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I giorni che restano

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Consegna prevista Agosto 2026
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Andrea e Roberto sono amici da sempre. Un legame nato tra i banchi di scuola, cresciuto tra estati rumorose e silenzi condivisi, fino a diventare qualcosa di più profondo del tempo che passa.
Quando un evento improvviso incrina la loro routine, Andrea si ritrova a fare i conti con ciò che davvero conta: le scelte rimandate, i sogni lasciati a metà, la paura di vivere fino in fondo.
In un tempo sospeso fatto di parole sincere e ricordi che tornano a galla, nasce un viaggio diverso da ogni altro — un viaggio che parla di amicizia, coraggio e consapevolezza.
“I giorni che restano” è un romanzo sulla trasformazione e sul valore degli attimi.
Una storia che esplora con delicatezza la fragilità umana, la forza silenziosa dei legami autentici e la possibilità, sempre presente, di ricominciare.
Un racconto che lascia nel lettore una domanda essenziale: quanto di ciò che viviamo è davvero vissuto?

Perché ho scritto questo libro?

“I giorni che restano” nasce da un’esperienza vissuta anni fa che mi ha toccato profondamente e mi ha insegnato quanto il tempo sia fragile, fugace, ma anche incredibilmente prezioso.
Scrivendo, ho cercato di raccontare quel momento in cui la vita si ferma e ci costringe a guardare davvero ciò che abbiamo, ciò che siamo. È un modo per ricordare a me stesso – e forse anche agli altri – che ogni giorno può essere l’inizio di qualcosa, se scegliamo di viverlo fino in fondo.

ANTEPRIMA NON EDITATA

 

Andrea trovò la cartolina una mattina, infilata tra pubblicità e bollette. Appena la prese in mano percepì che non era come le altre. Era più spessa, quasi vellutata, ed emanava un profumo tenue, antico, come di vecchi libri e foglie secche. Stava per buttarla, preso com’era dal riflesso automatico della selezione quotidiana del superfluo. Ma il gesto si bloccò a metà. Qualcosa lo spinse a guardarla meglio. Il cuore accelerò, ma non per ansia: per richiamo. Come se avesse riconosciuto qualcosa, senza saper dire cosa.

L’indirizzo apparteneva a una via che non gli diceva nulla. Non ricordava di esserci mai stato, né di averla mai sentita nominare. Eppure, c’era qualcosa di stranamente familiare, come quando si ha la sensazione di aver già vissuto un sogno. Scosse la testa, cercando nella memoria un collegamento, ma niente emergeva. Solo quel nome, silenzioso e sospeso, che sembrava chiamarlo da un punto indefinito del passato o del possibile.

In quella cartolina c’erano solo due parole: “È ora.” Solamente due parole; eppure, erano come un battito fuori tempo. Uno squarcio nel ritmo imposto.

Andrea si sedette sul bordo del letto, la cartolina tra le mani. E per la prima volta, dopo tanto, troppo tempo, non fece nulla. Restò lì. In ascolto. Dentro e fuori. E lì cominciò tutto. O forse, finì il resto.

Si alzò. Non per dovere, ma perché il corpo lo spinse. Come se volesse sapere cosa sarebbe successo “dopo”. Andò in cucina. Le cartoline erano lì, esattamente dove l’aveva lasciate, accanto alla tazzina sporca di ieri sera. Le prese, le rigirò tra le dita. Per un istante pensò di stracciarle. Ma poi le infilò con cura nel libro che stava leggendo — una raccolta di racconti di Pessoa, che non apriva da mesi — e lo ripose sul ripiano alto della libreria.

Quel giorno non prese l’autobus. Camminò. Il tragitto fino all’ufficio non era breve — quasi quaranta minuti a piedi — ma gli sembrava l’unica cosa da fare. Le cuffie nelle orecchie, senza musica. I passi sul marciapiede umido. La gente che passava in senso opposto, con occhi bassi e camminate dritte.

Andrea guardava i visi. I dettagli. Una donna con un rossetto acceso che parlava al telefono, un ragazzo con lo zaino che mangiava una brioche camminando, un signore anziano che accarezzava un cane minuscolo. Piccole vite in movimento. Tutti sembravano sapere dove stavano andando. Tranne lui.

Arrivò in ufficio alle 9:06. Non fece rumore. Nessuno notò il suo ritardo, neppure Roberto che era già in una call. Nessuno gli chiese nulla. Si sedette. Accese il computer. Ma non aprì la posta. Restò con lo sguardo sul desktop per almeno due minuti. Poi aprì Word, una pagina bianca. E scrisse, d’istinto:

“Il tempo non torna. Ma cosa succede quando qualcuno ti dice che puoi ancora andare?”

“Forse non è il tempo che passa. Siamo noi che ci fermiamo.”

Rimase a fissare quelle parole come se le avesse scritte qualcun altro. Poi cancellò tutto. Poi le riscrisse.

Alle 10:17 il telefono vibrò. Un SMS. Numero sconosciuto. “Oggi, ore 19. Panca di ferro, lato sud del parco. – M.” Andrea sentì un brivido salire dalla schiena. Guardò il display per lunghi secondi. Lo rilesse tre volte. Poi guardò intorno. Nessuno sembrava notare nulla. Chi era M? Perché proprio lui? E come faceva a sapere tutto questo?

Poggiò il telefono sulla scrivania, come se fosse diventato improvvisamente troppo caldo. Poi se lo rimise in tasca e si alzò per andare in bagno. La mattinata proseguì, ma solo in apparenza. Compilò due fogli di calcolo. Rispose a tre e-mail. Partecipò in silenzio a una riunione online in cui nessuno sembrava sapere perché fosse convocato. Ogni parola detta rimbombava nel vuoto.

Verso le 11:30, mentre aggiornava dei dati in una tabella, iniziò a pensare alle coincidenze. Perché proprio adesso? Perché quella cartolina, quel messaggio? Era possibile che qualcuno lo stesse osservando? O era solo un gioco mentale, uno scherzo? Ma il pensiero più forte era un altro. Uno che non voleva ammettere neppure a sé stesso: “E se fosse qualcosa di vero?”

Alle 13:00 pranzo. Ma stavolta, diverso. Andò con Roberto, come sempre. Ma ascoltò davvero poco delle sue battute. Il tavolo era sempre lo stesso, quello vicino alla vetrina, dove si vedeva la fila dei motorini parcheggiati. Andrea aveva davanti a sé un piatto di pollo alla griglia con verdure lesse. Ne mangiò un paio di forchettate, poi smise. Teneva la testa leggermente inclinata verso sinistra, lo sguardo perso nel bicchiere d’acqua mezza pieno.

Roberto, che fino a quel momento aveva parlato quasi da solo — di calcio, di bollette, di una serie su Netflix — si interruppe per un istante. Lo osservò in silenzio, poi chiese con tono sincero, per una volta senza ironia: «Oh, tutto bene?»

Andrea alzò lo sguardo, come se tornasse da un posto lontano. «Sì. Solo un po’ stanco.» «Stanco? Hai dormito male?» Andrea esitò, poi rispose: «No. Anzi, ho dormito fin troppo bene.» Roberto lo fissò per un secondo, poi tornò al suo cibo e fece spallucce. «Sei sicuro di non avere una di quelle crisi da trentenni? Perché, se inizi con quelle robe lì, mi sa che ti faccio compagnia presto.»

Andrea sorrise. Ma non disse nulla. Per un attimo pensò di raccontargli della cartolina. Dell’SMS. Della panchina. Ma lasciò perdere. Non era ancora il momento. Nella testa di Andrea c’erano solo tre cose: la panca di ferro, il parco e ore 19.

Negli ultimi tempi, anche Roberto sembrava diverso. Lo notava nei dettagli, nei silenzi più lunghi del solito, nei messaggi a cui rispondeva dopo ore. Diceva che era solo stanchezza, “un periodo un po’ così”, ma Andrea avvertiva una sfumatura nuova nella sua voce. Un velo sottile, come se ci fosse qualcosa che non poteva o non voleva dire. Non tristezza, piuttosto una calma sospesa, densa di cose non dette.

Un giorno andarono a fare trekking, come ai vecchi tempi. Il sentiero saliva dolcemente, poi si apriva in un panorama di colline che sembravano respirare. Parlarono poco, ma non c’era bisogno di riempire il silenzio. Ogni tanto uno dei due accennava un sorriso, e quello bastava.
Scendendo, parlarono ancora meno. Ma non per mancanza di fiato. Era un silenzio pieno, come un accordo trovato. Alla macchina, prima di salire, Roberto gli diede una pacca sulla spalla.
«Se un giorno decidi di cambiare strada, fammelo sapere. Potrei venire anch’io… forse.»

Andrea restò immobile per un attimo, lo sguardo perso nel punto in cui la strada si piegava verso valle. Non rispose. Ma quelle parole gli rimasero addosso, come una promessa sospesa.
Mentre tornava a casa, con le scarpe impolverate e la mente ancora piena di cielo, sentì che qualcosa stava cambiando davvero. Non sapeva se dentro o fuori di sé. Forse entrambi.
E per la prima volta dopo molto tempo, Andrea non aveva paura di aspettare.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Simone Idin
Mi chiamo Simone Idin, sono nato a Roma e, anche se la mia formazione è legata al mondo dei numeri, il mio cuore è sempre stato immerso nelle parole. Ho una laurea in Finanza Quantitativa e un Master in Statistica, ma ciò che più mi definisce è la mia natura introversa e riflessiva. Mi piace osservare le persone, ascoltarle, cogliere quei dettagli silenziosi che spesso dicono più di mille parole. Amo i momenti di quiete, quelli in cui i pensieri trovano spazio per prendere forma. Scrivo perché mi rilassa, mi libera, e perché le parole sono il modo più sincero che conosco per restare in contatto con ciò che sento davvero. Mi piacciono le storie che lasciano un segno, che fanno riflettere e continuano a vivere dentro di noi anche dopo l’ultima pagina.
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