«Allora, ribadiamo: lei adesso vive con suo padre, ha riscosso successo nella riabilitazione della spalla, oltre a una precedente operazione di totale successo.» La psicologa fece il resoconto della situazione. Doveva, dopo tre mesi di sedute, essere certa che la poliziotta Mirre Spetich – ora vice ispettore, per l’esattezza, grazie a un bando interno – fosse idonea per il reintegro in squadra. «Lei come si sente ora?» le domandò, conscia del suo più totale pragmatismo.
Era la prima paziente, dopo venticinque anni di esperienza, che le metteva soggezione. Mirre Spetich era solita fissarla negli occhi, senza mai distogliere lo sguardo da lei e senza battere ciglio, nonché, con estrema freddezza, risponderle in modo e maniera che lei non potesse controbattere.
«Bene.» La dottoressa Mini le accennò un sorriso, un modo come un altro per smorzare quel disagio, quell’insana sensazione che quella donna le trasmetteva. Era una persona capace, nel suo lavoro, almeno lo credeva fino a quel momento. Avrebbe tanto voluto ribattere con la tipica domanda: «Mi dia una definizione di “normale”!» ma sapeva che la risposta sarebbe stata come una freccia in grado di trafiggerla in pieno petto.
La dottoressa in psicologia non era una donna molto alta, non superava un metro e cinquantanove, tarchiata e caratterizzata da una possente ossatura, ma nulla l’aveva mai messa in soggezione, neanche l’adolescenza, la parte più difficile della sua vita, costellata di giovani superficiali e cattivi. Ma lì, di fronte a quella creatura spettrale, dubitava delle proprie capacità di psicologa da trenta e lode, per non parlare dell’ottimo curriculum e di un’eccellente carriera. Bionda tinta, la dottoressa Mini cercava di nascondere i segni dell’età non per mera vanità, bensì per un innato senso di ordine e responsabilità che la caratterizzavano: pulizia, meticolosità e precisione sarebbero serviti come mezzo per mettere al proprio agio i suoi pazienti. Quale metodo migliore per farli sentire protetti?
«Come va la spalla?» le domandò, ancora.
Mirre era seduta perfettamente composta, la schiena ben dritta, distanziata dallo schienale della poltroncina, le mani racchiuse in grembo. Ma quegli occhi che continuavano a rimanere fissi la rendevano una specie di soldato tedesco dell’epoca nazista.
«Nel senso che non le fa più male?» azzardò lo stesso a farle tale domanda, pur dubitando che non provasse più alcun dolore.
«Nel senso che va molto bene» ripeté, senza batter ciglio.
La dottoressa sospirò. Era sfiancante avere un qualche colloquio con una persona del genere, figuriamoci avercela come paziente diretta. Cominciava a capire perché il padre tenesse le distanze da lei.
«Se tocca la spalla le fa male? Le è rimasta la cicatrice?»
«Credo che il campo della chirurgia debba ancora fare passi da gigante. Per fortuna all’estero sono più all’avanguardia che in Italia.» Sospirò. Non ne aveva voglia di stare lì a perdere del tempo con una psicologa da strapazzo, ma non aveva altra scelta. Già la disturbava entrare in un edifico squallido come quello, ancora di più in una stanza fatiscente dove era fin troppo visibile la mancanza di fondi da parte dello Stato. Anche se la dottoressa cercava di rendere il posto accogliente e pulito, rimaneva sempre quello che lei meglio definiva un buco di merda. «Comunque, credo, e di sicuro sarà così, se dovessi prendere un colpo alla spalla dovrebbe fare più male del previsto.»
Gli occhi della dottoressa si accesero. Finalmente aveva avuto una risposta più esaustiva dalla sua paziente, ma ciò che le era sfuggito, anche se nel suo profondo io lo temeva, era che Mirre la stava manipolando.
Si schiarì la voce e voltò pagina dal suo taccuino. Aveva preparato delle domande e, su ognuna di essa, lasciato dello spazio apposito per appuntarci le proprie riflessioni sui pazienti, in questo caso sulla paziente. Non era una donna tanto smaliziata da utilizzare la tecnologia odierna, prediligeva sempre i vecchi metodi. Il taccuino lo teneva tra le gambe, in modo che gli occhi d’aquila della poliziotta non intravedessero ciò che lei aveva scritto.
«Mi ha detto che ha ripreso ad andare al poligono. Come si trova?»
«Io non gliel’ho detto, me lo ha domandato lei. E, com’è giusto che sia, le ho risposto.» Mirre fece una pausa, seppur brevissima, durante cui ebbe tempo di far apparire un accenno di ghigno. «Sono ambidestra, non ho problemi a sparare con entrambe le mani. Comunque, se ci tiene a una risposta, sì, ho ripreso al poligono, e no, il braccio non mi fa male durante il rinculo dell’arma.»
La seduta durò un’ora. Questa iniziava sempre con almeno trenta minuti di domande seguite da una raffica di pragmatiche risposte della paziente e, alla fine, il tentativo di attutire i colpi finali della sua più che naturale acidità.
La boscaglia emanava sempre quel lezzo. Qui, la maggior parte dell’anno, trasudava quell’umidità che dalla terra entrava dritta nelle ossa. Mentre Mirre guidava tirò su il finestrino. La zona non gli dispiaceva, però era palesemente trascurata e lasciata al degrado e lei non lo sopportava, non solo per il ruolo d’ordine pubblico che ricopriva nella società, ma soprattutto per la sua maniacale fissazione di pulito.
Svoltò a destra stando attenta a non incrociare delle macchine dal lato opposto, visto il poco spazio di cui disponevano quelle stradine secondarie. Si stava dirigendo verso il poligono della zona, in mezzo al bosco e fuori dalle abitazioni. Era un posto frequentato dai civili, in certi giorni e orari della settimana, ma per il resto era un sito del tutto militare. Lei, da poliziotta – a differenza dei civili – poteva andare a esercitarsi con le armi quando voleva. Le piaceva fare vedere quanto la sua mano ferma, nel limite del possibile, era in grado di fare centro o di colpire la sagoma nei punti da lei stabiliti, facendo sfigurare le nuove reclute con i più che competenti istruttori dell’arma. C’era un “ma”, in tutto questo: a causa dell’incidente e dell’operazione era stata inattiva per molto tempo e temeva di non poter tenere il rinculo della pistola o di aver perso quello smacco innato che aveva fatto suo e la rendeva un prodigio con in mano una pistola. Era perfettamente ambidestra, quindi se la spalla le avesse fatto male o dato dei problemi aveva sempre la mano sinistra, precisa quanto l’altra. Aveva sudato i permessi per ritornare non solo a sparare al poligono, ma per riavere il suo porto d’armi, la pistola d’ordinanza, una Beretta 92fs, e l’abilitazione alla Colt P38, riservata agli investigatori.
Le sue armi erano pulite con costanza e tenute alla perfezione. Aveva chiesto a qualche collega che andava a caccia di farle provare alcuni fucili e loro le avevano consigliato di muoversi in un’altra direzione, ovvero di andare disturbare i tiratori scelti dell’Esercito. Non accettò. Voleva testare la sua spalla e sapere se avrebbe tenuto al rinculo di un fucile da caccia. Quest’ultimo, in senso fisico, sapeva che era una conseguenza del terzo principio della dinamica e, nel caso di un’arma da fuoco, dipendeva dalla pressione dei gas generati dall’accensione della polvere che spingevano il proiettile lungo la canna fino alla volata, dal calibro dell’arma, dal proiettile e altro. Ma Mirre sapeva anche che dipendeva da come il tiratore, in questo caso lei, percepiva l’energia che si scaricava sulla propria mano, spalla e corpo durante il processo del rinculo e del suo movimento retrogrado. A complicare le cose interveniva anche “l’impennamento” dell’arma, questo perché, per esigenze costruttive, è situata sopra il baricentro e la pistola, per proteggere la mano, ha l’elsa; perciò, al momento dello sparo, l’arma avrebbe acquistato un movimento rotatorio attorno al baricentro, tendendo a spostare la bocca della canna verso l’alto, e lei non voleva nessun urto che potesse darle fastidio alla spalla, perché quel movimento rotatorio, soprattutto nelle armi corte, dava una sensazione più spiacevole del rinculo stesso.
Mirre era abbastanza brava nel controllare entrambe i movimenti. Forse non a fermarli o contrastarli, ma ad accompagnare il tutto.
Il suo segreto?
La respirazione.
Quando scese dalla macchina e fece qualche passo verso il cancello che portava allo stand esterno per il tiro, le tornarono alla mente i ricordi grazie ai profumi e agli svariati odori caratteristici di quel posto.
«Spetich!» si sentì chiamare.
Si voltò per vedere chi fosse e lo riconobbe: era Ernesto Mannini, un agente che lavorava nella squadra di suo padre. Di lui sapeva che amava tutto ciò che poteva appartenere all’artiglieria e alla balistica, e lì era oramai di casa. Conosceva il presidente del poligono da anni e rispettava le regole che vigevano all’interno del sito.
La vice ispettore gli sorrise. Si ricordava molto bene di lui, soprattutto perché, al risveglio dell’intervento, quando abortì e dovettero operarla d’urgenza, c’era solo lui al suo capezzale. Quella volta non scambiarono nessuna parola, solo degli sguardi fugaci. Gli era grata per quell’atto di caritatevole gentilezza.
Ernesto si fermò per poter scambiare qualche parola con lei. Voleva intraprendere un certo tipo di conversazione per instaurare un po’ di confidenza, ma non sapeva che il suo superiore era tutto all’infuori che un animale socievole, l’opposto di una creatura affabile la cui abitudine era mostrare una qualche sorta di gratitudine. Infatti gli bastò intrattenersi un attimo di fronte a lei per notare il cambiamento nel suo sguardo: gli occhi, di un verde intenso, si impregnarono di un animo gelido, si iniettarono di sangue. Il volto criptico della poliziotta gli fece capire che non era il momento e, col senno di poi, Ernesto avrebbe capito che non lo sarebbe mai stato.
Il poliziotto non poté fare a meno di notare che molti conoscevano la donna anche solo di fama. La osservò con attenzione: anche solo dal linguaggio del corpo si percepiva quanto lei fosse capace di sgombrare la mente dai pensieri, cosa davvero difficile anche al miglior tiratore del mondo. Restò sbalordito quando la vide sparare anche con l’altra mano: con la sinistra era capace di utilizzare la pistola con precisione quanto con la destra.
Gli altri, quando si rivolgevano a lei, istruttori compresi, abbassavano lo sguardo e questo lo capiva. Neanche lui era riuscito a reggere quegli occhi più di qualche secondo e notava, con la coda dell’occhio, la mera soddisfazione di lei quando accadeva.
Era irritante, ma per niente evitabile.
Un collega arrivò con un fucile da caccia. Lui non ne era pratico, ma osservò la scena nel dettaglio: l’uomo le porse il fucile indicandole qualche nozione su come doveva essere utilizzato. A Mannini sembrava un fucile a canna rigata semiautomatico, gli diede la sensazione di essere leggero. Si avvicinò per poter sentire meglio cosa il collega le stava dicendo, visto che le cuffie gli ovattavano l’ambiente circostante.
«Il principio di funzionamento è il recupero di gas. L’accesso al serbatoio avviene spostando la levetta zigrinata situata davanti al ponticello, provocando la rotazione della piastra reggicaricatore. Il serbatoio, in questo modo, può essere sganciato o riempito partendo da questa posizione.» E le fece vedere il tutto con un gesto meccanico del corpo, come se lui e l’arma fossero una cosa sola.
Ivano Pezzica era un agente in servizio da dieci anni, amava molto la caccia e le armi in generale. Anche lui aveva consigliato a Mirre di farsi affiancare da un tiratore scelto dell’Esercito, visto che spesso si esercitavano al poligono, ma lei aveva insistito per impugnare un solo e unico fucile: il Browning, la carabina per la caccia al cinghiale.
Solo e unicamente quest’arma era tutto ciò che lei desiderava provare, in ricordo della cicatrice che portava sulla spalla causata proprio dalla stessa.
Qualcosa suonava familiare all’agente. Solo dopo avrebbe capito che quell’arma specifica era stata utilizzata da Il Fantasma per metterla fuori gioco.
«Il Bar è una carabina semiautomatica, calibro .30-06 Springfield, con canna lunga 660 millimetri, rigatura a quattro princìpi destrorsi, un sistema di percussione con cane interno e con un caricatore da due colpi basculante. Il peso è di tremilacentocinquanta grammi scarico, mentre la lunghezza totale è di millesessanta millimetri. La finitura è brunita…» Mentre continuava a descriverle l’arma in questione, la luce che si rifletteva negli occhi di Mirre era già cambiata grazie a quella fiamma gelida che uccideva tutti con un solo sguardo.
Era consapevole dell’ossimoro appena concepito, “fiamma gelida”, ma era l’unico paragone che riusciva a qualificarla in quel momento.
Si capiva che era annoiata da tutte quelle nozioni. Forse le conosceva già o, cosa molto più probabile, a lei interessava solo imparare a maneggiare l’arma. Comunque stavano le cose, e lui di certo non possedeva la qualità di lettura del pensiero, quel tipo dal modo di fare soporifero aveva annoiato anche lui.
La poliziotta appoggiò il calcio sulla spalla destra, fissò il mirino e stette immobile ascoltando il proprio respiro. La gamba destra stava indietro per tenere meglio il fucile. In quel momento l’occhio si spense, era come se la scintilla d’odio che provava nei confronti della vita stessa si fosse assopita. Ernesto percepì il tempo: si era rallentato per poi fermarsi. Fu proprio in quel momento che Mirre premette il grilletto e sparò un colpo, facendo un bel foro sulla spalla sinistra della sagoma stampata sul bersaglio.
In quell’istante Mannini pensò che la spalla di lei non avrebbe retto ma, a parte un «Cazzo!» esclamato subito dopo, non ne vide alcun effetto.
«Tutto bene?» le domandò il collega. La poliziotta lo ignorò riprendendo posizione per sparare un altro colpo.
«Meglio che sparare con una pistola» esclamò, infine, lei.
Ernesto la osservò ancora. Era una donna molto bella, altrettanto intelligente ma che si circondava di un’aura che respingeva ogni forma vivente. Persino una pianta, se le fosse stata vicina per qualche giorno in condizioni ottimali, sarebbe morta. Sorrise con amarezza al pensiero che gli aveva attraversato la mente: ricordò quando era incursore e la sua ex moglie. Dopo che diagnosticarono la leucemia alla loro figlia Rebecca, di soli tre anni, egli lasciò la strada della carriera per un bando in Polizia, così da diventare agente scelto per poterle stare vicino. Rebecca, però, morì. Non era mai andato di fronte alla sua tomba, non aveva rapporti con la sua ex moglie da almeno quindici anni. A parte qualche rapporto occasionale – d’altronde era pur sempre un uomo molto affascinante – non aveva più avuto una relazione stabile con una donna.
La prima volta che posò gli occhi sulla figlia di Jazo, martoriata e provata dal dolore, pensò che poteva essere la donna giusta per lui. Solo ora si rendeva conto che, anche se molto bella, non solo aveva preso un granchio, ma lei era di quanto più lontano una donna potesse essere. Di certo non le mancava la femminilità, ma la gentilezza, la delicatezza e la fragilità che rendevano tanto bella una donna, anche se soldato, in lei non c’erano mai state.
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