.
Provò a inseguirla, ma si fermò dopo pochi passi.
Che importanza aveva?
Il calo fu repentino.
Come quando l’aria si svuota da un palloncino bucato: uno schianto silenzioso.
Il corpo di Ari divenne un peso da trascinare.
Si rifugiò in una stazione della metropolitana, su una panchina dura e fredda.
Nessuno lo notò.
Non era più il profeta, l’artista, la luce.
Era solo un ragazzo stanco con lo sguardo vuoto.
Chiuse gli occhi.
Forse per dormire.
Forse per sparire.
Le immagini gli tornavano a scatti, come flash: il tetto di Berlino, la ragazza sul molo, la tazzina lanciata contro il muro.
Tutto sembrava così lontano, come se appartenesse a un altro.
Come se l’avesse sognato.
Il cuore batteva lento.
Ogni pensiero era una salita.
Pensò alla madre.
Al suo odore di lavanda, al sugo della domenica, alle dita che gli sfioravano la fronte da bambino quando aveva la febbre.
Non la sentiva da mesi.
E ora le avrebbe voluto solo dire: “Scusami.”
Non sapeva nemmeno bene per cosa.
Il telefono era spento.
La batteria morta da giorni.
Come lui.
Rimase lì.
In silenzio.
A galleggiare tra le ombre dei suoi pensieri.
A un certo punto sentì qualcuno sedersi accanto a lui.
Una figura anziana.
Un uomo con il giornale in mano e la barba bianca.
— “Va tutto bene?” chiese con una voce bassa.
Ari non rispose subito.
Poi annuì, appena.
— “Sei sicuro?”
Quella domanda semplice gli fece salire le lacrime agli occhi.
Le trattenne a fatica.
— “Non lo so…” mormorò.
L’uomo non insistette.
Rimase seduto lì, con lui.
Senza parlare.
E per la prima volta da giorni, Ari si sentì visto.
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