Una raccolta di racconti, che esplora i temi dell’amore, della perdita, delle identità, attraverso una serie di storie emotivamente intense e profondamente umane.
I racconti sono ambientati in diversi contesti, dal passato storico al presente contemporaneo, presentando personaggi dalle diverse sfaccettature, spesso con toni che oscillano dal drammatico all’umoristico. Sono soprattutto figure femminili, tra le quali spicca quella tragica della madre Angela del primo racconto, che per aumentare le magre entrate della famiglia, si piega a fare la raccoglitrice di gelsomini.
Altre figure – alcuni sono personaggi storici, rivestiti dalla fantasia dell’autrice – intrecciano le loro storie in un fluire del tempo, dall’800 a momenti anche drammatici del nostro presente.
Non senza un tocco di leggerezza, nelle storie dove è l’amore a predominare.
Talvolta il finale di un racconto può rivelare una inaspettata sorpresa.
Perché così è la vita.
Perché ho scritto questo libro?
In realtà, sono stati i personaggi a chiedermi di essere raccontati.
Lo so, è un pensiero un po’ Pirandelliano, da “Sei Personaggi in cerca d’Autore“, ma è la verità.
Ad esempio, ricordo benissimo il momento in cui la mia Vincenzina è apparsa: andando dal medico, trovai transennato il palazzo di fronte al suo. Era stata una fabbrica, testimone del passato industriale di Torino in piena città. In un lampo, la canzone di Jannacci (Vincenzina davanti alla fabbrica). E da lì nacque quel racconto.
ANTEPRIMA NON EDITATA
Marika quella mattina era molto nervosa. Non che non lo fosse nelle altre mattine, ma in quella c’era qualcosa che la indisponeva particolarmente verso il genere umano.
Entrò nel suo ufficio nella sede dalla Casa Editrice e sbatté la borsa sulla scrivania. Le fece eco la frana della pila di buste che, in precario equilibrio sino a quel momento, la attendevano.
Manoscritti: da quando la Casa Editrice aveva ampiamente pubblicizzato l’iniziativa dei “nuovi autori”, tutti coloro che pensavano di aver scritto un capolavoro lo spedivano, e tutto arrivava proprio lì, sulla sua scrivania.
Infatti, lei era stata nominata responsabile del progetto e, come tale, si era presa l’impegno di leggere tutto, con la speranza di trovare qualcosa di buono, da proporre per la pubblicazione, tra tutte quelle parole, incredibilmente tutte create con le stesse poche lettere dell’alfabeto.
Con un sospiro, si sedette alla scrivania ed afferrò la prima busta che le capitò. Gonfia di fogli, troppi, ma ormai l’aveva in mano.
Un plico di pagine sottili, coperte da una grafia precisa, certamente frutto di un normografo, spesso usato da chi non sapeva scrivere bene.
Iniziò a leggere le prime righe.
“O me nomi è Venera Rizzuto, e chista è la storia da mè famigghia, e di mè frati Lillo, cà nisciu pazzu, ma dicinu ca a pazza sugnu ju….”
Marika bloccò la sua mano che si dirigeva verso il cestino, la tentazione di buttarvi tutto il plico era fortissima: un intero manoscritto così? In forma dilettale?
Ma nell’accettare l’incarico aveva e si era promessa di leggere tutto, anche i vaneggiamenti di una persona che, dalle prime righe, si definiva essa stessa pazza.
C’era una sola via d’uscita: la casa editrice, a fronte di quell’impegno straordinario, le aveva affidato due giovani collaboratori, uno dei quali, Sebastiano Barbagallo, era siciliano, approdato lì a Milano con la bella speranza di fare carriera in una grande casa editrice, magari con un contratto un po’ più stabile delle precarie collaborazioni con il quotidiano La Sicilia di Catania. Lo mandò a chiamare.
Il giovanotto non si mostrava sorpreso, di certo stava aspettando un’occasione. Jeans e camicia, informale ma elegante, si presentava bene. Speriamo abbia una testa all’altezza della presenza, pensò Marika.
“Ciao Sebastiano, ci siamo ancora parlati poco, come ti trovi qui a Milano?”, esordì lei.
“Molto bene dottoressa”, rispose lui con un sorriso smagliante in un viso contornato da riccioli bruni.
“Seba, la faccio breve”, gli disse, passando ad un diminutivo, perché odiava i nomi lunghi – anche il suo, Marika, era la contrazione tra Maria e Carla – “ho questo plico che vedi, sono una trentina di fogli scritti a mano in un linguaggio che sembra essere un dialetto siciliano”.
A Marika sembrò che il sorriso del giovane avesse un leggero tremito, e continuò:
Continua a leggere
“il tuo compito sarà quello di leggere, tutto, e riportarmi il contenuto. Ovviamente mi aspetto anche la sintesi del tuo giudizio, in modo da valutare se valga la pena di prestare ulteriore attenzione a questo scritto, cioè se valga qualcosa”.
O per cestinarlo, pensò.
“Benissimo dottoressa, mi dia tutto e per fine settimana sarò pronto a relazionare”.
Ottimista, pensò lei, oggi è già mercoledì.
“Bene, allora ecco a te, buon lavoro”. Lui uscì insieme al suo sorriso.
§§§
Lillo
Lillo Rizzuto era il secondo di cinque figli che suo padre Agostino e sua madre Angela, nata Barbera, avevano concepito e nel tempo fatto crescere in una casuzza in mezzo al nulla nelle campagne di Contrada Olivarella, frazione di Milazzo, provincia di Messina.
La figlia grande, Venera, era nata in casa, ma qualcosa era andato storto al momento del parto, la bambina era messa in malo modo, e, tra le urla di Angela, la mammana faticò non poco a tirarla fuori.
Forse per questo, sin da piccola Venera si incantava, sembrava affatata: ferma ferma con gli occhi sbarrati, guardava qualcosa che nessun altro vedeva.
Crescendo, questi momenti non passarono, anzi quando iniziò a parlare, dopo questi incanti raccontava di persone e fatti che nessuno conosceva. Loro, preoccupati, andarono più volte in pellegrinaggio alla Madonna di Tindari, anche a piedi partendo di notte, ma nonostante questo, ogni tanto Venera sembrava parlare con la Luna.
Nel frattempo era nato il secondogenito: per non rischiare, la madre lo fece nascere in ospedale. Venne fuori un bel bambino grande e sano. Lo chiamarono Calogero, come il nonno, e quindi, per tutti fu Lillo.
Era un bambino bravo, pochi capricci, pochi pianti, e soprattutto non si incantava come sua sorella.
Rassicurati, e maledicendo la mammana che certamente aveva rovinato la prima figlia alla nascita, i due genitori ne misero in cantiere altri tre, a distanza di poco più di un anno uno dall’altro, e nacquero tutti maschi, belli e sani.
Agostino badava alla terra, un pezzo suo e un pezzo a mezzadria, Angela alla casa ed ai figli, al suo orto, e alle galline e ai conigli che, con gli ortaggi dei campi, andavano poi a vendere al mercato.
Venne il tempo di mandare a scuola i figli più grandi, si scoprì che per Venera non era cosa, non era portata per lo studio, mentre a Lillo la scuola piaceva, ed era bravo.
Così, anche se tra loro c’erano quasi due anni di differenza, la licenza elementare la presero insieme, Lillo con vero merito, Venera forse per riflesso del fratello. Per lei, continuare la scuola non era il caso, ma a Lillo piaceva studiare, e con tutti i sacrifici necessari, anche perché la scuola media era distante dalla casa, ce la fece.
Quando Venera si incantava, e poi diceva cose strane, Lillo non aveva paura, ed anzi era affascinato da come il suo volto, i suoi occhi si trasformavano.
Lui voleva molto bene a sua sorella, e la difendeva da chi la chiamava pazza.
Un giorno però una grande farfalla entrò in casa dalla finestra e si mise a svolazzargli intorno mentre lui studiava.
Venera se ne uscì con grida altissime, poi ammutolì e lo fissò con quegli occhi di Luna piena. “Ti ‘nhai a ‘ghiri da cà!” gli gridò, devi andare via da qui. Poi chiuse gli occhi, come se dormisse, mentre la farfalla volava via dalla finestra.
Lillo rimase ammutolito, e quasi tremante, era la prima volta che sua sorella vedeva qualcosa su di lui.
Dopo la licenza media, Lillo si mise a lavorare in campagna con i suoi genitori e d’estate, insieme alla madre ed ai fratelli piccoli, andavano di notte a raccogliere il gelsomino.
Lavoro da donne e da bambini, faticoso e mal pagato, ma che consentiva a sua madre di mettere da parte qualche soldo in più.
Partivano in piena notte su camion attrezzati con panche, che passavano a prendere le raccoglitrici e relativa prole, e le portavano nei grandi campi profumati, dove servivano mani delicate per raccogliere i fiori senza danneggiare le piante.
Strette su quelle panche, le donne parlavano piano, o dormivano, qualche bambino piangeva un poco, qualche madre allattava, le donne più anziane avrebbero accudito i più piccoli mentre le madri ed i fratelli più grandi avrebbero raccolto i fiori.
Lavoravano scalzi, nella terra che era stata bagnata al tramonto per mantenere i boccioli freschi e fragranti, prima che i raggi del sole li rovinassero; per questo la raccolta si faceva di notte, e fino all’alba.
Una volta raccolti i fiori, li mettevano nella grande tasca del grembiule, che svuotavano nelle ceste con il loro nome, poi pesate per trasformare quella marea bianca in essenza ricercata, destinata a distillerie lontane, e in poche lire nelle loro mani.
Molto spesso le raccoglitrici si ammalavano, “per l’umidità” dicevano, ma era un male che saliva dalla terra e a poco a poco nel tempo distruggeva le ossa.
Passarono quattro anni, scanditi dalle stagioni della campagna, e un giorno arrivò una cartolina per Lillo, la chiamata per partire militare.
Lillo pensò a quel giorno della farfalla: forse questo era il segno visto da sua sorella per un’occasione di vita diversa.
E, infatti, l’occasione gli si presentò, sotto forma della patente per guidare i camion militari, e Lillo non se la fece sfuggire. Da civile, avrebbe potuto fare il camionista, anziché spaccarsi la schiena sulla terra come suo padre e sua madre, e come già iniziavano a fare i suoi fratelli.
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