La Storia di Dianetta è innanzitutto una storia vera. E’ la cronaca di un omicidio risalente ad oltre 300 anni fa che fortunosamente è arrivata fino a noi sui verbali del processo che venne solto all’epoca. Apre una finestra su un passato, non così lontano e non così diverso dal mondo di oggi quanto ci aspetteremmo. La verità processuale però lascia molte ombre e punti oscuri. La seconda parte del racconto cerca di dare alla vicenda un senso logico e una possibile spiegazione, certo, di fantasia ma sempre con rigore storiografico, alle incertezze che la Storia lascia. Chi ha realmente ucciso Dianetta? Come andarono realmente le cose?
Perché ho scritto questo libro?
Perchè la storia di Dianetta e del mondo che le gravitava attorno, mi hanno colpito profondamente. Scoprire, pagina per pagina negli atti di un processo trascritti a mano da un notaio di fine ‘700, la vita e le vicende di una donna, della sua famiglia e del paese che intorno a lei viveva mi ha davvero appassionato.Ma il racconto giudiziario non mi bastava, volevo dare voce a quella persone; volevo riempire i buchi che la trama aveva. E così è nato il racconto e una diversa storia di Dianetta
ANTEPRIMA NON EDITATA
PROLOGO
La storia di Dianetta è, purtroppo, una storia vera.
E’ la storia di un omicidio avvenuto nel dicembre 1692, oltre tre secoli fa, nel paese di Vezzano Superiore, nei pressi della Spezia, all’epoca sotto il dominio della Serenissima Repubblica Aristocratica di Genova.
È una piccola, terribile storia di gente semplice, povera, che avrebbe dovuto essere cancellata dal ricordo e dalla memoria se non ne fosse stata riportata la vicenda negli atti ufficiali del processo celebrato all’epoca. Tali atti, che sono conservati e tuttora consultabili sui documenti originali presso la Sezione Storica della Biblioteca comunale spezzina, ci consentono di ritrovare e conoscere questi avvenimenti altrimenti travolti dallo scorrere impietoso del tempo.
Durante lo svolgimento di alcune ricerche storiche relative alle condizioni di vita del territorio ligure nel periodo finale della vita della Repubblica genovese, mi sono imbattuto in questi atti, che altri, prima di me, avevano già affrontato e reso facilmente fruibili fornendone una lettura più agevole .
In quella occasione, oltre all’interesse per una ricostruzione storica puntuale e dettagliata di un procedimento penale rievocato dagli atti con grande precisione, mi è sorta la voglia di saperne di più di questi uomini e donne che rivivevano nel racconto, freddo e burocratico, dei processi verbali e degli interrogatori.
Ma non vi era modo di scoprire con altre fonti cosa pensassero, quali motivazioni spingessero l’agire dei vari protagonisti, in sostanza chi fossero gli uomini e le donne di cui si parla negli atti del processo.
Così ho provato ad immaginarli, a costruire su di loro e sui pochi elementi certi recuperati dai documenti, delle identità inventate ma, credo, coerenti con i loro atti e il mondo nel quale vivevano.
Nella prima parte di questo racconto verranno quindi esposti i fatti come riportati dai verbali dell’epoca, con tutte le lacune e le incertezze che il tempo trascorso inevitabilmente lascia e con una piccola integrazione di fantasia, ma solo riguardo alle possibili e verosimili sensazioni e stati d’animo dei protagonisti, con lo scopo di rendere più scorrevole, e spero più gradevole, la lettura.
Successivamente, nella seconda parte, prende il via il tentativo di dare una voce ed una vita, immaginata, ad alcuni dei protagonisti della vicenda, creando, con l’invenzione e la licenza letteraria una trama che, fra le mille possibili, dia una spiegazione ai fatti nudi e crudi.
L’inchiesta, occorre anticiparlo, si conclude senza che vengano mai sentiti i principali accusati, che ovviamente si sottrassero ad ogni ricerca, anche solo per evitare metodi inquisitivi che facevano della tortura uno dei più importanti strumenti di indagine e senza che la ricostruzione del movente del delitto sia fino in fondo chiara e convincente, almeno per chi lo riesamina nel nostro tempo.
I nomi, i luoghi e le testimonianze riportate nel racconto corrispondono al vero. Il resto è fantasia e, se credete, invenzione artistica.
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Parte prima
L’inchiesta
Lunedì 1 dicembre 1692
E’ un lunedì mattina, il 1 dicembre 1692, intorno alle dieci (il verbale riferisce “ad hora decimanona” secondo il metodo in uso di contare le ore a partire dalla mezzanotte, fissata per convenzione circa un’ora dopo il tramonto del sole ) quando alla porta degli uffici della Curia di Vezzano Superiore si presenta, trafelato e sconvolto un uomo. Il suo nome è Nicola Giuliani (De Julianiis negli atti che, come vedremo alternano disinvoltamente lingua volgare e latino, senza troppe distinzioni).
Giuliani, uomo di circa 73 anni, si reca quella mattina, non troppo presto, considerata l’età e il clima che possiamo immaginare già invernale, ai propri campi siti più a valle in una zona non lontana chiamata l’Orzara, forse, chissà, per essere particolarmente adatta alle colture di quel cereale.
Dunque, mentre l’uomo scende lungo la mulattiera che dal Borgo di Vezzano Superiore porta a valle, giunto all’altezza della casa del sacerdote Giobatta Michelini si accorge che sul bordo del tratto di strada che sta percorrendo è presente un mucchio di sassi che non ricordava.
Lo nota ma subito pensa che si tratti di materiale portato per certi lavori di rinforzo dei muri di confine che i proprietari, ora rammenta, gli avevano detto di voler realizzare.
Fa quindi per passare oltre, facendo attenzione a non inciampare, ma d’un tratto si ferma, incredulo, pensa di vedere male, si avvicina, e, no, non sbaglia, quello che esce dal cumulo di pietre è proprio un piede, calzato con una scarpetta di cuoio…
Allora cerca di capire meglio cosa sia successo: si guarda attorno, ma il luogo è deserto, vorrebbe chiamare aiuto, ma non vuole coprirsi di ridicolo se poi le cose non sono come gli sono sembrate. Ed allora raduna le forze ed il coraggio e si avvicina, sposta alcuni sassi e ogni dubbio svanisce.
Si vede una gamba, la stoffa di un vestito, macchie di sangue.
Sotto quei massi c’è qualcuno.
Ancora è incerto, non sa se provare a liberare quel corpo, forse si può ancora fare qualcosa, ma poi sentito il peso e viste le dimensioni di quelle pietre, e forse anche un po’ per paura, desiste. Si rialza e comincia ad urlare chiamando aiuto, ma la via è nascosta dagli alti muri di confine e nessuna voce risponde ai suoi richiami. Che fare? Improvvisa la decisione di tornare di corsa in paese ed avvisare qualcuno, magari qualcuno potrebbe trovarsi sulla strada. Ma niente, tutti sembrano spariti.
Lontano intravede un uomo cerca di chiamarlo, ma anch’egli è un vecchio, non risponde, forse non sente.
Immaginiamo il passo dell’uomo sulla salita che lo riporta al Borgo che si fa più pesante, il fiato manca, il cuore batte…, Il Podestà! ecco chi può fare qualcosa, occorre avvisare il Podestà!
E così risale i cento gradini circa che lo separano dalla Piazza della Chiesa dove sa che c’è la Curia, una specie di ufficio del Podestà che è in paese la Autorità più alta. E finalmente, ripreso fiato, può chiedere aiuto.
Il Podestà (le cronache ne riportano il nome Domenico Rizio – Ritius in latino) è un magistrato che governa il paese sulla base di un mandato che gli viene dato dal Governo genovese, , con lui ci sono alcuni famigli, guardie al servizio del Borgo, e il cancelliere o attuario che redigerà buona parte dei verbali da cui ricaviamo la ricostruzione del fatto.
E se all’inizio chi lo ascolta stenta a credere a quel che il vecchio in modo confuso ed agitato racconta, ben presto si capisce che qualcosa di grave è capitato.
Giuliani è conosciuto in paese, è persona seria che certo non inventerebbe allarmi simili senza motivo. Per questo il Podestà manda uno dei famigli sul luogo chiedendo che riferisca subito
Passano pochi minuti e il giovane ritorna e dà la conferma.
C’è un corpo, sembra di una donna stesa sotto i sassi, non si muove. E c’è sangue intorno, tanto sangue.
Gli uomini prendono allora i mantelli, e scendono rapidamente lungo la mulattiera. Arrivano in pochi minuti ma quando arrivano trovano già alcune persone sul posto. Evidentemente le grida di Giuliani erano state sentite da qualcuno e, passato qualche momento di incertezza, la curiosità aveva superato la paura.
Così alcune donne, dalle case più vicine, sono scese a vedere cosa fosse mai successo.
Una di loro in particolare, Domenichina de Tria, ha trovato il coraggio di avvicinarsi e spostare pietre fino a scoprire il corpo. Il cadavere è bocconi, il capo coperto di sangue e difficilmente riconoscibile, veste semplicemente, ma in maniera dignitosa.
E’ gente povera, come lo sono i contadini di quel periodo, ma non vivono in una grave miseria; la vittima indossa una camicia bianca con un bustino di seta azzurra (o almeno così la definisce la teste, ma forse sarebbe troppo preziosa per una contadina? – È possibile che con il termine venisse indicato semplicemente un qualche altro tessuto a trama più fina di quello usato per gonne o camicie grezze), una seconda camicia più pesante sopra ed uno scialle di tela grossa di canapa, chiamato faldetta, che si usava anche per coprire il capo. La gonna nera, lunga, e due scarpette di cuoio nere come nei giorni di festa.
Ha persino una cordellina bianca di filo a intrecciare e trattenere i capelli, ora lordata di sangue.
Gli uomini liberano del tutto il cadavere dai sassi e lo girano in posizione supina. In questa nuova posizione Domenichina, la riconosce.
“E’ Dianetta Calzolari la moglie del Batilè!”.
I presenti confermano trattarsi di Dianetta Calzolari
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