Un bosco silenzioso si risvegliava dal suo notturno torpore, illuminato dai tenui chiarori dell’alba.
La vicina valle, ora visibile attraverso le fronde degli alberi, incorniciava coi suoi promontorii una tavola azzurra, piatta e sconfinata, eppure così familiare, amichevole.
Il vento, in quella tiepida mattina primaverile, si limitava a una piacevole brezza marina, capace a stento di smuovere le singole foglie.
Tuttavia, una figura cupa e tutt’altro che quieta infranse la serena armonia del bosco. Una presenza estranea, aliena alla dolce e calda natura, si faceva strada sulla superficie erbosa calpestando la fresca rugiada.
Strascicava a fatica sul terriccio e portava con sé un peso moribondo, dalle fattezze assai incerte.
– Non ci posso credere, – la figura esasperata della ragazza alzò la testa ai fusti legnosi.
Ma le sue parole si richiusero subito in silenziosi pensieri, benché non meno carichi di frustrazione.
“Dopo tutto questo tempo, dopo tutta questa strada, continuo a ritrovarmelo davanti. Sembra uno scherzo del destino… uno scherzo di merda.”
Si appoggiò su un tronco alla sua destra reggendosi col gomito.
Sgonfiò il petto con un lungo e sofferto sospiro, quindi ricominciò la sua sporca marcia.
Passo dopo passo, superò l’ombra di un indefinibile numero di chiome; poi, con lo sguardo immediatamente condotto a sinistra, giunse a un’improvvisa scoperta.
Al diradarsi del denso soffitto di foglie era comparsa la parete di roccia di una ripida collina. Una cavità, come una specie di squarcio nella pietra, si apriva sul suo fianco, lasciando intravedere le sue buie stanze sotterranee.
La giovane latitante era prossima allo svenimento, ma non si sarebbe lasciata sfuggire quel riparo per nulla al mondo.
Si inabissò nell’inamovibile oscurità dell’ambiente e, una volta al centro della stanza di pietra, arrestò il suo cammino.
Immerse la mano nella tasca dei logori pantaloncini, dove aveva tenuto per tutto il tempo un piccolo oggetto simile a un sassolino.
Adesso che il cimelio giaceva sul suo chiaro palmo, un bagliore azzurro quanto l’oceano invase la stanza.
Quella luce bluastra non era figlia della grotta, ma proveniva dalle mani stesse della ragazza, che ghermivano con rabbia il colpevole oggetto.
– Dannazione, – ringhiò a denti stretti, – questo è anche peggio dell’altro.
Aveva visto abbastanza. Lo rimise in tasca, frustrata di non potersene disfare, non ancora.
La luce scomparve, l’oscurità tornò padrona della grotta, ma la quiete, in quella selva vergine, era oramai infranta.
Prima notte nella foresta
Preparai tutto in fretta e furia, senza dimenticare di portare con me il mio prezioso portafortuna. Non ebbi problemi a recuperare tutto il necessario per la spedizione: mi dilungai un po’ di più solo per decidere gli indumenti.
Al nostro villaggio il clima era sempre molto caldo, e non era strano vedere gente in maniche corte anche in tardo autunno, ma proprio per questo facevo fatica a immaginare quale fosse il corretto abbigliamento per la foresta. Decisi di abbondare con qualche vestito pesante in più e, a zaino ben chiuso, schizzai fuori dalla mia stanza.
Poco prima che valicassi l’uscita di casa, il mio tutore mi intercettò.
– Keiko, – era in cucina, appoggiato al ripiano di legno con un panino in mano.
– Oh, ciao Kokua, che c’è?
– Dove vai così di fretta? – la sua curiosità non interruppe la degustazione del panino, che continuò a essere addentato durante il dialogo.
– Ah, giusto! Abbiamo una spedizione di classe, quindi non tornerò a casa per un po’, non è un problema?
– Tranquillo, – e tirò un altro morso al panino, – piuttosto, ti sei portato del cibo?
– Ah, me ne sono dimenticato… – levai un’autoironica risatina.
– Tieni, – mi porse un sacchetto dapprima nell’angolo della cucina, – c’è cibo sufficiente per tre giorni. Avevo appena finito di prepararlo per me, ma vedo che vai di fretta.
– Gra… grazie!
Non avevo un rapporto strettissimo lui. Piuttosto, ci limitavamo a poco più che condividere la stessa casa e non ci conoscevamo in maniera molto profonda. Quel suo gesto fu tanto carino quanto inaspettato, perciò lo ringraziai di cuore a gesti… o almeno ci provai.
All’improvviso, un’altra voce si aggiunse alle nostre.
– Ciao tutore di Keiko!
Alle mie spalle era comparso Larou che, entrato in casa dalla scura tenda d’ingresso, si presentò sulla soglia della cucina.
– Ciao Larou, – Kokua masticava, – Ve ne state andando ora?
– Il tempo di fare l’inventario e siamo fuori! – l’energia di Larou era a dir poco contagiosa.
– Ho capito, allora buona avventura.
Col dialogo apparentemente terminato, riposi nello zaino il pacco datomi da Kokua e mi diressi con Larou in camera mia, dove avremmo fatto un ultimo riepilogo dell’equipaggiamento racimolato.
[…l’estratto riprende più avanti, nello stesso capitolo, nel mezzo della permanenza boschiva…]
L’ambiente iniziò a rabbuiarsi in pochi minuti e concludemmo i preparativi alle coffe della sera. Non appena calò il sole, ci rintanammo nel piccolo spazio fra il muro di fronde e il rialzo, su quell’area interrata di qualche spanna.
Entrambi cacciammo dagli zaini i nostri tessuti, che usammo come coperte. Lo spazio non era sufficiente anche per le due cartelle; quindi, le posizionammo a qualche braccio di distanza, alla base della collina.
Larou aveva difficoltà a dormire: non trovava una posizione comoda e non sembrava neanche particolarmente stanco. Ciò forse era dovuto all’avere abitudini molto diverse dalle mie, oppure, a quanto pare, non s’era affatto spossato intagliando e spaccando.
Questi furono tra i miei ultimi pensieri prima di addormentarmi.
Era in una situazione come quella che, un po’, invidiavo la sua forma fisica. Non eravamo due simmetrici opposti, ciononostante tendevo a rispecchiarmi più in colui che fa da mente, piuttosto che da braccio.
Anche lui era un ragazzo intelligente, e in ciò eravamo più o meno pari, perciò sarebbe stato ingiusto attribuirgli il ruolo di braccio e niente di più.
Fra le poche differenze, spesso io dimostravo di avere una maggiore capacità esplorativa e di osservazione dell’ambiente. Interpretavo meglio i segni della natura e riuscivo con più perspicacia a piegarli a mio vantaggio.
Quell’ultimo pensiero mi ricordò il dialogo tra me e Tailia della stessa mattina.
Oh, vero, Tailia… non ci eravamo più visti dopo la scuola. A causa della spedizione avevamo saltato la merenda in cortile. Almeno, mi sarebbe piaciuto salutarla prima della partenza.
Guardai un’ultima volta in alto, poi mi sarei deciso a prender sonno.
Sopra di me era visibile solo la chioma dei bassi alberi, per fortuna. Quel manto gentile mi faceva sentire più al sicuro rispetto alla sconfinata vista del cielo, laddove il dolce abbraccio delle foglie era sempre, in una certa misura, rassicurante.
Giratomi su di un lato, mi addormentai poco dopo.
⸱ Al risveglio ⸱
La mattina seguente mi svegliai con una manciata di foglie sul dorso.
Mi alzai scrollandomi i detriti dalla spalla, inclusa una piccola fogliolina che mi si era incastrata in testa: che volesse mimetizzarsi nel verde scuro dei miei capelli?
Larou ancora dormiva e la luce della foresta, fioca e timida, dava densità alla nebbiolina che si sarebbe diradata di lì a poco.
Non doveva essere più tardi delle sei.
Scavalcai il mio compagno con minuzioso silenzio e in punta di piedi, dopodiché salii sul rialzo di terreno aprendo lo sguardo al panorama boschivo, ma un dettaglio, prima rimasto inosservato, sconvolse la mia vista.
Il mio zaino era sparito e, con esso, anche al mio portafortuna.
Al suo posto, fra i fili d’erba, v’era un piccolo pezzo di tessuto d’un colore che non apparteneva ad alcuno degli indumenti da noi posseduti.
I miei sensi, non ancora lucidi, furono sollecitati da quella brutta sorpresa, e fu solo allora che la mia mente si risvegliò davvero.
Non v’era alcun dubbio: qualcuno aveva rubato il mio zaino.
– Impossibile, impossibile, – continuavo a dire a me stesso, voltandomi in direzioni del bosco sempre diverse, come nella speranza di vedere lo zaino riapparire in un angolino di poco distante, – Chi potrà mai essere stato?
Iniziai a ipotizzare tantissimi scenarii, ma nessuno che potesse spiegare esaustivamente l’accaduto.
Un animale particolarmente malandrino? Il tessuto estraneo non avrebbe avuto spiegazione.
Qualcuno della città sul promontorio? Non si registravano furti da anni, e sarebbe stato ovvio che un paio di ragazzi in esplorazione non avessero alcunché di valore.
Forse una carovana di passaggio? No… i carri avrebbero strepitato per tutta la zona, accompagnati dai versi degli animali e dalla luce delle torce. Ci saremmo svegliati subito, soprattutto Larou.
E se fosse stato qualcuno dei nostri compagni? Che sia bastato fare quel paio d’interventi in classe per indispettirli a tal punto da metterci in condizione di tale pericolo?
Forse, quest’ultima era l’ipotesi più sensata, fatto sta che non sapevo più cosa pensare.
Cercai di riprendere il controllo dei miei pensieri, tentando di capire cosa poter fare, laddove quel frammento di tessuto era l’unico indizio a mia disposizione.
Avevo bisogno di procurarmi preventivamente un’arma, ma nello zaino di Larou non ve n’era alcuna perché avevamo riposto tutte le cose taglienti nel mio. Certo, c’era anche il coltello di riserva che Larou teneva con sé, ma sperare di sfilarglielo dalla cintola senza svegliarlo era irrealistico.
Mi accontentai di staccare un pezzo di spuntone dalla base della piattaforma; quindi, mi misi alla ricerca di tracce. Cercavo qualcosa che potesse indicarmi una via, come impronte sul terriccio, dell’erba innaturalmente schiacciata o altri pezzi di tessuto simili al primo.
Mi allontanai verso est, mentre scrutavo un po’ in giro acuendo la vista e, ben presto, trovai qualcosa di assai più distintivo.
Nel cammino, toccai istintivamente un fusto d’albero per farmi strada tra la flora selvatica. Una volta distaccata la mano dalla corteccia, un liquido denso e più che purpureo m’imbrattò la pelle.
Mi voltai di nuovo verso l’albero e vidi la macchia che mi aveva tinto il palmo di rosso.
– Sangue? – ero sconcertato.
Rabbrividii all’idea che la situazione potesse essere più seria di un birbantello arraffone.
Il sangue non era talmente copioso da farmi sospettare della presenza di un cadavere nelle vicinanze ma, proseguendo, iniziai a notare piccole gocce qua e là, un po’ sull’erba, un po’ sulle cortecce di altri alberi.
Con un pensiero oltremodo ottimistico, immaginai che il ladruncolo non potesse essersi allontanato molto, ipotizzando che quel sangue fosse proprio il suo, e che egli stesso, prima di me, avesse appoggiato la mano sul medesimo albero trascinandosi a fatica verso un luogo più sicuro.
Mi feci coraggio e continuai a seguire le tracce, col mio paletto legnoso stretto con forza.
Dopo una dozzina di minuti di marcia furtiva tra le fronde, l’acqua limpida del fiume si stagliò dinanzi ai miei piedi. Ero arrivato all’effluente del Niminuki: il confine dell’area della spedizione.
Cosa avrei dovuto fare? Valicare a piedi quelle poche dozzine di cubiti del corso d’acqua per sperare di acciuffare il ladro e riappropriarmi del mio portafortuna, oppure seguire le regole e fermarmi lì, avendo la certezza di perdere quanto di più intimo avevo fra gli oggetti della mia memoria?
Feci un profondo sospiro. Non era da me violare le regole, ma stavolta era diverso. Non si trattava di spingermi al di là del limite per avvantaggiarmi rispetto agli altri, no… si trattava di eliminare un imprevisto che a priori non avrebbe dovuto esserci.
Conscio dei pericoli che avrei corso sorpassando il fiume, gonfiai il petto d’aria e mi preparai a bagnarmi i piedi: non avevo scelta, dovevo proseguire.
Al di là del corso d’acqua, la scia di sangue continuava fiancheggiando la base di una ripida collina per dozzine di dozzine di cubiti.
Dopo aver percorso qualche centinaio di passi con le scarpe umidicce, le tracce voltarono a sinistra insieme alla parete litica della collina, fino a inabissarsi nell’oscurità di una piccola grotta scavata nel fianco della stessa altura.
Il ladruncolo doveva essersi rifugiato per forza là dentro, per giunta ferito.
Strinsi i denti ed entrai a piccoli passi, lanciando sguardi in ogni direzione a ogni singola avanzata.
Un rumore improvviso mi fece trasalire. Mi voltai d’istinto.
Guardai di nuovo nel verde della foresta e vidi uno di quei piccoli esserini luminosi fluttuare attorno a un cespuglio. Quel suono doveva provenire dunque dall’innocua creaturina, ma non mi tranquillizzai affatto e la tensione non faceva che salire.
Mi feci di nuovo forza e continuai ad avanzare, seguendo le piccole macchie di sangue che tingevano la pietra.
Ero troppo teso per apprezzare la parete interna della grotta, ma anche in quella situazione era impossibile non notarne le peculiarità.
Dissi a me stesso che non fosse il momento di tergiversare. Forse volevo concludere che non vi fosse alcuno, trattare quel luogo con la normale confidenza con cui mi approcciavo al resto dell’ambiente, ma la sensazione che il malfattore fosse lì, nell’oscurità, era troppo alta per essere ignorata.
Con lo sguardo piantato al suolo, le tracce parvero terminare in un punto al centro della grotta.
– Ma… il sangue si ferma all’improvviso, – dissi fra me e me, stupito ma anche intimorito.
Cosa avrebbe potuto significare un’interruzione così repentina delle macchie?
Le tracce s’interrompevano senza senso palese, ma l’istante immediatamente seguente, dopo aver guardato meglio la disposizione delle macchie di sangue, capii.
No, non si fermavano…
– Tornano indietro!!
Mi girai di scatto, e un nuovo rumore eruppe nel silenzio.
All’ultimo secondo percepii un’ombra sfuocata con la coda dell’occhio venirmi incontro.
Non feci neanche in tempo a voltarmi ché caddi a terra svenuto.
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