Théo ha diciott’anni e un dono che è anche una difesa: disegna tutto ciò che non riesce a dire. Nelle sue pagine prende forma il mondo che nessuno osa mostrare — la solitudine, la bellezza nascosta, il desiderio di essere davvero visto. Tra le aule di un liceo parigino e le giornate di pioggia, la sua vita scorre silenziosa… finché un incontro inatteso lo spinge a guardarsi davvero e a far sentire la propria voce.
Quello che non so dire è un romanzo sull’arte come linguaggio dell’anima, sulla scoperta di sé, sul coraggio di mostrarsi e di imporsi, sull’adolescenza come terra di confine dove ogni emozione brucia e illumina.
Perché ho scritto questo libro?
Ho scritto questo romanzo perché racconta la mia invisibilità scelta, gli anni prima del mio coming out, e il desiderio di essere finalmente visto. È una storia sulle emozioni taciute, sulla solitudine che brucia e sull’arte che diventa voce. Racconta il coraggio di conoscersi, di mostrarsi e di imparare a imporsi, trasformando il silenzio in luce.
ANTEPRIMA NON EDITATA
Capitolo 1
Non so perché, ma disegnare le persone mi riesce meglio che parlarci. Le osservo. Traccio linee. Studio i volti come se fossero mappe da esplorare — fronti, profili, mani che si sfiorano, occhi che sfuggono. I corpi raccontano più delle parole, se li guardi davvero. E io li guardo sempre troppo. La luce entra obliqua dalle finestre alte dell’aula d’arte, tagliando in due la polvere sospesa. Tutto è fermo, ovattato. Anche i suoni sembrano lontani, come se l’aria fosse più densa. C’è odore di gesso, di carta, di acrilico secco. Mi piace. Mi calma. Oggi sto disegnando un ragazzo. Lo incrocio ogni tanto nei corridoi o a lezione, ma non so nemmeno il suo nome. Ha mani grandi, forti, come fatte per afferrare o per spezzare. Le spalle un po’ curve, come se portasse un peso che non si vede. È bello, ma non in modo facile. È bello in un modo che non so ancora spiegare. Come se fosse sempre altrove, anche quando è lì. Come se avesse dentro un mondo intero che non lascia uscire.Solo adesso mi accorgo che sto fissando troppo quel disegno. Il cuore accelera, come se avessi fatto qualcosa di sbagliato. Strappo la pagina, la piego in quattro e la infilo in tasca, al riparo da occhi indiscreti.
— Théo, — dice una voce, dolce e decisa. — Ci sei?
È Madame Lefèvre, l’unica insegnante che sa dire il mio nome con una gentilezza che ti fa sorridere. Lezioni d’arte, ma anche di vita. Ha i capelli rossi raccolti in uno chignon imperfetto tenuto su da due matite. Indossa colori sempre diversi e un po’ stravaganti. Oggi ha una sciarpa color prugna e una giacca macchiata di vernice. Le sorrido appena.
— Che disegni? — chiede, piegandosi verso il mio banco.
— Nulla, — rispondo, forse troppo in fretta.
Lei non replica. Guarda il foglio bianco con una calma che sa di complicità.
— Va bene così, — dice. — Ma un giorno, Théo… potresti sorprenderti di quanto sai dire, se scegli tu il modo. Anch’io, da ragazza, disegnavo per non parlare. Ho imparato tante cose da quei silenzi. Poi si allontana, lasciandomi con quella frase che resta lì, sospesa. Un giorno, forse. Ma oggi no.Resto seduto ancora un po’, con il taccuino chiuso. Fuori dall’aula c’è il mondo. Qui dentro, ci sono io. Ma anche qui, a volte, mi sembra di stare aspettando qualcosa. O qualcuno. Raccolgo le mie cose lentamente, come se stessi lasciando un rifugio. Quando esco, il corridoio è già mezzo vuoto. Le voci si sentono in lontananza, smorzate, come il rumore di una festa chiusa dietro una porta. Mi avvio verso la scala, ma rallento. Accanto ai distributori, vicino alla finestra rotonda del piano terra, c’è lui. Il ragazzo del mio disegno. In piedi, una lattina di cola in mano. Parla con due amici. Sorride appena. Tiene le spalle nello stesso modo — come se avesse freddo, ma non lo dicesse. Per un attimo, mi si ferma il respiro. Sembra uscito dalla mia pagina. Poi, come se avesse sentito qualcosa, si gira. I nostri occhi si incrociano. Solo un secondo. Ma abbastanza per farmi sentire quel battito sbagliato che sale in gola. Mi volto di scatto e riprendo a camminare. Nessuno ha visto. O almeno, lo spero.La campanella suona secca, come un colpo di forbice sul foglio di carta. Mi porto dietro l’odore di grafite e le parole di Madame Lefèvre. Intorno, la scuola è tornata a rumoreggiare: risate, scarpe che strisciano, zaini sbattuti contro i muri, voci troppo forti. Tutto mi sembra distante. Come se avessi la testa sott’acqua. Poi sento il mio nome. Due volte, veloci.
— Théo! Théoooo!
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Mi volto. Sono loro: Manon e Maëlle. Le mie migliori amiche. Manon ha i capelli corvini a caschetto e una rasatura da un lato. Uno smalto diverso su ogni unghia. Sembra sempre sul punto di fare qualcosa di proibito. Maëlle è più calma, elegante. I capelli rosso scuro legati in una treccia che le scende fino alla schiena. I suoi occhi vedono più di quanto dovrebbero. Due mondi opposti. Ma insieme, sembrano nati per incastrarsi.
— Siamo in ritardo per filosofia, — dice Manon, prendendomi sottobraccio. — Ma Maëlle ha detto che se non uscivi entro
dieci secondi sarebbe venuta a tirarti fuori.
— Non ho detto “tirarti fuori”. Ho detto “per il colletto”. È più
raffinato, — corregge Maëlle.— Siete matte.
Sbuffo una risata. Mezzo divertito. Mezzo sollevato.
— E tu sei lento, — ribatte Manon. — Che stavi facendo?
Disegnavi la prof?
— Stavo… pensando.
— Uh-oh, — fa lei. — Pericoloso.
Camminiamo nella folla. Manon canticchia qualcosa. Maëlle
mi guarda in silenzio, di lato.
— È successo qualcosa?
— No.
Pausa.
— Non è successo nulla.
Davanti a noi, un gruppo di ragazzi si sposta per farci passare. E lui è lì. Sta ridendo con altri tre. Ma quando incrocia il mio sguardo, smette. Solo un attimo. Uno di quegli attimi che restano addosso. Mi giro subito. Manon non se ne accorge. Maëlle sì, ma non dice nulla.Arriviamo poi davanti alla porta della classe per la lezione di Filosofia.
— Ultima ora, poi andiamo al parco? — propone Manon. —
Fa caldo. E Maëlle ha portato le fragole. Annuisco. Un gesto piccolo. Entriamo. Il professore inizia a parlare di libertà, volontà, responsabilità. Io penso che, se fossi davvero libero, resterei in silenzio. Sempre. A disegnare tutto quello che non so dire. Poi abbasso gli occhi. Sul margine del quaderno sto già tracciando la curva di una spalla. Non riesco a smettere.
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