Un amore abitato, oltre la distanza e la paura. Due vite segnate da ferite e scelte difficili si incontrano per caso, e da quell’urto nasce un cammino inatteso. Francesca, madre e donna in ricerca, e Marco, fotoreporter di guerra, imparano che l’amore non è salvezza né possesso, ma la forza quotidiana di restare fedeli a sé stessi per potersi donare davvero all’altro.
In pagine intense e poetiche, Tornare interi racconta un amore adulto, vissuto senza illusioni ma con la forza del coraggio, capace di trasformare l’assenza in presenza e la fragilità in oro, come nel Kintsugi.
Una storia possibile, che parla a chiunque abbia amato, perduto, atteso. Un romanzo che non promette finali facili, ma offre la più preziosa delle verità: possiamo ferirci e ricomporci, possiamo cadere e rinascere, possiamo — insieme — tornare interi.
Perché ho scritto questo libro?
Ho scritto questo libro per dare voce a ciò che resta quando l’amore sembra non bastare: l’assenza, la distanza, la paura. Francesca e Marco sono lo specchio di due anime che, ferite, imparano a riconoscersi e a scegliersi. Ho narrato come si compone una fotografia: frammenti, luci e ombre che uniti creano un senso. Perché l’amore vero non salva, ma accompagna. Non possiede, ma rivela. E solo così, attraversando le crepe, possiamo tornare interi.
ANTEPRIMA NON EDITATA
Introduzione
Cosa accade quando l’amore non basta più?
Quando restare diventa un rischio, e partire una difesa?
Questa è la storia di Francesca e Marco, due anime mature, ferite, lucide e vulnerabili, che si incontrano, si perdono, si attraversano.
Lei, madre di due figli, donna consapevole che cerca nella parola e nella cura un senso profondo.
Lui, fotoreporter di guerra, nomade della verità, costretto a raccontare il dolore degli altri mentre fuggiva dal proprio.
Insieme imparano che l’amore non è possesso, né salvezza, ma la volontà quotidiana di rimanere fedeli a sé stessi, per poter finalmente abitare anche l’altro.
Un romanzo sull’assenza, sulla distanza, sulla pelle che ricorda, sulle ferite che diventano oro — come insegna il Kintsugi.
Una storia vera, anche se non accaduta.
Una storia possibile, se il coraggio è più grande della paura.
“Non ci siamo persi.
Abbiamo solo preso la strada più lunga per tornare interi.”
Un romanzo profondo e poetico sull’amore consapevole.
Francesca e Marco si raccontano in una doppia voce che attraversa luoghi, assenze e traumi, ma anche silenzi pieni, mani che sanno aspettare, occhi che sanno vedere.
Una storia che non promette salvezze, ma possibilità.
Un amore vissuto con maturità. Scelto.
Ogni giorno.
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Capitolo 1
Il vento, quel sole che scalda
Firenze, quel giorno, brillava come una tela appena dipinta. Era una mattina di gennaio, eppure la luce aveva qualcosa di primaverile, come se la città avesse deciso di uscire in anticipo dal suo letargo invernale per mettere in scena un evento irripetibile. Le pietre consumate della piazza di Santa Maria Novella riflettevano il sole con una grazia antica, e nell’aria galleggiava una promessa indefinita, sospesa tra il passato e il futuro.
In quella piazza, destinata a diventare il set di uno shooting per una nota maison di alta moda, qualcosa di completamente diverso prese forma. Qualcosa di impensato, imprevisto. Qualcosa che nessuno avrebbe potuto coreografare. Non una sfilata, non uno scatto, ma un inciampo. Un inciampo che avrebbe cambiato due vite.
Francesca camminava veloce, il passo deciso, come sempre quando aveva una meta o quando non voleva farsi travolgere dai pensieri. Era scesa da pochi minuti dal treno in arrivo da Milano, città che amava e odiava in egual misura, ma che sapeva sempre scuoterla. Quel giorno, però, non vi si era fermata a lungo. Solo un incontro di lavoro, due chiacchiere in un bistrot e poi la partenza. Un viaggio in treno improvvisato, un trolley con dentro tutto e niente, e una fretta che non era solo fisica. Era emotiva. Voleva
respirare.
Trascinava un bagaglio scuro, elegante, con una borsa di cuoio appoggiata sopra, e nella mano destra stringeva il cappotto pesante che ancora non aveva indossato. Detestava il freddo. Lo aveva sempre detestato. Francesca era nata sulle rive del Lago Maggiore, ma il gelo dei suoi inverni non le apparteneva. Non le era mai appartenuto. Il freddo, per lei, era una forma di distanza. Era assenza. Era silenzio. I ricordi che le battevano nel petto avevano sempre i colori caldi dell’Asia, del Mediterraneo, del Sud America. Aveva vissuto e viaggiato in quelle terre che profumano di frutti maturi e di spezie, dove il tempo sembra sciogliersi nei pomeriggi lenti e negli sguardi profondi delle persone. Quelle erano le sue stagioni. Eppure, aveva scelto la Toscana come rifugio. Aveva costruito lì una vita ordinata, fatta di famiglia, di abitudini, di sabati al mercato e cene in terrazza. Una vita che col tempo si era fatta stretta, come un vestito cucito su misura per qualcun altro.
Marco, invece, era diretto in stazione. Aveva un treno da prendere più tardi, destinazione ignota per chi non conosceva il suo mestiere. Ma era in anticipo. Come sempre. La puntualità, per lui, era una forma di rispetto verso il tempo altrui, ma anche un modo per non farsi cogliere impreparato dalla vita. E così, anziché aspettare nella sala affollata e rumorosa, era uscito. Aveva attraversato l’atrio monumentale della stazione e si era lasciato attirare dalla luce della piazza.
Firenze lo affascinava. Non tanto per la sua opulenza rinascimentale, quanto per le crepe. Per i dettagli dimenticati. Per le ombre che scivolavano tra i vicoli e le pieghe della storia. Quella mattina, il sole aveva un calore discreto, quasi compassionevole. Si sedette su uno dei gradini vicino alla basilica, osservando i passanti con lo sguardo vigile di chi è abituato a vedere ciò che gli altri ignorano.
Era un uomo diverso, Marco. Costruito nel silenzio. Cresciuto a colpi di assenza. Figlio di una genealogia militare, portava nel sangue l’eco di ordini e sacrifici. Un nonno ufficiale dell’esercito, un bisnonno sul Piave, un altro maresciallo della Guardia di Finanza. Crescere in quel reticolo di disciplina e virilità lo aveva forgiato e disorientato insieme. Aveva trovato nella fotografia una via di fuga e una missione. Raccontava il mondo attraverso l’obiettivo, ma non cercava la bellezza canonica. Cercava la verità, anche quando faceva male. Anzi, soprattutto quando faceva male. Negli ultimi anni aveva trascorso più notti in tenda che in casa. Aree di crisi, deserti, montagne innevate. Il suo cuore batteva più forte al confine, nei margini. Lì dove la vita si mostrava senza filtri. Una volta, inseguendo un branco di lupi per settimane nell’Alta Valtellina, aveva capito che quello era il suo animale totem. Solitario, fedele solo al proprio istinto, pronto a tutto pur di non essere addomesticato. Marco era così: un uomo che non si lasciava prendere. Ma che, quando lo faceva, si dava senza riserve.
Quel giorno aveva con sé una macchina analogica e uno zaino leggero. Era appena tornato da una missione fotografica in Libano e Firenze gli sembrava irreale. Una pausa colorata. Una tregua. Forse, un’illusione.
Fu in quell’istante sospeso che accadde l’imprevedibile. I loro passi si incrociarono sulla pietra liscia della piazza, proprio accanto all’unica pietra d’inciampo presente. Lei distratta, lui assorto. Il trolley impattò contro lo zaino. I corpi si urtarono. E in un attimo caddero entrambi a terra, con un tonfo sordo che attirò più di uno sguardo. La gente si fermò, per poi continuare, come sempre succede. Ma loro rimasero lì, qualche secondo di troppo, tra i cocci di un bicchiere e l’imbarazzo.
Francesca si rialzò per prima, il viso paonazzo, la rabbia che saliva come un’onda. “Ma che cazzo guardi?!”, esplose, mentre tentava di sistemarsi i capelli. Marco si tirò su con calma, visibilmente dispiaciuto. “Mi scusi davvero… Non l’ho vista. È colpa mia.” “Certo che è colpa sua! Ha idea di cosa c’era lì dentro?”, gridò lei, indicando il trolley ancora aperto a metà. “Un vaso di Murano, cazzo! Un regalo per una mostra, un pezzo unico! Ma è scemo?” Marco cercò di rispondere, ma lei non gliene lasciò il tempo. “Si metta da parte, va’… E si tenga pure le sue scuse. Non me ne frega niente.” Lo disse senza sapere nulla di lui. Eppure qualcosa in quello sguardo, in quell’espressione trattenuta, le suggeriva che le sue parole erano andate a segno. Lui sembrava colpito davvero.
“Mi chiamo Marco, Marco del Dotto, Posso accompagnarla almeno. Le porto il trolley. O le rimborso il vaso. Mi dispiace, sul serio.”
“Ma si fotta, va’.”
E se ne andò. A passi veloci. Con la rabbia che le bruciava negli occhi e il cuore in tumulto. Non era solo per il vaso, capiva dentro di sé. Era per qualcosa di più profondo. Era la sensazione di essere stata toccata. Scossa. Da uno sconosciuto. Da uno sguardo che aveva oltrepassato i suoi muri con troppa facilità.
Marco la seguì con gli occhi. Rimase fermo per lunghi minuti, mentre la piazza tornava alla sua routine. Era scosso anche lui. Non per l’offesa, non per la caduta, ma per quel modo in cui i loro occhi si erano incrociati. Come due specchi che si riconoscono senza essersi mai visti prima.
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