È una notte qualsiasi. Di quelle che sembrano ferme, sospese in un buio morbido che sa di muschio e mare. Fuori le luci giallastre di Portree galleggiano come insetti ubriachi nell’aria umida. E io sono, ancora una volta, nel letto di James.
Non mi piace ammettere che è successo di nuovo, ma eccoci qua. Non è una sorpresa, non è una novità. È diventata una specie di abitudine — come bere un bicchiere d’acqua prima di andare a dormire, solo che qui nessuno si disseta davvero.
James è steso di fianco a me, ancora con quel mezzo sorriso impacciato che fa quando cerca di rendere il momento più di quello che è. Mi sfiora la spalla con la punta delle dita, come se stesse cercando un modo per trattenermi senza sembrare disperato.
«Dovresti restare», dice piano.
Io rido, ma senza voglia. È tardi, il soffitto sembra abbassarsi sopra le nostre teste e il rumore lontano delle onde arriva appena dalla finestra aperta. La tenda si muove piano, come il respiro di una cosa viva.
Lo guardo. Conosco a memoria ogni dettaglio di questo appartamento: il divano sformato, i libri di algebra sparsi sul tavolo, quella tazza scheggiata con scritto World’s Best Teacher che Sophie gli ha regalato tre Natali fa. Lei, la fidanzata storica. Quella di cui nessuno parla mai mentre siamo insieme, con i vestiti ancora mezzi sparsi sul pavimento.
James pensa, o almeno ha pensato, che io potrei essere qualcosa di più. Lo so perché ogni tanto ci prova a dirmelo. Una sera, l’anno scorso, era ubriaco e ha detto che stiamo bene insieme. Gli ho risposto che stavo bene anche con la pizza del chiosco all’angolo e non per questo la mangiavo tutte le sere.
A me sta bene così. Non devo fare sforzi, non devo promettere niente. Lo vedo quando mi va, se mi va. E quando ho finito, me ne vado. È una regola implicita, un equilibrio precario che funziona proprio perché non lo chiamiamo per nome.
Mi alzo dal letto, infilo i jeans e la felpa. James fa una specie di smorfia, come se volesse dire qualcosa ma decidesse di lasciare perdere. Siamo bravi, entrambi, a lasciare perdere.
«Ci vediamo a scuola domani», dico.
Non è una domanda.
Lui annuisce. Gli occhi già stanchi, il volto che sembra più giovane quando è così, al buio. Per un attimo penso a come sarebbe se rimanessi davvero, se mi infilassi sotto le coperte e dormissimo insieme fino a mattina. Poi mi ricordo perché non lo faccio mai.
Meglio tenere le distanze.
Chiudo la porta piano dietro di me e la notte di Skye mi viene incontro, piena di nebbia e silenzi. L’aria sa di alghe e terra bagnata. Cammino veloce verso casa, le mani nelle tasche, il cuore calmo. Non è amore. Non è niente di pericoloso. Solo una notte qualsiasi.
La strada verso casa è silenziosa, illuminata solo da qualche lampione sfinito e dalle finestre delle case basse e storte, quelle che sembrano fatte apposta per piegarsi al vento dell’isola. Cammino senza fretta, anche se il freddo mi entra nelle ossa e le mani nelle tasche non bastano a scaldarmi. C’è qualcosa di familiare in questo buio, in questo niente che si muove piano attorno a me. È un posto dove nessuno ti chiede niente, nessuno pretende spiegazioni. Ed è perfetto così.
Arrivo davanti alla casa che era di mia nonna. È vecchia, sì. Il tetto avrebbe bisogno di essere rifatto, i vetri delle finestre tremano a ogni folata di vento più forte e il cancello cigola come se piangesse ogni volta che lo apro. Ma è casa. È quella con più ricordi dentro, e anche se a volte mi fa male starci, so che non potrei andarmene.
L’ha costruita mio nonno, prima che io nascessi, e quando lui è morto, troppo giovane, troppo improvvisamente, mia nonna ci è rimasta dentro come una regina testarda che non abbandona il suo regno. Ogni angolo sa di lei. Della sua voce, del profumo di torta di mele che sfornava la domenica pomeriggio anche se nessuno passava mai a trovarla. Delle sue mani che mi accarezzavano i capelli quando tornavo da scuola e le raccontavo tutto. Più o meno tutto.
Non ha fatto in tempo a vedermi insegnare. È morta in una mattina d’inverno, uno di quei giorni in cui il ghiaccio si attacca ai vetri e sembra che il cielo non si schioderà mai da quel grigio sporco. Ricordo la telefonata. Ricordo il vuoto nelle orecchie. Ricordo di essermi seduta sul pavimento della cucina della mia casa a Edimburgo, ancora in pigiama, e di aver pensato che non sarebbe più tornato niente com’era prima.
A lei raccontavo i miei sogni, quelli veri. Il fatto che volevo diventare insegnante, che per me la scuola era sempre stata più di un edificio con banchi e lavagne. Era un rifugio, un modo per scappare da casa quando tutto faceva schifo.
Quando sono tornata a Skye, ho preso questa casa come un’eredità che non vuoi ma che non puoi lasciare. Ho messo a posto quel che serviva, lasciato tutto il resto com’era. Il servizio di tazze di porcellana con i bordi dorati, la coperta a fiori sbiadita sul divano, i libri che mia nonna leggeva prima di dormire.
E ho cominciato a insegnare nella scuola media della città. Nella stessa scuola che mi aveva salvata. Dove sapevo di poter essere invisibile e allo stesso tempo indispensabile a modo mio. Ogni volta che entro nell’aula, sento di fare qualcosa che serve. Che la tiene viva, in qualche modo. Che tiene vivo quello che lei era per me.
Apro la porta di casa, la solita chiave arrugginita che gira male nella serratura. L’odore è quello di sempre: legno vecchio, terra bagnata, una nota dolce di sapone alla lavanda. Appoggio la borsa sul tavolo, tolgo le scarpe e resto un attimo così, in piedi al centro della stanza, con il silenzio tutto attorno.
È tardi, ma non ho sonno. Prendo una bottiglia di vino, la stessa che tengo per le sere in cui torno da James e non ho voglia di pensare a niente. Mi siedo sul divano e bevo direttamente dalla bottiglia. Alla fine, è casa mia.
Chiudo gli occhi, e per un attimo mi sembra di sentire il rumore della voce di mia nonna dalla cucina, le stoviglie che si spostano, il bollitore che fischia.
Ma è solo il vento.
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