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Quel che resta

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Tutto cambia in pochi istanti, un attacco improvviso e inaspettato in una piccola città, quello che resta è il valore importante che questa storia racconta: quattordici vite. Una di loro è quella di Wendy, che viene ritrovata ancora viva dentro un vecchio armadio di famiglia in pesante ferro battuto. Il suo corpo è dolorante ma miracolosamente intatto: sta bene, è viva… ma ora tutto è cambiato. Lei non è più la stessa: qualcosa della sua essenza potrebbe essere rimasta chiusa in quell’armadio? Intanto, le vite dei sopravvissuti si uniscono e si sostengono per accettare quello che è andato perduto e ritrovare un nuovo senso in questa esistenza: ricominciare e ricostruire la città. La vicenda si complica quando Wendy salva un soldato ancora vivo dalle macerie: non tutti accettano il gesto della giovane; la rabbia e il dolore sembrano trasformare le persone… Eppure c’è ancora molto da scoprire sulle ragioni dell’attacco, e le risposte potrebbero essere riposte proprio nel milite ignoto.

Perché ho scritto questo libro?

“Quel che resta” mi ha dato l’occasione di riflettere profondamente sul valore dei sentimenti e sull’imprevedibilità della vita. Come la protagonista nel suo armadio, anch’io ho lasciato una parte di me tra queste pagine. Di certo c’è la speranza di offrire una riflessione sincera sull’instabile equilibrio del mondo in cui viviamo e su tutte quelle cose che spesso trascuriamo, ma che in realtà hanno un valore inestimabile nelle nostre vite.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Prologo

A volte, quel che resta è solo lo scarto di una vita, una briciola così piccola che non basta per riempirti il respiro.

A volte, quel che resta è davvero così poco che non ti rendi conto neppure di farne parte.

Ma ora che ci penso, sapere di essere quel poco che resta vuol dire ammettere che è tutto cambiato, che si è perso tanto, che pesa troppo, che non sai come però ancora ci sei, ci sei e non sei convinto se sia giusto o no.

Però ci sei, sei proprio qui. Tra quel che resta.

L’armadio

Quando guardi una scintilla di luce pensi subito ad una stella, non di certo alla morte. È uno sbaglio comune per chi non ne ha mai vista una.

Uno sbaglio da cui si impara in fretta, esattamente una frazione dopo aver visto quello scintillio.

Impari che qualsiasi fiaccola di luce che nasce dalla terra non è altro che la fine.

Ne puoi avere la conferma un’altra frazione di secondo dopo, quando arriva l’esplosione e il ruggito furente della bomba.

*

Mio padre aveva sempre odiato l’armadio della nonna e aveva cercato di buttarlo un’infinità di volte, provava in tutti i modi a convincere mia madre a comprarne uno nuovo.

In effetti, l’armadio della nonna era grosso ed imponente. Lavorato in ferro battuto e laccato di un verde scuro, il guardaroba riportava in rilievo foglie e rose rampicanti.

Un po’ fuori dal comune, decisamente di altri tempi.

Mio padre alla fine si rassegnò, dicendo che quell’armadio era così resistente che neanche il tempo l’avrebbe convinto a rompersi…

L’armadio della nonna era maledettamente resistente…

Per mia fortuna.

Quando mi svegliai la polvere mi seccava la gola, il mio corpo era indolenzito e ogni movimento faceva male.

La testa era un’esplosione confusa di pensieri, di immagini.

Quando aprii gli occhi, era tutto buio.

Tentai di respirare ingoiando anche la polvere.

Era buio, ma sapevo dove mi trovavo.

Ero dentro l’armadio, qualcuno mi ci aveva spinta dentro: qualcuno che aveva capito prima di me.

Una voce.

Un’ eco.

Forse c’era qualcuno.

Iniziai a battere sul metallo, il più forte possibile.

L’armadio si era rovesciato e le ante poggiavano al suolo, era troppo pesante.

Non sarei mai riuscita ad uscirne da sola.

Mi mancava l’aria. Chiusi gli occhi e probabilmente persi i sensi perché quando li riaprii mi ritrovai fuori dall’armadio, all’aria aperta: respirai a pieni polmoni; ma anche lì, l’aria sapeva di fumo e polvere.

«Wendy parlami», le vigorose braccia del nerboruto cuoco della cittadina, Roland Piko, mi scuotevano con forza.

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Misi lentamente a fuoco i suoi occhi dal taglio rotondo e il suo volto morbido.

«Bene, sto bene», dissi in un filo di voce.

Mi strinsi le braccia mentre Roland mi lasciava andare e gradualmente testai il mio equilibrio, mi reggevo ancora in piedi.

«Se tua madre non avesse usato quel macigno come attaccapanni nel ristorante saresti morta».

Mi guardai intorno, disorientata.

Leggera come la nebbia, la polvere era calata su tutto, anche sul cielo.

Non c’era più niente che riconoscessi: solo rovine, cumuli di macerie, frammenti distorti di case e vie. E silenzio, un silenzio innaturale, agghiacciante.

Un silenzio desolato e cupo trascinava nell’ombra della morte i lembi spogli di pochi muri solitari, ancora in piedi ma ormai privi di senso.

«I miei» sussurrai, afferrando le grosse braccia di Roland. Lui non rispose, non riusciva nemmeno a guardarmi.

Caddi a terra e restai abbracciata al mio corpo, dondolando leggermente, scossa da singhiozzi privi di rumore.

Forse piangevo, ma senza emettere alcun suono: non c’era neppure bisogno che il dolore si sentisse, c’era e basta, c’era ed era dappertutto.

«Non sei sola, alcuni si sono salvati. Devi andare nel sottoscala di Jonas, lì è sicuro e c’è acqua, cibo e anche un bagno funzionante per ripulirsi».

Non riuscivo a sentire, un fischio mi stordiva le orecchie e mi penetrava il cervello.

«Ti prego», supplicai incredula al cielo, la polvere riempiva l’aria e io la respiravo sentendone il gusto invadermi la gola, posarsi sul cuore.

«Ti prego».

Le mie mani si posarono a terra, incontrando una superficie morbida.

Abbassai di scatto lo sguardo verso destra, accorgendomi che la mia mano si era posata sopra il palmo aperto di un’altra mano. La strinsi: era ancora calda.  Mi avvicinai carponi e appoggiai delicatamente indice e medio sul collo dello sconosciuto.

«È vivo», esclamai rincuorata che in quel luogo ci fosse un altro sopravvissuto.

«Ci penso io», affermò Roland, frugando nelle tasche in modo impacciato.

«Ha perso i sensi, ma non è ferito gravemente» constatai e in quel momento mi accorsi della divisa che indossava o almeno ciò che ne rimaneva, e nello stesso istante sentii lo scatto metallico di una pistola.

Osservai le mani del cuoco più buono del mondo stringere nervosamente una pistola.

«Avrai quel che meriti, bastardo», la sua voce era cupa come petrolio liquido e vischioso.

Teneva la canna metallica puntata su quel corpo inerte.

«Va all’inferno».

«NO!» mi gettai sul milite ignoto, facendogli scudo con il mio corpo.

*

Roland lasciò cadere il corpo del soldato a peso morto sul tavolo.

«Questa è la tavernetta di Lussy Mardok, il secondo luogo sicuro nel caso avessimo bisogno di più spazio» spiegò, afferrando una corda spessa e annerita per legare l’uomo al tavolo con brutalità.

«Gli altri sono tutti da Jonas, non la prenderanno bene… Come ho fatto a farmi convincere?!» esclamò con disappunto.

«Comunque… Qui ci sono i medicinali di primo soccorso, laggiù c’è un piccolo bagno…. Perché ci hai messo in questo pasticcio poi…» aggiunse, scuotendo la testa.

«Curo le ferite più gravi, poi vengo ad aiutarvi» risposi, ignorando la domanda.

Il cuoco sollevò lo sguardo, guardandomi con preoccupazione.

«Ascolta, se ti fa sentire meglio resta qui a prenderti cura di questo… essere, ma ti avverto: se muore, non soffriremo. Solo fa’ attenzione e non uscire, non adesso e non in questo stato».

Mi chiesi che stato potessi avere ma non ci pensai molto, perché notai che gli occhi del cuoco si arrossarono all’improvviso.

«Siamo abbastanza per cercare i superstiti».

«Ma… Roland» protestai, volevo esserci.

«Niente ma! Lì fuori in questo momento la vita pesa più della morte, ci sono troppi volti che il cuore riconosce», il suo tono non ammetteva repliche.

Annuii, sentendo la tristezza divorarmi da dentro: non faceva male né sentivo lacrime rigare il mio volto.

«Quando tornerò, andremo dagli altri e dovrai provare a parlarne con loro, ma non ti assicuro che verrà risparmiato, devo ammettere che neanche io capisco perché ti ho assecondata»,

«Perché sei una brava persona», dissi con fermezza.

«Beh… forse. Non slegarlo e prendi questa» concluse, rimuovendo dal fianco del soldato la pistola. Mi prese le mani e nel consegnarla me le strinse: era metallo gelido insensibile.

«Assicurati che non abbia altre armi».

Annuii e lo lasciai che scomparisse oltre le scale, mentre borbottava sempre le stesse frasi, in un mondo di polvere.

Osservai il nero metallo tra le mie mani con un brivido di disgusto nello stomaco.

Presi un sacco nero e vi gettai dentro l’arma., Subito dopo, passai in rassegna il corpo del soldato: non avrei gradito altre sorprese dello stesso genere.  Trovai due coltelli a serramanico negli stivali e alcune munizioni nella cintura. Infilai tutto nel sacco e lo nascosi sotto terra, scavando una buca appena fuori dal rifugio.

La nostra cittadina non aveva mai visto accadere simili atrocità, neppure un coltello era mai stato usato per uccidere un uomo.

Non eravamo abituati alla violenza, anche se non potevamo definirci dei santi e baruffe e scazzottate certo non mancavano. Nessuno di noi…di tutti noi aveva mai visto tanto sangue, non avevamo mai assistito ad un tale massacro.

Pestai con rabbia autentica la terra con la quale avevo ricoperto quegli strumenti di morte: avrei distrutto quelle armi, le avrei distrutte con piacere il prima possibile!

Dopo aver formulato tale proposito, tornai nella tavernetta e andai in bagno, osservando senza riconoscerlo il mio riflesso allo specchio.

Un viso sconvolto che non ricordavo fosse il mio.

Aprii il rubinetto e per fortuna, come aveva detto Roland, le tubature erano ancora funzionanti, l’acqua gorgogliò dapprima scura e poi via via più chiara e limpida.  Mi sciacquai ripetutamente il viso e la pelle tornò ad essere chiara, persino pallida.

Lavai anche i capelli, che si erano fatti bianchi di polvere. Quando anche loro tornarono al loro naturale colore nero corvino, il mio viso mi sembrò ancora più bianco.

Pensai che avrei potuto anche essere morta e che, senza saperlo, sarei tranquillamente potuta essere un fantasma.

Provai a pizzicare con le dita la pelle del viso per provarne la consistenza e poi scossi la testa.

Non era un fantasma, la persona che in questo momento contemplava con orrore la propria immagine allo specchio della tavernetta di Lussy Mardok: ero però un riflesso spaventoso di me.

«È una tipa tosta, mia nipote», diceva sempre mio nonno… già. Forse proprio grazie a lui mi ero sempre sentita forte, ma la verità era che adesso mi sentivo sull’orlo della pazzia, mi sentivo come una foglia strappata al suo albero prima del tempo, trascinata da un tornado. In piedi sull’orlo del precipizio, mi aggrappai a quel senso di lucidità che ancora avevo.

Sciacquai un’ultima volta il viso prima di tornare nella saletta che faceva da cucina e salottino.

Il corpo del soldato era serrato al tavolo, inerte e privo di sensi.

Sapevo cosa dovevo fare e mi avrebbe tenuto la mente abbastanza impegnata da non permettermi di pensare troppo.

Presi delle forbici e tagliai la corda che legava il soldato.

Ero stufa di fare da carceriere.

Tagliai la giacca militare chiedendomi quante stelle appese fossero necessarie per massacrare gente innocente.

Tagliai anche la canotta, togliendola con delicatezza e attenzione dove il tessuto si mischiava con la carne e il sangue.

Le ferite che aveva erano nette, lineari e non sembravano gravi. Solo una, all’altezza del cuore, era più profonda e pareva che il colpo fosse stato accuratamente inferto.

Disinfettai e ricucii con ciò che trovai sbirciando qua e là.

Non era da me toccare ferite sanguinanti e non so da dove venisse questa nuova fermezza che guidava le mie dita, ma non mi fermai troppo a esaminare questa stranezza.

Coprii le ferite con garze e cerotti, mi accorsi che anche la gamba destra era ferita, ma non avevo alcuna intenzione di togliergli i pantaloni. Allora tagliai il tessuto di entrambe le gambe della divisa assicurandomi che non ci fossero altre ferite nascoste. Sistemai anche quei traumi e poi mi asciugai la fronte, sfinita.

Mi appoggiai esausta al tavolo e, senza che me ne potessi accorgere in tempo, il braccio del soldato scivolò inerte andando a sbattere contro la gamba di legno del tavolo.

Il rumore che provocò fu metallico e innaturale, mi fece sobbalzare.

Il braccio non aveva alcuna ferita e io mi ero concentrata totalmente su di esse, senza notare altro.

Pensavo fossero tutte bugie, esagerazioni che raccontavano gli adulti per spaventare i bambini.

Con esitazione mi avvicinai e toccai la sua mano, sfiorandola con le dita e poi stringendola. La tirai su riponendo il braccio sul tavolo: era più pesante del dovuto.

Anche il colore della pelle era più chiaro rispetto al resto del corpo, ma la cosa più inquietante era il tenue calore che emanava, quasi raggelante.

Si trattava di qualche diavoleria tecnologica, e mi dava orrore.

Non riuscivo a immaginare che un uomo potesse accettare una tale modifica al proprio corpo, ma era evidente che qualcuno ne fosse entusiasta. Quanta gioia, quanto progresso militare… Quanta morte.

Toccai le cartilagini e il polso chiedendomi se gli avesse fatto male quando il liquido semi metallico gli era stato innestato dentro, sopra le ossa, se avesse sofferto mentre il liquido si solidificava rivestendo lo scheletro del braccio e della mano.

Seguii con lo sguardo i muscoli dell’avambraccio fino alla spalla e mi resi conto che in quel punto la fusione con quel metallo si arrestava.

L’effetto di un pugno sferrato da quel braccio semi metallico sarebbe potuto essere, in alcuni casi, persino letale.

Ma a quale prezzo?

Mi chiesi se quel liquido non facesse perdere gran parte di sensibilità al tatto, il che non sarebbe stato un piccolo svantaggio. Non poteva trattarsi di un novellino, ma nemmeno di un soldato esperto, che non avrebbe mai accettato quel rischio.

Presa dal dubbio aprii la sua bocca ma non vi trovai capsule di veleno, i denti erano tutti intatti e naturali.

No, non era un soldato alle prime armi, anzi, tanto sicuro di sé da non permettere al nemico di fargli sputare sangue.

Notai una lastra di cinque millimetri circa sul palato, ne avevo sentito parlare.

I soldati non dovevano mangiare, e quella placca sottraeva il senso di fame e rilasciava le sostanze proteiche di cui il corpo necessitava per sostentarsi.

Presi le forbici e premetti un piccolo pulsante sulla placca, i ganci metallici come piccole zampette di ragno si ritrassero dalla carne.

Rabbrividii. Non potevo credere che quella cosa non danneggiasse l’organismo umano, era del tutto innaturale.

La estrassi e la posai delicatamente su una mensola.

Quando mi voltai nuovamente verso il soldato, notai il suo viso per la prima volta, lo osservai con attenzione accorgendomi che sul tavolo non c’era solo un corpo da curare, c’era una persona.

Passai le dita tra i suoi capelli e si alzò una nuvola di polvere. Allora presi una bacinella d’acqua e con degli stracci iniziai a lavarla via. Erano capelli folti e neri, più lunghi di quelli dei soldati appena partiti, pensai che doveva essere in battaglia già da tanto.

Passai l’acqua sui lineamenti del volto eliminando ogni traccia di fuliggine e riportando alla luce zigomi, fronte e mascella, il naso e la bocca sottile.

Accarezzai con la punta delle dita la sua fronte scostando una ciocca di capelli. Prima che potessi trasalire mi afferrò il polso, troppo veloce per capirne i movimenti, mi ritrovai con la schiena contro il suo petto e il braccio freddo stretto sulla mia gola. Per istinto, con la mano libera tentai di scostarlo per non soffocare, ma la mia forza non era compatibile con la sua, forse neanche aveva sentito la mia mano sulla pelle.

L’altra mano era bloccata dalla sua calda, mi stringeva il polso.

Con stupore mi accorsi di essere lucida e di non avere alcuna paura.

Forse ne avevo avuta così tanta in un solo giorno da non riconoscerla ma non era possibile, perché il mio respiro era regolare.

Sentii il suo fiato e la sua bocca vicino all’orecchio.

«Non gridare, perché prima che tu ci riesca potresti essere già morta» si scostò leggermente per vedere se avrei annuito: lo feci.

«Siamo in un laboratorio d’accampamento?» mi chiese, senza mollarmi.

«No», risposi. Si guardò intorno e poi mi strattonò come a dire che non se la beveva.

«Che schifezze hai messo nel mio corpo?» ringhiò.

«Niente. Ci hai già pensato tu a rovinarlo» sussurrai, scoccandogli uno sguardo disgustato.

«Spiritosa» ribattè, ma questa volta ebbi la sensazione che mi avesse creduto. «Ti ho solo curato», aggiunsi. Il suo viso sorpreso si chinò per esaminarsi.

«Dove siamo, allora?»

«In una tavernetta ancora in piedi»

«Dove sono i vostri soldati?»

«Non ne abbiamo» esclamai, la domanda mi stupì tanto quanto la mia risposta lasciò incerto anche lui. Stava riflettendo, ricordando qualcosa…

«I tuoi compagni se ne sono andati»

Emetté un suono sommesso di rabbia.

«Non dovevo fidarmi, figlio di pu…»

«Hanno lasciato ben poco» il mio sussurro lo bloccò.

«Le mie armi» si voltò a guardarsi intorno, tenendomi sempre ben serrata a lui.

«Dove le hai messe?»

«Le ho sepolte», risposi.

«Tu… cosa?» esclamò incredulo, fu di nuovo rapidissimo e mi trovai contro un davanzale con la sua mano sempre stretta al polso e il suo avambraccio gelido sulla gola.

«Le hai seppellite?» il suo sguardo era esterrefatto ma la mia faccia confermò la verità. Sorrise divertito e io notai i suoi occhi con chiarezza, per la prima volta.

Li fotografai nella mente: erano grigio chiaro come il metallo, algidi come il metallo.

«Le distruggerò», aggiunsi.

«Civili» disse con scherno, alzando un sopracciglio, lo sguardo attratto da qualcosa.

«Oh no, questo non dovevi toglierlo», mi lasciò libera come se non rappresentassi ormai alcun pericolo.

«Fa male, lo sai, quando lo fissi nel palato» affermò, mentre prendeva la placca sulla mensola e apriva la bocca.        

Questa volta fui io ad essere rapida, afferrai la placca dalle sue mani e la lasciai cadere a terra pestandola in modo deciso col piede.

Avevo agito senza pensare e compresi il mio gesto solo quando ormai l’avevo compiuto.

Anche lui non si aspettava quella mia reazione, altrimenti mi avrebbe fermata.

Per un secondo entrambi i nostri volti restarono fissi sulla mia scarpa.

Quando incontrai i suoi occhi aveva un sopracciglio piegato: per la prima volta mi guardò davvero, poi la rabbia cedette il posto alla sorpresa.

Il suo braccio freddo mi schiacciò di nuovo la gola.

«Hai idea di quello che hai fatto?!» ruggì.

«Dovresti mangiare qualcosa» sibilai, ma lui non apprezzò l’ironia.

Serrò ancora di più la presa sulla mia gola e mi tolse il respiro: il mio corpo sembrava aderire alla credenza quasi come se stesse per fondersi con essa. Neanche in quel momento però ebbi paura.

«Avrei raggiunto i miei uomini in tempo, avrei raggiunto i miei soldati se tu non… MANGIARE» pronunciò quest’ultima parola come se lo disgustasse.

«Stupida civile».

«Lasciala», la voce di Roland ci colse di sorpresa, il soldato ed io eravamo troppo in collera per sentire i passi del cuoco.

Aprii gli occhi mentre la sua stretta si allentava e inspirai, i suoi occhi ancora piantati nei miei.

«Lasciala», la pistola nelle mani di Roland tremava, era così insicuro con quell’arma che il soldato pareva aver letto il timore nei miei occhi. Si aprì in un sorriso.

Il soldato rise sicuro di sé e mi lasciò di scatto. Mancò poco che non gli crollassi addosso per il repentino cambiamento. Ripresi l’equilibrio mentre la stretta di Roland sulla pistola si faceva sempre più debole.

«L’ho lasciata e adesso?» provocò il militare.

«Roland, non sparargli» lo pregai. Il soldato mi scrutò con una indecifrabile espressione, forse si aspettava che mi massaggiassi la gola o che ansimassi, ma in realtà non provavo dolore.

Forse ero davvero un fantasma, dopotutto.

Il soldato si avvicinò a Roland.

«Fermo!»  gli ordinò lui, ma l’uomo gli sorrideva avanzando.

«Fermo, ho detto!».

Roland non era un assassino e il soldato lo sapeva.

Gli tolse di mano la pistola con un gesto deciso.

«Questa la prendo io» lo schernì soddisfatto.

«Civili» grugnì, mentre avanzava di un passo verso l’uscita. Roland fece roteare il suo coltello da cucina, quello con la lama seghettata, e glielo puntò al collo. L’entusiasmo del soldato si spense e fissò lo sguardo fermo e sicuro di Roland: le sue mani non tremavano ora.

«Leva la lama dal mio collo o lei muore» lo minacciò, il braccio disteso, l’arma puntata dritto verso di me.

«Le spareresti?», chiese il cuoco scrutandolo negli occhi.

Il soldato non si voltò a guardarmi, non aveva alcuna importanza, la sua risposta fu il suono sordo della pistola.

Nessun colpo uscì da quell’arma ma io lo sentii nello stomaco.

Il soldato osservò la pistola con distacco poi Roland scoprì la mano sinistra rovesciando a terra i proiettili.

Il soldato annuì riconoscendogli quella vittoria, lasciò cadere a terra la pistola e guardò il soffitto avvicinandosi alla lama.

«Su allora, forza» lo incitò.

«Legalo, gli altri lo vogliono vedere» mi disse Roland. Io non esitai ad obbedire, recuperando della corda.

«Cosa?»

«Tu sta’ zitto».

«Non mi uccidi? Ma dove sono finito?».

«Taci!».

Il soldato portò le mani dietro la schiena e io gliele legai.  L’uomo si voltò appena per lanciarmi una risatina beffarda.

«Soldati», sibilai, imitando il tono canzonatorio che aveva usato ripetutamente con me. Lui sbuffò e io ne fui soddisfatta.

*

Fuori dal rifugio dei Jonas c’era qualcuno ad aspettarci, naturalmente non avrebbero lasciato che il soldato scendesse al coperto insieme ai superstiti.

Quando arrivai di fronte a Ryan abbozzai un sorriso e lui rispose al mio con una felicità molto più intensa della mia. Era sempre stato più bravo in tutto.

«Non sapevo dov’eri, speravo che… sono davvero felice di vederti» mi disse entusiasta.

Il suono di una risata risuonò nell’aria, era il soldato.

«Oh… scusate, continuate pure» si giustificò sarcastico.

«Perché, Wendy?» l’espressione di Ryan si indurì guardando il soldato.

Io e Ryan eravamo cresciuti insieme. Compagni di scherzi, ci divertivamo a correre e a giocare per tutta la città. Lo conoscevo come una sorella conosce il proprio fratello.

«Non importa ora» gli risposi, scuotendo la testa.

Gli occhi castani di Rayan tornarono buoni come sempre.

«Grazie a Dio sei vivo», aggiunsi. Avrebbe voluto abbracciarmi, ma in quel momento dietro di lui una porta si aprì.

Grande Jonas uscì col suo barbone e il viso teso ma quando mi vide mi posò una mano sulla spalla facendo un cenno con la testa.

Dietro di lui comparve Donald: sorrisi all’uomo che tutti chiamavano Il Saggio benché avesse solo una trentina d’anni. Il mio maestro di lettere mi strinse forte.

Dietro di lui, con un braccio fasciato e l’andatura claudicante ci raggiunse il vecchio Ben, l’autorità più alta per anzianità. Sapevo che spettava a lui decidere. La sua esperienza e la sua caparbietà lo rendevano la persona più adatta a quel compito.

Se avessi convinto Ben, avrei ottenuto il favore di tutti gli altri.

Margaret uscì per ultima. Conoscevo la panettiera del villaggio da una vita e la sua lingua salvava ben pochi dai suoi chiassosi pettegolezzi.

«Ha provato a sparargli» disse Roland.

Ben annuì. Guardai Donald: doveva essere stato lui a ideare quello stratagemma.

«Allora Wendy, ti sei convinta?» mi domandò Ben.

Scossi la testa incredula.

«Hanno ucciso la nostra gente Wendy, per te non conta nulla?» esclamò con furore Grande Jonas, ma la sua rabbia non era la mia.

«Uccidiamolo». La voce era quella di Rayan: non potevo crederci.

«Rayan», sussurrai incredula.

Lui mi guardò con onestà come era solito, non mi aveva mai mentito prima d’ora:«È un soldato Wendy, ha sterminato la nostra gente e ha provato ad ucciderti, non mi serve pensarci».

«Non puoi essere serio»

«Cosa vuoi Wendy? Che senso ha tutto questo?» chiese Grande Jonas spazientito.

«La ragazza è sotto shock, non penso sia lucida… Sta impazzendo» biascicò dispiaciuta Margaret.  La fulminai con lo sguardo.

«Se può esservi di qualche consolazione, anche io credo sia pazza» affermò il soldato, sotto lo sguardo torvo di tutti.

«Oh scusate… Prego, continuate pure». Scossi la testa incredula: come poteva prendere tutto così alla leggera? Era davvero irritante.

«Non sono pazza. Sono lucidissima e vi dirò esattamente come stanno le cose» Il soldato rise.

Respirai profondamente.

«Lui sapeva che l’arma era scarica» affermai.

«E’ definitivamente impazzita» disse Margaret.

«Hai bisogno d’aiuto» affermò Grande Jonas ma Ben lo bloccò con un gesto della mano.

Tutti si zittirono.

«Perché ora non ridi?» chiese con voce soave Ben, la domanda rivolta al soldato. Quando mi voltai notai per un breve istante che il militare mi stava fissando, i suoi occhi erano ora seri e astiosi.

«Datemi una pistola e le sparo ora» concluse.

«Provaci, brutto bastardo» ringhiò Rayan.

«Silenzio», sibilò Ben, con un tono che non ammetteva repliche.

«Continua pure, Wendy». Il fatto che il capo villaggio volesse ascoltarmi implicava che il soldato, in qualche modo, si era tradito.

«Da quanto sono riuscita a capire quest’uomo è il comandante dell’esercito responsabile di questa operazione, ma ho distrutto la piastra di alimentazione e non potrà più raggiungere i suoi uomini. Loro non torneranno a prenderlo perché le sue ferite erano abbastanza profonde. Inoltre, ha perso i sensi ma deve aver lottato con qualcuno, forse proprio uno dei suoi. È un ottimo combattente e il suo braccio è rinforzato con del metallo.  Qui non c’è nessuno che abbia armi capaci di ferirlo. È solo ed è privo di alleati. Senza di noi morirebbe di stenti e fame».

Dopo il mio discorso era calato un silenzio pieno di tensione, riempito solo dagli sguardi impressionati dei presenti. Perfino il soldato pareva aver perso la verve di poco prima. Forse la mia testa ragionava in modo eccessivamente lucido e razionale per la situazione che avevamo vissuto, perciò tutti esitavano a parlare.

«Se scappa?»

«Non raggiungerebbe il suo esercito.  Conosciamo i boschi intorno alla città, ne conosciamo bene i pericoli, e lui non saprebbe trovare neppure una rana per nutrirsi».

«Allora me la date questa pistola?». Con poca ironia e troppa rabbia, sorrisi a Ben e lui mi restituì uno sguardo serio: «Perché? Per quale motivo dovremmo tenerlo nella nostra comunità? Che cosa vuoi da lui?»

«Chiunque l’avrebbe ucciso» bisbigliò Grande Jonas.

«Ci aiuterà a ricostruire tutto, tutto quello che hanno distrutto».

«Tu sei davvero pazza» ripeté Margaret.

«Per lui sarebbe più comodo se lo uccidessimo, deve aver passato molto tempo sotto le armi … Utilizzare la sua vita per costruire invece che distruggere sarà una condanna e una punizione di gran lunga peggiori»

«Io non sono lo schiavo di nessuno» ringhiò il soldato.

«Lo sentite? È totalmente privo di umanità. Ferire il suo ego è l’unico dolore che gli si può dare».

Ognuno di loro si fermò a riflettere.

«Donald?», Ben chiamò il giovane professore, che sorrise.

«Io ci sto»

«Ottimo, allora aiuterai Wendy a badare a lui»

«Ma Ben…»

«Ormai ho deciso Jonas»

Ben si avvicinò a me con sguardo severo.

«Da adesso lui è una tua responsabilità»

Lo osservai con sconcerto: non mi aspettavo una reazione del genere.

«Legatelo al palo di ferro, lì non ha vie di fuga e staremo tranquilli tutta la notte» concluse Ben, zoppicando fino alla porta dove scomparve seguito da Grande Jonas e da Margaret.

Quando mi voltai, Roland sorrideva.

«Ora sono affari tuoi, l’hai combinata grossa!»

*

«Non hai detto la verità, non tutta almeno» guardai Rayan a testa alta.

«Smettila. Sei nata due case oltre la mia e ti conosco fin troppo bene per capire quando hai qualcosa in mente» era vero. Con lui era sempre stato inutile fingere.

«Tieni i tuoi dubbi per te! Tu intendevi ucciderlo»

Le scale erano buie e io iniziai a scenderle per raggiungere la tavernetta dove tutti erano rifugiati.

«Dai, Wendy… Non fare così»

«Così come?» risposi secca. Lui rimase scioccato dal tono rabbioso che raramente animava la mia voce.

«Sì, voglio ucciderlo Wendy, non me ne vergogno e non mi importa se mi biasimi per questo»

«Non dovresti pensarla come Grande Jonas, non ti è mai piaciuto pensarla come tuo padre»

Mi si piazzò davanti brusco ma senza sfiorarmi, solo per guardarmi in faccia.

«Mi rimane solo lui» i suoi occhi erano rossi.

«Mi dispiace» sussurrai. Qualcosa mordeva il mio stomaco ma non era altro che un lieve fastidio, non c’era alcun dolore che riuscissi davvero a provare.

«Là sotto è rimasto qualcuno anche per te»

Avrei dovuto sentirmi traboccante di gioia a quella notizia, ma in risposta ebbi solo un senso di nausea.

«Io ci sarò sempre per te Wendy, ma non chiedermi di capirti» era tutto quello che poteva darmi in quel momento e io lo accettai.

Scesi le scale sentendo la testa girare: la saletta era più grande di quella di Lussy Mardok, l’illuminazione era tenue; qualche candela qua e là per non sprecare l’elettricità.

Mi feci coraggio ma prima di passare in rassegna i volti qualcuno mi afferrò e mi strinse forte e ne riconobbi all’istante il profumo. Nel frattempo, altre piccole braccia mi strinsero le gambe.

Non sentivo la forza di alzare le braccia e abbracciarle ero troppo sbigottita, non avevo idea di come mi sentissi.

«Penny» bisbigliai, la mia sorella maggiore mi aveva preso il volto tra le mani.

«Oh Wendy… Stai bene, grazie al cielo, grazie a Dio» vedendo il mio volto incredulo mi spiegò come fosse andata.

«Kyle è ferito… Ma si riprenderà. Eravamo tutti fuori casa, per questo ci siamo salvati. Stavamo venendo al ristorante di mamma e papà» iniziò a piangere.

«Ho avuto tanta paura»

«Zia!», un cinguettio mi fece abbassare il viso.

«Miky», il mio nipotino dalla faccia furba mi sorrise con gioia.

«I nonni sono in cielo» mi informò innocente, Penny mi strinse più forte di prima.

«Tu dov’eri zia?»

Deglutii.

«Nell’armadio».

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celestedeagostini
Come descriversi in poche righe?
Non è facile, soprattutto quando la vita ha scompigliato i tuoi piani e ti senti un po’ come un potpourri di fragranze: difficile da definire, ma unico nel suo profumo.
Elencare date, titoli e lavori sarebbe forse la strada più semplice, ma finirei per dire tutto… senza dire davvero nulla. Come molti di voi, (visto che siete qui, su questo sito), vivo d’aria e di lettura infatti i libri sono la mia fonte primaria di energia. Il mio primo romanzo, Memorie di un Dio sconosciuto, è stato pubblicato da Genesis Publishing: un’enorme gioia per me. Ma i miei cassetti sono ancora pieni di fogli scritti e di storie sospese che aspettano il loro momento. "Quel che resta" lo dedico a voi, lettori, perché la sua unicità potrebbe incontrare la vostra. Forse ha dentro di sé un messaggio nascosto solo per voi. A me, questo libro ha regalato una nuova idea di speranza.
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