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Uomini d’onore…l’inizio della fine

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Consegna prevista Luglio 2026

Una storia di mafia che cambia volto con i vecchi codici d’onore che vengono spazzati via da una nuova generazione senza scrupoli. Ma è anche una storia di uomini, di lealtà, di tradimenti, di rimorsi e di redenzione, di amore e passione. La Palermo in quegli anni è una città dove la verità costa cara, e ogni parola può cambiare il destino di chi la pronuncia. Una storia che affonda le radici in una Palermo degli anni ’70, dove la mafia decideva le vite, ma dove alcuni uomini e donne hanno avuto il coraggio di sfidarla. Nel caos di una guerra tra clan, il commissario Tony Bellavia lotta per difendere la città e sé stesso, diviso tra il dovere per la divisa, che in poche occasioni indossa, e l’amore nato all’improvviso per Nina, giornalista d’inchiesta che sfida il potere della malavita. Un romanzo intenso ispirato a vicende reali, che racconta la fine dell’antica mafia dell’onore e l’inizio di una nuova era criminale.

Perché ho scritto questo libro?

È nato tutto dalle riflessioni quotidiane che ti affiorano nella testa, tra una conferenza stampa e un’intervista. Mi sono reso conto che avevo bisogno di capire e raccontare cosa accadde in quegli anni ’70, quando sfociò la guerra tra i clan che lasciò quotidianamente corpi sull’asfalto. Scrivere questo romanzo è stato come tornare a quelle giornate di sirene e di silenzi… dopo le grida e il pianto di quelle madri per aver perso il proprio caro. Così i miei personaggi hanno preso vita.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Uomini d’onore…l’inizio della fine

La metà degli anni ’70 non fu solo un’epoca di transizione per la mafia siciliana; fu l’inizio della sua frattura più irreparabile, segnata da un evento che cambiò per sempre le regole del gioco. Questo avvenne quando le vecchie generazioni dei boss iniziarono a confrontarsi con una nuova ondata di giovani assetati di potere. 

In una masseria isolata tra le campagne della Conca d’oro, molti boss delle famiglie di Palermo si riunirono per affrontare una crisi interna. Da un lato c’erano gli anziani, custodi delle tradizioni mafiose; dall’altro, i giovani progressisti, guidati da un capo ambizioso e assetato di potere. 

Gli anziani erano custodi delle regole non scritte di Cosa Nostra, tramandate di generazione in generazione. I giovani emergenti, invece, armati di Kalašnikov, vedevano nello spaccio di droga un’opportunità di arricchimento rapido. Per loro, molte delle vecchie regole, che avevano appreso negli anni, le consideravano ormai obsolete e superate. Si doveva fare il salto di qualità: dalla mafia contadina a quella moderna con tutto quello che ne sarebbe conseguito. La Commissione provinciale si era riunita con urgenza. A Palermo, i cadaveri dei giovani iniziavano ad accumularsi. Non morti per la guerra tra bande, ma per una droga letale, tagliata malamente, che uccideva a ritmi inaccettabili. L’odore della morte aveva invaso la città, e le famiglie mafiose, abituate alla violenza ma non alla perdita incontrollata, si sentivano minacciate. Questo non era un semplice affare da risolvere con un colpo di pistola. Era qualcosa di più grande: la minaccia di un mutamento che neppure la mafia più anziana riusciva a prevedere. Questi delitti avevano messo in allarme gli uomini d’onore, così si identificavano i malavitosi, e le forze di polizia. 

«Tutti cà sunnu stamatina», sussurrò il giovane picciotto osservando la sala e notando l’arrivo dei capi famiglia. La sua ansia era palpabile: ogni parola pronunciata avrebbe potuto segnare il destino delle famiglie Le sue parole erano cariche di un’inquietudine profonda perché sapeva che quella riunione avrebbe potuto cambiare tutto. 

«Sarà una riunione importante?» chiese l’amico, cercando di non far trapelare l’ansia che stava crescendo in lui. 

«E na’ riunione mpurtanti. Ci sarà puru u ‘Zu Ciccu?» replicò il primo.

Il suo volto si contrasse in un’espressione di stupore mentre pronunciava il nome del leggendario capo, l’unico che avesse il potere di decidere davvero il futuro di tutte le famiglie. La sua presenza, o la sua assenza, avrebbe significato qualcosa di molto più grande di una semplice discussione.

‘U Zu Ciccu non era solo il capo, era il custode delle antiche regole, era il punto di riferimento, la figura paterna che tutti rispettavano. Ogni suo gesto, ogni suo silenzio, portava con sé il peso di decenni di potere incontrastato. Gli altri non lo seguivano per obbligo, ma per la sua capacità di trasformare i consigli in ordini irrevocabili. Non c’era bisogno di elezioni o formalità per riconoscerlo come leader; la sua autorità era naturale, emanata dal suo sguardo profondo e dalla calma con cui pronunciava ogni parola. Anche le sue decisioni non erano mai ordini espliciti, ma consigli che trasmettevano una forza silenziosa e indiscutibile. Quando parlava, non si trattava di una mera direttiva; le sue parole erano come pietre che affondavano nel cuore di chi le ascoltava, trasformando ogni frase in legge. Insomma, era una figura carismatica, rispettata da tutti i boss sia per la sua saggezza e anzianità, ma anche dall’esperienza e da un’intuizione sopraffina che nessun altro boss possedeva. Per molti rappresentava l’incarnazione del potere stesso. Per la sua autorevolezza e sapienza, i capi famiglia accettavano ed eseguivano le sue decisioni perché u ‘Zu Ciccu le porgeva non come ordini ma come consigli che in piena libertà potevano essere accettati o respinti. Molti capifamiglia seguivano da parecchi anni u ‘Zu Ciccu e avevano avuto modo di apprezzare il suo modo di fare. Sempre gentile con tutti, e con un sorriso che seguiva ogni conclusione di discussione, di affare, di incontro. La parola finale del boss era come una sentenza di tribunale. Doveva essere accettata ed eseguita. E tutti seguivano questa regola. 

Quella mattina c’erano tutti i boss dell’intera provincia di Palermo, tranne due: il primo era il capo assoluto, U Zu Ciccu, che, d’accordo con il suo braccio destro, aveva preferito disertare la riunione tranne poi presentarsi; il secondo era quello che aveva provocato l’incontro, quello che aveva provocato la scia di sangue nei confronti di alcuni membri delle famiglie, che non volevano tradire l’attuale governance mafiosa, e tra i giovani morti per overdose: Vanni Pilusu, che per timore di essere eliminato, aveva mandato il suo braccio destro, del quale, però aveva avuto qualche dubbio circa la sua lealtà. Ognuno dei capifamiglia aveva accanto quello che in seguito venne definito il “luogotenente”, che non sostituiva il capo in sua assenza ma era una sorta di uomo di fiducia del boss. 

Fino a quel momento vi era stato un solo cambiamento nella mafia siciliana. In origine esistevano due segmenti: la “mafia del latifondo” e la “mafia dei giardini”. La prima si occupava del bestiame, dei pascoli, e della compravendita dei latifondi. La seconda si occupava principalmente della distribuzione dell’acqua e del commercio della frutta, soprattutto degli agrumi, di cui la Sicilia è ricca. A questi due segmenti venne aggiunto il contrabbando di sigarette e il racket delle estorsioni. Venivano chieste somme di denaro agli imprenditori, ai piccoli negozianti, alle imprese edili, in cambio della promessa di protezione dei cantieri e delle imprese. Il pizzo è uno degli introiti ancora in uso ai giorni nostri e risulta essere di grande profitto per le famiglie mafiose. La richiesta del pizzo consente alle famiglie di affermare il proprio dominio su quel territorio di competenza. 

In quella riunione si sarebbe deciso il futuro della mafia siciliana. Da un lato c’era la vecchia guardia, rappresentata da Francesco Alfano, detto ‘U Zu Ciccu; dall’altro, i giovani boss, le nuove leve, accecati dalla brama di potere e denaro, rappresentata da Vanni Pilusu.

Era una battaglia che non riguardava solo i soldi, ma la stessa natura dell’organizzazione: tradizione contro rivoluzione. I conservatori preferivano seguire le tradizionali regole mafiose non scritte che erano state tramandate di generazione in generazione. Ma la bramosia di potere di Giovanni Siino, detto Vanni Pilusu, cercava di raggiungere un ampio consenso per modernizzare la mafia e renderla più redditizia. Ci aveva provato con le parole, e diversi avevano accettato di seguirlo. Ma quelli che non ne volevano sapere di tradire gli anziani padrini, venivano eliminati. Vanni aveva sfidato la Commissione introducendo il traffico di stupefacenti senza alcun permesso preventivo per dimostrare come ci si poteva arricchire con poca fatica, ma la roba tagliata male aveva provocato diversi morti per overdose e aveva fatto saltare i piani. Il progetto di Vanni, cominciando dal commercio di eroina, prevedeva di portare la mafia nel mondo moderno prospettando un potenziale arricchimento immediato attraverso altre nuove attività criminali, ritenendo che le vecchie regole fossero ormai obsolete. Sul tavolo giaceva il futuro della mafia, un futuro che prometteva ricchezza e potere. I vecchi mafiosi, immersi nelle tradizioni dei loro antenati, volevano mantenere i vecchi modi di realizzare affari, mentre i nuovi mafiosi progressisti volevano abbracciare le nuove opportunità del traffico di droga. Era uno scontro tra culture, ideologie e generazioni, ma soprattutto una lotta per il potere. I vecchi mafiosi sostenevano che lo spaccio di droga era al di sotto di loro, che era immorale e non avrebbe portato altro che guai. I mafiosi più giovani sostenevano che l’intera organizzazione poteva sopravvivere solo se si allargava a nuove entrate di denaro e il traffico di droga, con tutta la ricchezza che prometteva, sarebbe stata la principale strada verso una nuova prosperità che poteva essere immensa dato che la produzione delle sostanze stupefacenti sarebbero state raffinate in Sicilia, un modo per garantire un guadagno centuplicato rispetto allo spaccio solamente. Una tesi sostenuta a gran voce da molti boss emergenti, ma, la corsa al potere di Vanni Piluso, che aveva cominciato a farsi largo a colpi di pistola, avevano determinato di fatto una guerra di mafia. A complicare la guerra tra le fazioni c’era un terzo incomodo: il Commissario Tony Bellavia, noto per il suo inflessibile senso della giustizia. Determinato a fermare la spirale di violenza, Bellavia era pronto a colpire sia i capi che i gregari. 

Come si arrivò a quella riunione, in cui si decise il destino della mafia? E cosa portò all’inizio della fine dell’organizzazione così come era stata conosciuta fino ad allora?

Quella riunione non era solo un incontro tra capi che discutevano di facezie, poteva rappresentare un punto di non ritorno, un campo di battaglia dove passato e futuro si sarebbero scontrati, lasciando sul terreno vincitori e vinti. Con ogni parola pesata prima di essere pronunciata, con ogni decisione che sarebbe stata presa, si tracciava una linea indelebile tra il vecchio e il nuovo, tra il potere consolidato e la nuova era della violenza e della ricchezza facile. Cosa poteva accadere in quella riunione tra i boss? Una cosa era certa. La “Commissione” veniva convocata quando si doveva decidere o comunicare qualcosa di importante per le famiglie. In quell’area dove si sarebbero riuniti i boss era una zona neutra e inviolabile. Nessuno avrebbe mai potuto scalfire questa zona. Nessuno avrebbe mai potuto impugnare un’arma contro un avversario. Si sarebbe autocondannato ad essere ucciso. Ma, nonostante questa regola ferrea, il timore che Vanni potesse infischiarsene come aveva fatto di molte altre regole mafiose, era altissima. Egli stesso temeva per la sua vita. Una cosa era certa: La mafia, come l’avevano conosciuta fino a quel momento, stava per finire, anche se gli interpreti ancora non lo sapevano, e le sue macerie avrebbero segnato l’inizio di un cambiamento che nessuno, nemmeno i più potenti, avrebbero potuto fermare.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Enzo Fricano
Giornalista professionista, nato a Palermo nel 1961, ho attraversato oltre quarant’anni di informazione e racconto del reale fra radio, televisioni, enti pubblici e istituzioni. Presente nei primi telegiornali locali, e prima ancora dietro le telecamere a documentare le tensioni della cronaca nera e giudiziaria e le narrazioni della politica e dello sport, per poi abbracciare l’informazione istituzionale degli enti locali, della Regione Siciliana e dell’Assemblea Regionale Siciliana. Ho curato la comunicazione di eventi internazionali e rassegne culturali, vissuto il dietro le quinte di grandi manifestazioni sportive, e raccontato la vita pubblica. Cultore dello studio continuo ho conseguito certificazioni di respiro internazionale su politica, etica e pedagogia. La passione per la cucina siciliana, accompagna il mio percorso, tra articoli, conferenze stampa e comunicati ufficiali.
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