Il mio nome è Khadija, ma per essere precisa non fu questo il nome scelto dai miei genitori per me, il giorno in cui venni al mondo, in una nuvolosa mattina di settembre.
È il nome che, tempo dopo, scelsi di aggiungere al mio, per la mia nuova vita.
Premetto che, scrivendo, non ho alcuna presunzione di insegnare qualcosa a qualcuno, anche perché davvero non ne ho le competenze né l’intenzione. Dunque, se state leggendo queste righe, fatelo esclusivamente con la leggerezza e la semplicità che si adoperano per ascoltare una storia qualunque.
Questa è semplicemente la mia storia.
Provengo da una famiglia di brave persone che progettarono e costruirono con cura la loro vita insieme.
Mio padre era un rigido insegnante di matematica che si dilettava a torturare i ragazzi che frequentavano l’unica scuola media del paese in cui vivevamo.
Si laureò con fatica, sudore, sacrificio e ovviamente con lode. Lui, orgoglio dei miei nonni che gli dedicarono l’intera esistenza, voleva trasmettere a quei ragazzi annoiati che solo il sacrificio porta ad un qualche risultato. Era un’equazione semplice, lineare, imprescindibile, per lui. Non gli interessava essere divertente o insegnare ad amare la matematica. Lo studio per mio padre era un preciso dovere, fondamenta irrinunciabile di un futuro stabile e sereno.
Mia madre era la bibliotecaria dell’unica biblioteca del paese in cui vivevamo.
Lei era la regina indiscussa di una struttura, in realtà piuttosto modesta, per la quale i fondi erano sempre troppo pochi. Ma i suoi libri erano il suo mondo.
Il suo diploma di scuola magistrale, raggiunto con molto poco entusiasmo, l’aveva portata ad essere dapprima maestra in una scuola elementare, ruolo che davvero non le si addiceva, poi impiegata comunale ed infine in quell’enorme salone pieno di scaffali e di amati libri. Lei era la luce degli occhi dei miei nonni che non le fecero mai mancare nulla.
I miei genitori erano entrambi figli unici.
Io sono figlia unica.
Io ero l’immenso tesoro di mio padre, di mia madre e dei miei quattro nonni, la luce degli occhi di tutti loro e il loro orgoglio.
C’è una mia foto, scattata quando avevo appena qualche ora di vita, che mia madre aveva fatto ingrandire e incorniciare. Giacevo avvolta in una copertina di cotone chiaro, minuscola e silenziosa, con il viso tutto schiacciato e un po’ bruttino. Infinite volte mia madre, davanti a quella foto, mi raccontò del giorno della mia nascita, di mio padre che sembrava impazzito e dell’eccitazione di tutti i miei nonni che per dieci ore non si schiodarono dall’ospedale.
Dall’istante in cui io venni al mondo, per me era pronto il loro disegno di amore, protezione, insegnamenti, progetti e ambizioni.
È normale volere il meglio per chi amiamo, lo si fa sempre, questo. Con i figli soprattutto. Ma in realtà, disegnare il futuro è una competenza che non appartiene completamente a nessuna creatura sulla terra.
Spesso ci sforziamo di avere un piano preciso e articolato per la nostra vita pensando di poterne avere il controllo. Poi ci ritroviamo inevitabilmente spaventati, impotenti e disarmati quando la strada risulta diversa da come la immaginavamo.
Il nome che scelsero per me i miei genitori è Annabella.
Ma il mio nome è Khadija.
Parole nuove
-Annabella vai a lavarti le mani e vieni a tavola che è pronto! Non te lo ripeto più!
Al terzo imperativo richiamo di mia madre tornai all’improvviso nel mondo reale. Le prime due chiamate, in realtà non le avevo sentite per niente. Mi trovavo nella mia cameretta dove trascorrevo la maggior parte del tempo. Una stanza preparata per me con tanto amore dove tutto era fondamentalmente rosa, dalle pareti al tappeto, il lampadario, le tende, le lenzuola. Una fiabesca cornice rosa in cui si insinuava una quantità imbarazzante di giocattoli. Erano tutti giocattoli in perfette condizioni, praticamente nuovi, alcuni ancora in scatola chiusa perché non li adoperavo. Io giocavo sempre e solo con Camilla, una vecchia bambola di stoffa dalla quale non mi separavo mai, comperata ad un mercatino di beneficenza della mia parrocchia. Camilla era amica, figlia, compagna di avventure, custode di ogni mio segreto e conforto nel buio e nel silenzio della notte.
Camilla e io quel giorno eravamo impegnate a sistemare le cose nuove che i miei genitori mi avevano preso per la scuola: una cartella e l’astuccio coordinato, quaderni, matite colorate, pennarelli, gomme da cancellare, temperamatite. Tutte queste cose avevano un profumo particolare. Non so descriverlo bene, sapevano di legno forse, o inchiostro o forse era la grafite. Mi chiedo se la grafite abbia davvero un profumo. Anche i quaderni profumavano. Ricordo che aprivo uno ad uno quei quaderni e ci infilavo la faccia dentro per respirarli un po’.
La mia cartella, che non era uno zaino ma piuttosto una specie di valigetta, era appoggiata sulla sedia accanto alla finestra e sembrava quasi sorridermi, con il suo rosa tenue e tante piccole ciliegie lucide e allegre. Era rigida, ben squadrata, con le fibbie dorate e scintillanti. Aveva un’aria un po’ retrò, come se fosse uscita da un altro tempo. La maniglia, perfettamente centrata sul dorso, sembrava invitare a prenderla e partire per un sogno. Sapeva di nuovo, di buono, di un nuovo inizio.
Tutti questi profumi in qualche modo restarono permanentemente impigliati sulle mie narici. E ad ogni inizio anno scolastico, venivano prepotentemente richiamati avvolgendomi come un abbraccio. Una carezza invisibile capace di rendermi lucidi gli occhi. Ed è così ancora oggi. Mi è sufficiente entrare in una cartoleria e respirare. Bellissimo.
Ma torniamo a noi.
Ero davvero emozionata, mancava meno di una settimana all’ inizio della scuola e il mio unico ed insistente pensiero fisso era riuscire finalmente a imparare a leggere. Mi chiedevo quanti giorni di prima elementare sarebbero stati necessari per poter leggere da sola un libro.
-Annabella! Conto fino a tre!
Arrivai correndo.
-Fammi annusare quelle mani!
Uno dei più bei ricordi di mia madre è quando mi prendeva le mani ancora umide. Se le metteva sotto il naso, inspirava profondamente, sorrideva e le baciava.
-Perché devi fare arrabbiare tua madre? Ti ha chiamato quattro volte! Sei grande ormai, una signorina… domani è anche il tuo compleanno, cerca di fare la brava!
Mio padre non era credibile quando cercava di rimproverarmi, si sforzava di essere rigoroso con me, ma prevalevano sempre tenerezza e dolcezza.
Il mio compleanno lo avevo dimenticato, ero troppo concentrata a fantasticare sul primo giorno di scuola. E pensare che per la prima volta avevo osato delle pretese sui regali che avrei ricevuto. Da mesi chiedevo di avere in dono libri e soltanto libri al posto di altri giocattoli con cui non avrei mai giocato. Ne desideravo davvero tanti, perché presto avrei imparato a leggere e volevo essere certa di avere abbastanza libri a disposizione.
Dopo pranzo tornai rapidamente nella mia nuvola rosa a sistemare tutte le cose nella mia cartella e come di consueto, sprofondai nel mio mondo e nei miei pensieri, dove voci e rumori esterni risultavano sempre tanto lontani e ovattati. Io creavo il mio posto, le mie storie. Ero una principessa sempre, in epoche e luoghi ogni volta diversi ma non definiti. Del resto tutte le favole che mi venivano lette e raccontate parlavano di principesse ed eroi, di personaggi cattivi che sempre venivano sconfitti e del lieto fine che era scopo centrale di tutto.
Quel pomeriggio accadde qualcosa che fece vacillare quel mondo sicuro e felice.
-Paola vieni qui, corri! Mio Dio che disastro!
Quella sfumatura strana e sconosciuta della voce di mio padre mi spaventò. Lo sentii chiamare mia madre molto agitato. Lui era sempre pacato e gentile… e quel suo tono allarmato e preoccupato fu per me una cosa nuova che attirò la mia attenzione. Uscii dalla mia stanza con il cuore che batteva forte e andai a sbirciare. Restai nascosta, forse per la paura.
-Cosa è successo Matteo? Un’esplosione?
Mia madre raggiunse mio padre e si sedette accanto a lui con una pentola ancora bagnata fra le mani. Bocche aperte e occhi spaventati mentre guardavano la televisione.
-Aerei contro le torri gemelle.
Mio padre non disse altro. Il suo silenzio era più che sufficiente per spaventarmi.
Le parole confuse del cronista erano davvero tante e concitate, ma quelle che rimasero impresse nella mia mente erano tutte nuove.
Terrorismo.
Islam.
Guerra.
Paura
Morte.
Buon compleanno!
Mamma e papà, nonna Rita e nonno Giulio, nonna Sara e nonno Stefano erano tutti attorno al tavolo in salotto a cantarmi a squarciagola gli auguri. Sei candeline rosa su una torta a forma di cuore.
Palloncini e regali. Mi sentivo soddisfatta e grata.
Ho un ricordo molto nitido di quel compleanno con la mia famiglia, un giorno che, nonostante i tristi eventi del giorno prima che mutarono il corso della storia, molto più di quanto si potesse realmente comprendere, era per me un momento felice.
Quel giorno non lo sapevo, ma fu uno degli ultimi in cui io ebbi la possibilità di avere l’intera mia famiglia con me, perché nei dodici anni successivi, con cadenza quasi costante, persi, uno ad uno, ognuno di loro.
Al mattino i miei genitori vennero a svegliarmi insieme. Un meraviglioso abbraccio a tre. Ebbi il mio primo regalo. Una catenina d’oro con un ciondolo.
-È la mano di Fatima, simbolo di protezione. Così, ora che inizierai la scuola elementare e trascorrerai meno tempo con noi, questo ti ricorderà che noi saremo sempre accanto a te, tenendoti per mano.
Mai più tolta quella collana dal collo.
I miei genitori credo abbiano scelto quel ciondolo solo su consiglio dell’orefice di turno. Probabilmente sentire la parola protezione li aveva convinti. Del resto proteggermi era uno degli scopi della loro vita.
Non immaginavano allora quanto, indossare quella collana negli anni, avrebbe significato sentirli per davvero accanto a me sempre.
Mia madre preparò un pranzo esagerato durato credo un paio di ore.
L’argomento a tavola fu inevitabilmente ciò che il giorno prima era accaduto dall’altra parte del mondo.
Non erano argomenti in cui io potevo entrare…
Discutevano di un mondo sconosciuto e usavano parole difficili. Avrei avuto così tante domande da fare ma ascoltavo in silenzio cercando di capire.
Il giorno del mio sesto compleanno, sentii per la prima volta nominare Dio.
Capii che in molti credono nella sua esistenza ma anche che non è lo stesso per tutti. In molti non credono che esista davvero. Chi crede in Dio crede anche che abbia creato noi e il mondo.
Collegai un po’ di cose che già conoscevo.
Gesù, Natale, presepe, Pasqua, chiesa.
Tutto iniziò ad avere un qualche senso come quando metti insieme i pezzi di un puzzle.
Mi raccontarono che il nostro Dio era buono e che alcune persone, in nome di un Dio diverso, avevano guidato degli aerei contro edifici piene di gente. Tantissime persone morirono. Questo avrebbe portato ad una guerra. Poi ancora sentii dire che l’Islam è pericoloso, e che le donne, in questa religione, sono una proprietà degli uomini, costrette a vestire lunghe tuniche fino ai piedi e nascondere capelli e volto.
Nonno Giulio disse che il terrorismo era una cosa spaventosa ed insidiosa che nasceva nel silenzio, si nascondeva per poi uccidere.
Tante parole nuove e concetti sconosciuti.
Non sapevo nulla riguardo la morte prima di allora.
Mentre seguivo i discorsi a tavola guardavo in televisione i due grattacieli.
E mentre una torre già fumava l’altra veniva colpita da un altro aereo. Si vedevano persone lanciarsi dalle finestre, nel vuoto, per sfuggire alle fiamme. Poi il crollo prima di una e poi dell’altra torre. Un’enorme nuvola di detriti si elevò al cielo ed era ben diversa dalla mia nuvola rosa d’amore in cui vivevo.
Era una nuvola grigia di morte.
Il pomeriggio trascorse troppo velocemente. Un pacchetto alla volta scartai i miei regali saltellando di gioia. Intorno a me tanti sorrisi stampati sui volti delle mie persone preferite.
Poi arrivò il momento dei saluti. Il giorno del mio compleanno stava per giungere al termine.
Qualche meraviglioso istante fra le braccia dei miei nonni e pochi secondi di occhi negli occhi che non scorderò mai.
-Ci vediamo domani!
Come se l’abitudine di vedersi quasi ogni giorno fosse una cosa ovvia e scontata, quando invece, imparai negli anni, è sempre un dono.
Nel mio letto quella sera, prima di addormentarmi, per la prima volta, senza in realtà sapere cosa stavo facendo, pregai.
-Grazie Dio per questa giornata. Non so chi sei e prima di oggi non sapevo che esistevi. Se tu davvero esisti e ci hai creato non capisco perché hai permesso ciò che è accaduto ieri. Perché non hai fermato quegli aerei? Ho bisogno di capire. Puoi parlare con me e spiegarmi, per favore? Esattamente… chi sei tu?
Non ottenni alcuna risposta, non sentii nessuna voce.
Pensai allora che, forse, questo Dio fosse solo un personaggio inventato come i personaggi delle favole.
Mi addormentai.
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