Io, invece, sono cresciuta con un grande buco nella memoria. Non ricordo nulla di quella notte, nulla di concreto, nulla che potesse aiutare a ritrovare Clara o a capire cosa fosse successo. Ogni dettaglio che poteva essere importante era evaporato, lasciando solo un vuoto freddo e penetrante.
Dopo la recente morte di mia madre, ho deciso di tornare nella vecchia casa di famiglia.
Solo un weekend, mi sono detta. Il tempo di mettere in ordine, di fare pulizia, e poi mettere tutto in vendita.
“Casa”, una parola che dovrebbe evocare calore, protezione, legami. Per noi, invece, era solo un lento e doloroso disfacimento: pareti invecchiate dal tempo, tende logore che ondeggiavano come spettri al minimo soffio di vento, mobili scheggiati e accumuli di polvere che raccontavano la trascuratezza di anni e anni di abbandono. Ogni angolo parlava di assenze, assenze pesanti come pietre.
Ero lì, a camminare tra corridoi silenziosi, con il cuore che batteva leggero e pesante insieme, respirando quell’odore di legno antico e di casa chiusa da troppo tempo.
La stanza del soggiorno era immersa in una penombra innaturale.
Il ticchettio dell’orologio a muro scandiva il tempo con una precisione quasi ostinata, come se volesse ricordarmi che, anche nella penombra, la vita fuori continuava.
Io, invece, ero ferma. Seduta a quel tavolo, che un tempo sprigionava risate infinite e deliziose cene. Aspettavamo con ansia la sera, il momento in cui ci riunivamo tutti e quattro, a parlare delle piccole cose, della nostra giornata, di quella vicina impicciona, dei nostri sogni. Sembra di non essermela goduta abbastanza, perché tutto è sfumato così presto. Eravamo felici e lo sapevamo, quello che invece non sapevo è che presto tutto sarebbe cambiato.
Mentre ero immersa nei ricordi, frugavo tra le vecchie carte dimenticate, fu allora che lo vidi.
Un disegno che non avevo mai notato prima. Era mio, lo riconobbi subito: quei tratti infantili, imprecisi, ma pieni di significato.
C’erano io, Clara e un uomo. Ma l’uomo… non aveva volto. Solo una sagoma sfocata, inquietante. Sentii un brivido lungo la schiena. Quel volto… lo conoscevo. Non sapevo da dove, non sapevo come, ma era familiare.
La finestra accanto a me scricchiolò all’improvviso. Mi voltai di scatto. Il vetro era chiuso, eppure la tenda ondeggiava come mossa da un soffio d’aria. Restai immobile, ad ascoltare il silenzio della casa, sembrava un manto pesante, rotto soltanto dal respiro affannoso che cercavo invano di controllare.
Appoggia distrattamente il disegno sul tavolo e salii in camera, con la mente in tempesta e il cuore pesante. Avevo bisogno di dormire. O almeno provarci.
La nostra vecchia cameretta era lì, come ibernata nel tempo.
Le pareti ancora tinte di rosa sbiadito, i poster scoloriti dei cartoni animati che tanto amavamo, la scrivania di Clara con ancora sopra i suoi quaderni, e quei libri ormai ingialliti che emanavano odore di vecchio e di carta dimenticata. Ogni oggetto era un piccolo frammento di vita spezzata, una testimonianza muta di un tempo che non sarebbe mai più tornato.
Mi sdraiai sul letto, fissando il soffitto con occhi vuoti, mentre il pensiero tornava sempre a Clara. A quella domanda che nessuno aveva mai voluto affrontare: che fine aveva fatto? Perché nessuno parlava mai di lei?
Quando Clara sparì, io diventai invisibile. Imparai a chiudere le emozioni, a non sentire più nulla. Diventai la donna fredda che tutti conoscono, ma dentro di me urlava il silenzio.
Verso le tre del mattino, dopo ore passate a rigirarmi tra le coperte senza pace, chiusi gli occhi per qualche minuto.
Un rumore secco al piano di sotto mi fece sobbalzare.
Il cuore martellava nel petto come un tamburo impazzito. Rimasi immobile, cercando di ascoltare ogni piccolo suono. Ogni scricchiolio del pavimento sembrava amplificato, ogni ombra un potenziale pericolo.
Poi, con le gambe che tremavano e la bocca asciutta, mi feci coraggio e scesi le scale.
Nessuno. Nessun segno di intrusi. Tutto era immobile, silenzioso. Troppo silenzioso. L’aria era densa, quasi opprimente.
E poi lo vidi.
Il disegno. Ancora lì, ma cambiato. I bordi anneriti, come bruciati dal fuoco. E il volto dell’uomo… scomparso. Cancellato con una cura inquietante, come se qualcuno avesse voluto eliminare ogni traccia della sua identità.
Rimasi a fissarlo, il respiro corto, la mente in confusione. Chi poteva aver fatto questo? E perché? Quella semplice immagine, così infantile, era diventata un enigma impossibile da ignorare.
Mentre cercavo di raccogliere i pensieri, mi accorsi che intorno al disegno c’era un odore particolare: una nota acre di cenere e di carta bruciata, ma mescolata a un sentore dolce, quasi di miele vecchio, che mi riportava alla cucina di casa nostra, ai biscotti che Clara e io preparavamo da bambine. Quel contrasto tra innocenza e minaccia mi fece rabbrividire.
Mi sedetti sul pavimento, appoggiai la fronte al tavolo, e lasciai che la memoria cercasse di emergere, come acqua in un pozzo profondo.
Ricordai momenti apparentemente insignificanti, che ora assumevano un peso diverso. La risata di Clara quando si nascondeva dietro la tenda, il modo in cui imitava mia madre, la promessa di proteggerci l’una con l’altra. Ogni ricordo era come un frammento di vetro, tagliente e luminoso allo stesso tempo.
Il tempo sembrava rallentare. Sentivo il battito del mio cuore scandire ogni secondo, ogni respiro, mentre una tensione crescente mi stringeva il petto. La mia mano sfiorava le vecchie carte, come se potessi sentire i ricordi impigliati tra di esse, intrappolati nella polvere e nell’odore di carta.
Non potevo restare lì a fissare un disegno annerito senza cercare risposte. Dovevo scavare tra le scartoffie, tra i libri, tra i ricordi dimenticati. Dovevo capire. E, soprattutto, dovevo affrontare ciò che avevo nascosto a me stessa per anni.
Quella notte, mentre il vento sibilava tra le imposte e le ombre delle tende si allungavano come dita minacciose sul pavimento, compresi che il ritorno a quella casa non era un semplice weekend di passaggio. Era l’inizio di un percorso che mi avrebbe costretta a guardare in faccia al passato, a confrontarmi con la paura, con il dolore e con una verità che mi aveva sempre evitato.
Il disegno non era solo un oggetto: era un messaggio, una porta spalancata sul tempo perduto.
E io, finalmente, ero pronta ad aprirla.
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